Viaggio in Iran: il paesaggio del cinema iraniano

Il paesaggio è uno dei grandi motivi significanti della cinematografia farsi. Da ‘Abbâs Kiârostami a Bahman Qobâdi, da Amir Nâderi a Samirâ Makhmalbâf, passando per Dâriyush Mehrju'i, Bahrâm Beyzâ'i, Ja'far Panâhi e molti altri, quasi ogni regista iraniano ha fatto i conti con lo splendido e affascinante paesaggio persiano. Ancorandolo al proprio immaginario cinematografico.

VIAGGIO IN IRAN: IL PAESAGGIO NEL CINEMA IRANIANO

 

 

 

"Ove mai degli autunni che verranno
Potrà dire una bocca
Con disegni di fiore
L'incanto del viaggiare?"

Le membra del paesaggio, Sohrâb Sepehri

 

Introduzione: voyeur e voyageur
Un'auto percorre una strada statale. Dentro di essa vi sono due persone, un padre e un bambino. La meta del loro viaggio è Kokér, paese di montagna del Gilan colpito da un terribile terremoto; l'obiettivo quello di scoprire se due loro piccoli amici, che abitano nella zona sismica, sono sopravvissuti alla calamità naturale. Siamo nell'estate del 1990 e in Italia si stanno disputando i mondiali di calcio. Il bambino, Puya, prova a dare una flebile speranza alla ricerca: magari – dice – i due ragazzi, la sera del terremoto, invece di rimanere in casa, sono scesi in città per vedere la partita Brasile-Scozia. Se fosse stato così avrebbero avuto salva la vita. Dopo alcuni chilometri, Puya chiede al padre di arrestare la corsa dell'auto, per fare pipì; una volta in mezzo ad un prato, sotto un albero, il bambino raccoglie una cavalletta e la porta con sé nella Renault 5. Qui, entusiasta, fa vedere il piccolo insetto al padre, il quale per seguire le evoluzioni del figlio rischia un incidente stradale. Lo scampato pericolo fa arrabbiare Farhad che ordina a Puya di gettare la cavalletta fuori dal finestrino e di mettersi a dormire. Poco prima di entrare in una galleria, dopo essersi "sbarazzato" della locusta, il ragazzino chiude gli occhi e si addormenta. Partono i titoli di testa.

