Kkot Sŏm (Flower Island)

Flower Island, il primo lungometraggio del giovane regista Song Il-gon, ci racconta tre storie di donne.

KKOT SŎMFlower Island di Song Il-gon

 

Regia: Song Il-gon. Sceneggiatura: Song Il-gon. Fotografia: Kim Myong-joon. Scenografia: Yoo Seong-heey. Montaggio: Moon In-dae. Musica: Noh Young-shim. Interpreti: Seo Joo-hee (Oknam) Im Yoo-jin (Yoo-jin) Kim Hye-na (Hye-na) Son Byong-ho (Doo-sik, marito di Oknam) Choi Jee-yoen (Young-ran) Jeoung Seung-kil (Park Hee-jin). Produttore: Ahn Hun-chan. Produzione: C & Film Production e Mandala Productions. Distribuzione: SRE Corporation. Corea del Sud/Francia, 2001, 35 mm, colore, 119'.

Un simile ritratto della solitudine e del dolore femminili racchiuso in immagini cruente e algide, dove la ricerca di un viatico esistenziale trova appagamento in un miraggio di felicità connaturato ad uno specifico luogo non sarebbe possibile se dietro la macchina da presa non ci fosse un cineasta estremamente maturo e sensibile, ancorché esordiente, come il coreano Son Il Gon. Il suo Flower Island rappresenta ciò di cui ogni manifestazione cinematografica attenta all'originalità di un'opera prima ha profondamente bisogno. Non importa affatto se il film è troppo lungo e imperfetto, se indugia su se stesso senza badare alla progressione narrativa. Questa è anche la qualità irripetibile di un giovane autore che non sa decidersi, non sa tagliare e non vuole risparmiarsi. Un autore, lo si può intuire con largo anticipo, in grado di addentrarsi nei meandri dell'animo femminile per coglierne i riflessi più invisibili, i silenzi, la sofferenza sconsolata e l'altrettanto dolente volontà di cercare una via d'uscita. Flower Island non è un film che possa accontentare chi ha fretta di capire, poiché del resto non offre risposte, né insiste sui quesiti che le protagoniste segretamente si pongono. Eppure difficilmente potrebbe annoiare qualcuno, perché sopperisce alla propria reticenza narrativa con una rigorosa messa in scena capace di trasformare ogni immagine in un quadro di pudica analisi della sofferenza e dei sommovimenti interiori. C'è dentro la consapevolezza di chi sa cosa e come raccontare una storia, tre storie per l'esattezza, che confluiscono in maniera complementare in un unico alveo di densa umanità femminile, cui l'assenza di stereotipi o di luoghi comuni conferisce ulteriore dignità e rigore espressivo.

Eppure non si tratta nemmeno di un film privo di sequenze dure e raccapriccianti: si prenda ad esempio l'aborto volontario e interminabile nel bagno pubblico della più giovane delle protagoniste. C'è in una premessa del genere la percezione completa del bisogno di allontanarsi dalla civiltà, dalla sua greve indifferenza e dai suoi strascichi societari indirizzandosi verso mete isolate, distanti e alternative a quelle consuete. Flower Island è dunque un road movie che non si prefigge alcun traguardo rassicurante, ma si concentra minuziosamente sui tempi morti, sulle pause e sull'involontario progetto di mutua assistenza che i tre personaggi femminili impostano, sospinti dal vuoto, dal diniego esistenziale e dall'assenza di tracce umane laddove il loro viaggio le conduce.

Anton Giulio Mancino