Il buco - The hole

Il cinema di Tsai è più grande di ogni sforzo interpretativo. Ed è "difficile", perché non è mai banale e prevedibile.

IL BUCOThe Hole

 

Regia: Tsai Ming-liang. Sceneggiatura: Yang Ping-ying, Tsai Ming-liang. Montaggio: Hsiao Ju-kuan. Fotografia: Liao Peng-jung. Musica: canzoni varie. Scenografia: Lee Pao-lin. Coreografia: Hsi Sung. Costumi: Chow Min. Interpreti: Yang Kuei-mei, Lee Kang-sheng, Tong Hsiang-chu. Produzione: Peggy Chiao, Carole Scotta, Caroline Benjo per Arc Light Film/Haut et Court. Distribuzione: Lucky Red. Origine: Taiwan/Francia, 1998. Durata: 93 minuti.

L'année 2000 vue par Tsai Ming-liang è un buco. Non potrebbe esserci immagine più ambivalente: il buco è il luogo di implosione e invisibilità (come i buchi neri) ma anche emblema di un varco, di una comunicazione con l'altro(-ve) che finalmente si dischiude (come la "natural burella" attraverso cui Dante esce dall'inferno). Il buco è uterino e anale a un tempo, luogo di accoglienza e generazione come di rifiuto ed espulsione. The Hole come film non è meno ambivalente. È nato su commissione - in un progetto di dieci film affidati ad altrettanti registi per raccontare il passaggio dal secondo al terzo millennio - ma è, a tutti gli effetti, un film d'autore. E, pur riproponendo il solito paesaggio umano e coscienziale (già disegnato da film come Vive l'Amour e Il fiume), per la prima volta si apre a una dimensione onirica e fantastica.

Andiamo con ordine. Siamo a Taipei e mancano sette giorni al Duemila (come ci avverte un notiziario radio). La città è battuta da una pioggia incessante ed è colpita da un'epidemia. Protagonisti sono un uomo e una donna, inquilini dello stesso palazzo, costretti a entrare in relazione per via di un buco creato dall'imperizia di un idraulico. È tutto qui (o quasi); e non è poco. Perché ogni elemento - dalla cronologia alla metereologia, dalla patologia alla topologia - pare una cassaforte di simboli. E fa risuonare nella memoria assonanze di vario genere. È inevitabile, per esempio, il confronto con lo scenario biblico. In questo contesto apocalittico, sembrano ripresi paradossalmente i dati essenziali della Genesi: la settimana della Creazione, l'uomo e la donna. Ma è un paradiso terrestre degradato, un Eden di cemento, palcoscenico non più dell'origine ma di una probabile fine. Eppure una sottotraccia ironica (filosoficamente) che sembra avere le sue ascendenze in Beckett (Giorni felici, Aspettando Godot) o in Kafka (La metamorfosi) ci induce a una visione meno univoca. L'epidemia, forse, non è solo un tratto millenaristico. L'insorgere di un'emergenza di questo tipo connota da sempre la lacerazione di un tessuto sociale al cui interno si muovono personaggi in cerca o in fuga. È così nella Tebe di Edipo come nell'Atene descritta da Tucidide o da Lucrezio, nella Firenze del Decameron come nella Milano dei Promessi Sposi.

Lo stesso elemento acquatico - cifra stilistica ricorrente di Tsai - è ambivalente. La pioggia di The Hole assomiglia a quella di Blade Runner o di Seven, di Black Rain o di La nube. È l'acqua che cade su un mondo terminale, dolente, corrotto, malato. Non assolve alcuna funzione lustrale, ma assume una valenza punitiva. O forse penitenziale. Perché, come nel diluvio, questo "Waterworld" orientale è essenzialmente distruttivo, ma non senza spiragli. I sinologi spiegano che "l'acqua è "Wu-chi", il "senza culmine", il Caos primitivo. Le acque, che rappresentano la totalità delle possibili manifestazioni, si separano in acque superiori, che corrispondono alle possibilità informi, e in acque inferiori che corrispondono alle possibilità formali" (Dizionario dei simboli, Rizzoli). Impossibile non pensare alla dialettica tra piano superiore e piano inferiore creata dal buco nel pavimento (o nel soffitto, a seconda dei punti di vista). Impossibile non ripensare all'alternanza sogno-realtà che punteggia il film con quei siparietti musicali. Si può ballare e cantare sotto la pioggia, ma forse non è solo una fuga onirica e allucinatoria. Le luci, i vestiti, le musiche sono quelli ipercolorati della "fiction", ma gli ambienti rimangono quelli della realtà. Un travestimento ironico che rende ancora più lacerante la percezione del mondo o un contrappunto giocoso e surreale cui aggrapparsi? A questa come alle tante problematiche sollevate dal film non è possibile opporre risposte certe. Il cinema di Tsai è più grande di ogni sforzo interpretativo. Ed è "difficile", perché non è mai banale e prevedibile. I suoi film non sono storie illustrate (come la maggior parte del cinema di oggi), ma vere "audiovisioni" per quanto fanno pulsare i corpi e la vita, con i suoi flussi di rumori, coscienza, sentimenti, sogni. Il suo cinema è fino in fondo "esperienza". Che, mentre ragiona sul senso del tempo in cui siamo, mostra il mistero stesso del nostro essere nel tempo. Rivelando tutta la precarietà, la permeabilità e la minaccia a cui l'essere va incontro, ma anche la forza originaria dell'incontro e della solidarietà. Basta un bicchiere passato dal "buco" - primo contatto positivo che si stabilisce tra i due - per sentire una pregnanza di senso degna della riflessione di Heidegger (noi non siamo nel mondo come l'acqua in un bicchiere: il nostro essere è essenzialmente un "esserci"). "Essere e tempo". Essere "nel" tempo. Essere aperti alla trasformazione (negativa o positiva, come nel caso della malattia o in quello del musical). Essere coscienti del proprio limite, ma anche disponibili all'infinita varietà che il "mar de l'essere" riserva. Rivitalizzato dal desiderio, dal sogno (forse anche dal cinema), il "tempo" dell'uomo mostra la sua ambivalenza. É un tempo morto e vivo. Vuoto eppure pieno. Uno spreco ma anche un dono. E il tempo dell'arte assomiglia a quello della mistica: è fatto di assenza, silenzio, rivelazione. É tempo perduto. Ed è tempo ritrovato. Già sapevamo che al fondo (all'origine) di ogni "recherche" c'è un "temps retrouvé". Ora ci sembra che la parola suoni diversa. "Re-trou-vé". Quasi come "trou rêvé".

Ezio Alberione