Inizia così E la vita continua, film di ‘Abbâs Kiârostami che si ispira ad un fatto vero (il terremoto del 1990) e che narra la storia di Farhad, un regista cinematografico, e di suo figlio Puya, partiti da Teheran alla volta di Kokér per cercare, tra i sopravvissuti, due giovani attori non professionisti che avevano recitato in una precedente pellicola di Kiârostami (Dov'è la casa del mio amico) ambientata proprio nel Gilan. Nella prima sequenza della pellicola ritroviamo una perfetta sintesi della relazione che intercorre tra cinema e paesaggio, tra arte delle immagini e delle rappresentazioni e materia da rappresentare. L'episodio appena descritto non funge soltanto da introduzione al film – le "avventure" di Puya e Farhad cominceranno, in effetti, dopo i titoli di testa e si trasformeranno, ben presto, in un itinerario di scoperta e testimonianza della profonda umanità che cova nell'animo delle popolazioni terremotate, di chi lotta, giorno per giorno, contro il trauma della morte e del dolore – ma manifesta, attraverso poche e simboliche azioni, la prospettiva stilistica e morale adottata dal regista per narrare un soggetto così delicato: il paesaggio (in questo caso un paesaggio terremotato, ma il discorso può essere generalizzato) entra nel cinema come la cavalletta all'interno dell'automobile (doppio della "macchina" da presa), in un moto di ingenuo entusiasmo (Puya e la convinzione di poter allevare l'insetto) e, nel contempo, di consapevole e inevitabile rifiuto (Farhad che invita il bambino a disfarsi dell'animale). Da una parte la settima arte cerca di catturare il fascino della natura, la mutevolezza di ogni territorio, le dinamiche degli spazi, i giochi di luce, dall'altra toglie alla materia la sua caratteristica principale, la concretezza, la tangibilità, svellendo ogni luogo dalla sua topografia fisica per trasferirlo in un territorio geografico virtuale, quale può essere considerata la finzione cinematografica. All'interno di questo processo di creazio-ne/distruzione della natura un ruolo speciale è assegnato allo spettatore. Come afferma Sandro Bernardi, "paesaggio significa non solo rapporto fra personaggio e spazio, fra uomo e mondo, ma anche rapporto fra diversi livelli di sguardo; c'è l'osservatore, che è un personaggio, e la cinepresa, che osserva l'osservatore [...]. Dietro l'osservatore e dietro la cinepresa però un altro sguardo sta in aggua-to, nell'ombra, quello dello spettatore, che organizza e struttura il suo rapporto con il film secondo codici e modelli culturali sempre diversi". In altre parole, il dato scenografico si struttura attorno a tre diverse esperienze visive – lo sguardo dei personaggi dentro il film, lo sguardo del film, lo sguardo dello spettatore sul film – che trovano nella dimensione del viaggio il loro denominatore comune. Chiunque sia colui che osserva il paesaggio (protagonista, regista o spettatore), occorre che assommi al ruolo di voyeur anche quello di voyageur. Senza il movimento – interno al film – di un personaggio, di un'automobile o di un treno, o – esterno alla diegesi – di una panoramica o di un dolly, il paesaggio non potrebbe avere centralità espressiva. Tuttavia se spostarsi nello spazio diventa azione indispensabile per catturare più "realtà" possibile, ne sancisce, allo stesso tempo, l'illusorietà dell'atto: come avviene in un sogno (quello che si appresta a fare Puya una volta entrato nella galleria) lo spettatore "visita" territori nuovi senza muoversi dalla propria poltrona. In tal senso, si prefigura come essenziale all'analisi filmica non tanto la fisicità del movimento, quanto la capacità di assegnare sempre nuovi significati al movimento stesso. È ciò che tenta di fare il cinema iraniano sfruttando la ricchezza topografica del proprio territorio non solo per rendere affascinante ogni singola inquadratura, ma per gremirla di contenuti e piani di lettura. Ed è ciò che, in seconda battuta, si propone di compiere questo studio, attuando una sorta di "semantica" del paesaggio, ovvero di decodifica dei vari significati che ha assunto il contesto ambientale nell'opera di quei cineasti iraniani che, negli ultimi vent'anni, si sono fatti conoscere dal pubblico di tutto il mondo.

Il naufragio
Non è un caso se il cinema iraniano degli ultimi decenni assomigli molto ad un cinema "in" e "di" viaggio. Bambini che vanno alla ricerca di un compagno di classe per riportargli un quaderno (Dov'è la casa del mio amico, ‘Abbâs Kiârostami) o che cercano la strada per tornare a casa dopo essersi persi nelle strade caotiche di una città (Lo specchio, Ja'far Panâhi), insegnanti che percorrono chilometri a piedi pur di raggiungere i loro alunni (Lavagne, Samirâ Makhmalbâf), uomini alla ricerca di vecchie tradizioni del passato (Il vento ci porterà via, ‘Abbâs Kiârostami), e ancora donne che viaggiano per tutto l'Iran in occasione di un'elezione politica (Il voto è segreto, Bâbak Payâmi), adolescenti che scappano da un territorio in guerra per rifugiarsi da una famiglia di contadini (Ba-shu il piccolo straniero, Bahrâm Beyzâ'i). Se alcuni critici hanno individuato, tra le caratteristiche peculiari della cinematografia persiana, lo stile (neo)realista, il ricorso a racconti minimalisti, la forte connotazione simbolica delle vicende e degli oggetti scenografici, l'innalzamento dei bambini e degli adolescenti al rango di protagonisti assoluti delle storie, non altrettanti hanno rimarcato che questi stessi film hanno tentato un inusuale (per provenienza) quanto intelligente aggiornamento del road movie: alle ambientazioni chiuse e asfittiche comuni a gran parte delle pellicole europee, americane ed est-asiatiche, da cui si agita quel senso di claustrofobia che caratterizza e pervade le società postmoderne, si contrappongono le pellicole persiane che fanno del movimento dei personaggi in plein air e del tema della strada contrafforti essenziali della narrazione. Proprio come avviene nel road movie, il paesaggio si "costruisce" attorno agli eroi cinematografici non in termini di semplice scenografia o contorno illustrativo, ma come un personaggio tra i personaggi, crocevia dove si intersecano tutti i fili conduttori di una storia. Sergio Arecco, nell'introduzione al libro Il paesaggio del cinema, adotta il termine "naufragio" per indicare tale luogo. "Il naufragio può essere salvifico o meno, ma resta comunque il tratto, o la traiettoria saliente di quella dialettica del vuoto che regola sempre i rapporti formali in tema di cinema e paesaggio. Nel senso che il vuoto non può rimanere tale e deve dialetticamente colmarsi di figure, popolarsi, gremirsi, per poi magari deterrito-rializzarsi e tornare alla cifra originaria". In altre parole, la dimensione panica acquista rilevanza solo se vi è un personaggio che vi "naufraga" dentro, instaurando così una relazione indissolubile tra destino dell'individuo e sua collocazione geografica. Nel recente film di Bahman Qobâdi (o Ghobadi), Il tempo dei cavalli ubriachi, si trova un illuminante esempio di quel che Arecco chiama "naufragio". Il film narra le vicende di cinque giovani fratelli, orfani di genitori, che cercano di sopravvivere ad una vita che riserva loro poche soddisfazioni: vivono in uno sperduto villaggio di montagna nel Kurdistan iraniano al confine con l'Iraq, coperto di neve e ghiaccio, dalla vegetazione rada e spoglia, circondato da minacciose pareti di roccia; Madi, il fratello maggiore, ha una malattia genetica che lo conduce, giorno dopo giorno, alla morte; dei restanti fratelli solo il quindicenne A-youb può lavorare (gli altri sono ancora più piccoli), ma la sua è un'occupazione pericolosa e poco redditizia, il contrabbando. Per permettere al fratello disabile di essere operato, si decide così di combinare un matrimonio tra la sorella maggiore (tredici o quattordici anni) e un benestante signore iracheno che ha promesso di prendersi cura di Madi. Nel corso della sequenza in cui si celebra il matrimonio (poco più che passaggio di "proprietà" della ragazza da un nucleo famigliare all'altro), la madre dello sposo si rifiuta di prendere con se il fratello handicappato e lo baratta con un mulo. Il contratto matrimoniale è firmato, non si può più tornare indietro, così gli altri fratelli devono assistere impotenti all'addio della sorella, senza che il suo "sacrificio" sia servito a qualcosa. L'intera scena è ambientata nella conca innevata di una valle al confine tra Iran e Iraq. La macchina da presa assiste alla vicenda da lontano, in campo lunghissimo, in un silenzio che ovatta le voci delle due comitive, facendone risuonare appena l'eco. Accanto alla cinepresa (e allo spettatore) è seduto Madi che non può prender parte alle contrattazioni e osserva, inerme, la sconfitta di qualsiasi speranza di salvezza. Se il naufrago è colui che vive sulla propria pelle l'affondamento e la successiva deriva, succube delle forze della natura, cosciente della propria probabile morte, allora Madi è uno di questi: la neve si sostituisce all'acqua, il paesaggio marino si trasforma in paesaggio montano, il vento si alza gelido e assidera il piccolo protagonista. Le avverse condizioni del tempo paiono capricciose nella stessa misura in cui lo è la donna irachena. L'inquadratura si riempie di vuoti, tanto che le figure scure che si stagliano sul bianco della neve – uomini e donne di cui si intravede solo la sagoma – non sembrano esseri umani ma i fantasmi che accompagneranno Madi verso la sua fine. Così come in mare aperto, non esistono punti di riferimento geografici cui appigliarsi: il confine che separa l'Iran e l'Iraq, pur teoricamente presente, calpestato e attraversato dai personaggi, non esiste, perché inevitabilmente sommerso dalla neve.

Un caso analogo avviene in Acqua, vento, terra di Amir Nâderi. La pellicola citata narra la storia di un ragazzo che vuole ritrovare i propri genitori nonostante questi ultimi lo abbiano abbandonato ancora neonato. La regione dove vivono è deserta, colpita da una siccità che costringe i suoi abitanti a fuggire, spazzata via da un vento che non arresta mai la sua furia, ma che, anzi, solleva in aria polvere e terra. Mentre fantasmi ricoperti di sabbia (anche in questo caso dunque gli uomini sono ridotti a incorporei simulacri) scappano da quel territorio secco e senz'acqua, il ragazzino segue un itinerario letteralmente "controcorrente". Egli sembra essere un novello Noè, costretto a sopravvivere ad una punizione divina che intende cancellare dal mondo ogni traccia umana prima di riportare la vita sul pianeta. Lo conferma una delle sequenze più intense, lancinanti ed espressive del film. Nel corso della sua faticosa ricerca, il ragazzo si imbatte in un neonato abbandonato, evidentemente un suo doppio. Cosciente di non poterlo accudire, obbligato quindi a ripetere, almeno in parte, lo stesso "peccato" originario commesso dai suoi genitori, lo disseta con un po' d'acqua (ne raccoglie dell'altra in un secchio e la posa accanto a lui) e lo abbandona sulla strada sperando che una famiglia, attirata dalla possibilità di dissetarsi, venga a prenderlo e lo porti con se. Nondimeno, quando un gruppo di persone transita per quella strada, il protagonista rivive, una seconda volta, il proprio "naufragio": quella famiglia non si prende cura del neonato (proiezione del protagonista), ma beve l'acqua del secchio e se ne va. Il ruolo dell'ambiente esterno è decisivo per rafforzare que-sta sensazione: in una sequenza costruita come fosse un film muto, nessuna parola viene pronuncia-ta perché non occorre aggiungere altri significati all'episodio, ci sono solo gesti resi faticosi dalle avverse condizioni meteorologiche e un vento che alza nuvole di sabbia e che nasconde, oltre alle sagome delle persone, ogni forma di umanità, trasformando gli uomini in animali, i genitori in infanticidi.

Terra, vento, acqua, neve e – come risultato del loro movimento panteistico – siccità, tempesta, temporale, burrasca: è attorno alla fisicità del territorio e alla sua intima vitalità che si erige la funzione significante del paesaggio. La definizione di "naufragio" adottata da Arecco è convincente perché esprime quell'idea di dialettica degli equilibri che ogni movimento interno ad un'inquadratura produce. Il paesaggio, infatti, è il risultato di un sottile gioco di bilanciamenti tra i moti che "sconvolgono" l'immagine cinematografica: il movimento del territorio (terremoti, nevicate, tempeste di sabbia), quello dei personaggi (attraversamenti, immersione, staticità dell'eroe cine-matografico), quello della macchina da presa (dolly, panoramiche, zoom). È dal dialogo tra queste tre direttrici – dialogo che prevede anche l'assoluta paralisi di tutti e tre gli elementi, come dimo-strerà lo schermo nero di Il sapore della ciliegia di ‘Abbâs Kiârostami – che il contesto ambientale acquista una imprescindibile dimensione connotativa.

L'umanizzazione del paesaggio
Una delle caratteristiche più interessanti del cinema iraniano è la profonda "umanità" presente in ogni suo film. Il personaggio, o meglio la persona, è al centro della poetica di quasi tutti gli autori persiani, da Kiârostami a Panâhi (si pensi all'affresco femminista de Il cerchio dove, appunto, al centro del "cerchio" narrativo si trovano tre donne e le loro storie di discriminazione, disagio, oppressione), da Mohsen Makhmalbâf (per trovare conferma basterebbe citare la puntata afgana del regista che, in Viaggio a Kandahar, narra la storia di una donna che ritorna al suo paese per vedere se esistono ancora tracce d'umanità e amore) a sua figlia Samirâ (La mela è un tenero racconto di formazione incentrato su due ragazze ritardate). Non si tratta semplicemente di attenta caratterizzazione dei personaggi, di minuziosa introspezione, di descrizione dei moti dell'animo umano o anche solo di scelte narrative che privilegino la focalizzazione interna. In fin dei conti, è caratteristica universale della settima arte strutturare un film attorno alle azioni di uno o più protagonisti. Ciò che differenzia le produzioni iraniane da quelle di molti altri paesi, è la spiccata "moralità" del punto di vista scelto per raccontare tali storie. Pur rischiando, in taluni casi, di toccare il didascalico (è il caso ad esempio di Il voto è segreto di Payâmi), o la superficialità del film-metafora (Il silenzio di Mohsen Makhmalbâf), il cinema iraniano ha creato un corpus di opere dove all'estetica si salda l'etica della rappresentazione. Personaggi, luoghi, oggetti non hanno valore di per se, ma in quanto portatori di temi universalmente riconosciuti e condivisibili. Ci si trova innanzi a storie che servono da pretesti per riflettere su tematiche sociali, per condividere pensieri e idee che fanno parte dell'esperienza umana, per rappresentare diritti dell'uomo negati o garantiti. Non a caso i cineasti iraniani fanno ricorso al "film di formazione", un genere cinematografico che contiene già in se quelle aspirazioni idealistiche di cui abbisognano i cineasti. Ciò determina un'istanza di "umanizzazione" del paesaggio attraverso il recupero delle categorie che le tradizionali culturali associano ge-neralmente alla terra: maternità, protezione, procreazione da una parte, morte, seppellimento, ritor-no alla cenere dall'altro, facendosi, nello stesso tempo, culla e sarcofago del personaggio. Avviene, ad esempio, in Bashu il piccolo straniero, film di Bahrâm Beyzâ'i che narra la avventure di Bashu, giovane ragazzo fuggito dalla guerra, riparatosi in mezzo alla natura, scovato ed educato, come fosse un ragazzo selvaggio, da una giovane madre. La relazione che i due protagonisti istaurano non è fatta di parole, di educazione o di "cultura" (nella sua accezione di "coltivare"), ma si costruisce attorno ai gesti, agli sguardi, al tatto, all'istinto, alla passione. Madre e figlio (adottivo) danno vita ad un legame animalesco e selvaggio. Beyzâ'i – nella sua metafora contro la guerra, causa dell'imbarbarimento e della corruzione dell'animo umano – intravede, quale unica possibile salvezza dell'umanità, una sua immersione nella natura (si pensi alla verde vegetazione o ai campi di grano che nascondono letteralmente Bashu agli occhi degli abitanti del villaggio) e un ritorno alla "cultura" attraverso tutti gli stadi dell'evoluzione "antropologica". In Gabbe, Mohsen Makhmalbâf identifica nell'elemento paesaggistico il nucleo delle scienze e delle arti, ovvero di quelle attività che caratterizzano "l'animale umano" rispetto agli altri animali. Il gabbeh è una varietà di tappeto persiano molto particolare, tessuto da alcune tribù nomadi del sud est iranico in via d'estinzione. Le donne disegnano (con tinture vegetali da loro stesse preparate) temi ornamentali che si fondono con i paesaggi che, di volta in volta, il popolo nomade attraversa. "Se si sta attraversando il deserto vi sarà il giallo; se qualcuno muore del nero; se c'è una nascita, apparirà un bimbo; per una storia d'amore colori vivaci e gioiosi". Dalla trama di uno di questi tappeti, prende vita una bellissima ragazza, Gabbeh e il film, che fino a quel momento si dipanava nei binari del documentario, si trasforma in fiction, nel racconto di una storia d'amore tra la giovane fanciulla e un cavaliere dall'oscura identità. Arte, tradizioni, cinema, procreazione, vita, morte, si mescolano insieme e trovano la loro espressione comune nella dimensione del viaggio, essenza stessa della vita nomade, nel paesaggio continuamente cangiante e nella trasposizione in arte e dei luoghi di volta in volta attraversati.

Ma è nel cinema di ‘Abbâs Kiârostami che il paesaggio si fa vero e proprio alter ego dell'individuo, specchio che riflette la nudità di ogni uomo, e in particolare dell'artista. In Il vento ci porterà via, Farzhad, capo di una troupe televisiva che vuole documentare un funerale tradizionale che si celebra soltanto in un remoto villaggio curdo, scopre, giorno dopo giorno, che il suo soggiorno in quel villaggio è un'intima e personale occasione per scoprire l'autenticità e la limpidezza che alberga nell'animo umano. Gli immensi campi di grano, le piantagioni di fragole, la grotta dove scende a prendere il latte (anche il nero di una grotta, simbolo dell'utero materno, è per sua stessa essenza paesaggio), la collina del cimitero, sono luoghi che accolgono il personaggio e ne svelano, in un sol momento, la meschinità e la profonda umanità. Non a caso il film termina con l'inquadratura di un osso umano che, gettato da Farzhad nell'acqua, scende veloce lungo il ruscello (altro "territorio" in movimento): il gesto del protagonista è un evidente segno dell'immersione dell'uomo nel paesaggio, di fiducioso abbandono in una corrente che guida e protegge i passi dell'umanità.

Il finale di Sotto gli ulivi è uno dei momenti più alti del cinema di Kiârostami. Tahereh sta tornando a casa dopo aver lavorato come comparsa in un film. Accanto a lei c'è Hossein, giovane figu-rante che ama la ragazza e la corteggia da qualche giorno. Egli attende, con una fiducia che rasenta l'illusione, che lei accetti la sua proposta di fidanzamento, ma Tahereh non si è ancora pronunciata. Mentre passeggiano sotto un verde uliveto, il ragazzo gioca le sue ultime carte per cercare di coronare il proprio sogno. Il sentiero che percorrono supera una collina e scende verso una valle rigogliosa. Una volta in cima al poggio però, la macchina da presa si arresta, non segue più i due giova-ni limitandosi ad osservarli mentre si allontanano. Quando ormai sono diventati, agli occhi dello spettatore, poco più che piccoli puntini immersi nella natura, un brano di musica classica inizia a ri-suonare allegro in sottofondo e suggerisce un probabile assenso della ragazza. "La musica di Cimarosa, leggermente allegra, dichiara quello che noi non possiamo intendere, lasciando ai personaggi il loro segreto: questo commento senza ipocrisia lascia misurare quello che la vita deve all'arte, perché senza di essa, il disvelamento avrebbe avuto la stessa chiarezza, ma sarebbe stato compreso dal-la ragione e non dal cuore. Hossein ritorna indietro di corsa quasi volesse affacciarsi davanti alla macchina da presa e informare lo spettatore del finale positivo, ma i titoli di coda interrompono la sua corsa e lo spettatore non saprà mai con certezza la risposta di Tahereh. Il paesaggio rimane il solo custode del segreto della coppia, la accoglie, la protegge, la esclude alla vista del pubblico ma anche dello stesso regista. Ne Il sapore della ciliegia ci troviamo di fronte ad un caso analogo an-che se contrario nell'esito. Un aspirante suicida, Badii, viaggia in macchina nella periferia di Tehe-ran alla ricerca di una persona disposta ad interrarlo, il giorno successivo alla sua morte. Il paesaggio che circonfonde Badii appare lo specchio della sua coscienza: brullo, morto, fatto di terra gialla, pieno di buche (dentro le quali continua a inciampare la sua vettura), di strade cieche e polverose, coperto da una vegetazione composta di pochi alberi e poche zone verdi, le case trasformate in pala-fitte senza fondamenta. I soli animali che il protagonista incontra nel suo viaggio sono corvi, funesti ambasciatori di morte. In una sequenza ambientata in una cava di terra , una ruspa sommerge il suicida mettendo in pratica (il sotterramento) ciò che il personaggio chiede di fare ai passanti che incontra. L'ambiente naturale procede nel suo percorso di umanizzazione, prolungando le azioni dell'eroe cinematografico e trasformandosi, di conseguenza, in un nuovo soggetto demiurgico simi-le a quello del regista. Da questa prospettiva, l'ambiente non è soltanto il luogo fisico del naufragio, spazio nel quale le dinamiche e i conflitti narrativi in atto deflagrano violentemente, ma è anche ap-prodo del naufrago, entità terza che vive (quasi) indipendentemente da un metteur en scène che lo riprenda e lo riproduca attraverso l'occhio della macchina da presa. Nel momento in cui Kiârostami affida i suoi personaggi all'ambiente (avviene nei finali di E la vita continua, Sotto gli ulivi, Il sapore della ciliegia), non solo annulla la propria funzione di autore, ma crea un cortocircuito dentro il quale il paesaggio fittizio del cinema si trasfigura in paesaggio reale, concreto. La macchina da presa arresta la sua azione. Rimane la natura. Essa esisterà indipendentemente da una sua (eventuale, a questo punto) raffigurazione cinematografica o fotografica.

La fallibilità dell'occhio

"La vista perse la strada"

Preghiera, Sohrâb Sepehri

L'esegesi del paesaggio cinematografico è, tuttavia, correlata alle logiche dello sguardo, alla base delle quali, nel cinema come nelle altre arti figurative, si situa ogni processo creativo. Il punto di vista, l'osservatore, l'atto dell'osservare, il tipo di focale con cui riprendere un dato oggetto sono elementi altrettanto importanti della materia da riprendere. Riflettere sulle problematiche dello sguardo equivale pertanto a riflettere sull'essenza stessa del cinema e, dunque, a vertere la propria ricerca anche su un piano metalinguistico. Se il cinema iraniano degli ultimi decenni ha trasformato il metacinema in uno dei suoi temi più ricorrenti, probabilmente la ragione è da ricercare nei limiti che la "decima musa" manifesta, in particolar modo sul versante realistico della rappresentazione. Film molto diversi tra loro sono accomunati dalla convinzione che l'occhio della cinepresa (e di conseguenza quello del regista) sia fallibile, incapace ad esprimere l'eterogeneità dell'esperienza fenomenica. Nel già citato Il vento ci porterà via, ad esempio, il protagonista Farzhad compie il proprio viaggio di scoperta e di immersione nel paesaggio solo dopo aver rinunciato al più impor-tante (cinematograficamente parlando) dei cinque sensi, la vista: abbandona la macchina fotografica ad un bar (una versione meccanica dell'occhio), parla con uno scavatore senza riuscire a vederlo in faccia (l'uomo parla con Farzhad mentre scava un pozzo), ascolta una poesia all'interno di una grot-ta buia. Alla fine del film Farzhad avrà rinunciato al "positivismo" dell'occhio, a quella fiducia (tipicamente occidentale) nell'efficacia assoluta dei sensi. In Lo specchio assistiamo ad un ribaltamento dell'espediente sin qui descritto, determinato dalla rottura del gioco della finzione. Nella seconda parte del film, il corpo della bambina sparisce letteralmente alla vista dello spettatore, co-perto da persone, vetture, altri oggetti. La fallibilità dell'occhio concerne non più il personaggio ma la macchina da presa, mostrando i limiti del pedinamento zavattiniano, e nel contempo l'impossibilità di scegliere altri modelli di rappresentazione del reale. Rimane il frenetico e vorticoso paesaggio della città, i fumi, i clacson, lo stress e il delirio che ne scaturisce. In entrambi i film – ma potremmo citare anche Il silenzio di Mohsen Makhmalbâf, storia di un giovane accordatore di strumenti musicali cieco – la sconfitta dello sguardo statuisce una diversa natura del viaggio e di conseguenza una diversa natura del paesaggio. Nel momento in cui l'itinerario dell'osservatore si trasforma nell'itinerario di un cieco anche il territorio perde la sua dimensione fisica per assumerne una "metafisica", da oggetto da osservare si trasforma in effigie da immaginare. L'esempio più lampante arriva, ancora una volta, da un film di Kiârostami. In Dov'è la casa del mio amico il piccolo Ahmad cerca per buona parte del film il domicilio di un suo compagno di classe per restituirgli un quaderno. Quando arriva finalmente davanti alla casa, dopo tante faticose peripezie, la notte è calata e si scorge a fatica tra le tenebre la figura di Ahmad. Anche la casa è buia, solo la porta illuminata. Nel buio avviene il colpo di scena: il ragazzo invece di entrare nella, torna sui suoi passi e abbandona la ricerca. Le domande restano senza risposta: la casa non è quella dell'amico? Ahmad ha paura e non osa entrare in quell'abitazione? Ha cambiato idea all'ultimo? Quel che rimane è la rimozione fisica di un luogo tanto agognato e l'obbligo, da parte del pubblico, di immaginarsi una ragione della scelta e costruirsi un proprio paesaggio.

Anche la terra che dovrebbe accogliere il suicida Badii rimane in un simbolico fuoricampo. Al termine di Il sapore della ciliegia, un film che – come accennato poco sopra – ha nel territorio uno specchio fedele dello scoramento del protagonista, l'uomo si sdraia per terra in attesa che la morte lo colga. La cinepresa lo inquadra in primo piano e poi riprende, come soggettiva del protagonista, le nuvole e la luna. Non c'è più spazio per una panoramica o una carrellata che apra sul paesaggio. Laddove fallisce la vista, la presenza del contesto ambientale si sposta, pertanto, dal "battere" al "levare" (dal campo al fuori campo), senza che questo mutamento di funzioni ne metta in dubbio la centralità del ruolo all'interno dello spartito filmico. Anzi, come avviene nei film di Kiârostami ma non solo, tale "sottrazione" paesaggistica finisce per essere un altro modo per attribuire significazione al dato empirico.

Un finale (aperto): l'eco del paesaggio
Il paesaggio iraniano è uno dei più ricchi ed eterogenei al mondo. Mari e montagne, deserti e pianure rigogliose, metropoli e villaggi incontaminati, distretti industriali e campi di grano o risaie. La settima arte, onnivora divoratrice di luoghi, ne ha dato in questi anni un'inevitabilmente ricca raffigurazione. Ciò che i più assidui viaggiatori dei territori persiani notano, però, non è tanto la varietà della natura o la presenza di dicotomiche cornici ambientali, quanto piuttosto, come osserva Riccardo Zipoli, "una mutevolezza delicata, basata sulla molteplice possibilità di osservare una stessa veduta, di cogliere significative varianti di una medesima immagine. Un qualsiasi paesaggio fissato è solo uno dei tanti nascosti nel primo e occasionale spettacolo scoperto, è una qualunque delle mille interpretazioni che quell'unico copione cela tra le righe. [...] Innumerevoli varianti con tenui ma espressivi mutamenti esistono realmente in ogni scorcio, risultando in genere dovuti alle influenze diverse di due fattori quali la luce e il punto di vista. La qualità intrinseca e l'azione condizionante di questi due elementi non trovano riscontro nel nostro mondo". Se si osservano attentamente i film iraniani si comprende quanto il paesaggio sia il risultato di una paziente opera di attesa e di ponderazione registica. Campi lunghi o lunghissimi, grandangoli, filtri ottici spesso non sono sufficienti per catturare il significato di un determinato dettaglio naturale. È una questione di equilibrio degli spazi, delle vie di fuga, degli oggetti che entrano all'interno dell'inquadratura. Il fuoco sprigionato dai pozzi petroliferi, effige della forza di volontà che brucia dentro il cuore del protagonista di Il corridore di Amir Nâderi, trova la sua giusta dimensione geometrica quando fa da sfondo al piano americano che mostra il protagonista in trionfo dopo aver vinto una gara di corsa; Kiârostami utilizza una leggera e impercettibile carrellata ottica (un recadrage) per mostrare il disegno a zig-zag della strada che percorre la R5 nell'ultima sequenza di E la vita continua. Come afferma Sandro Bernardi "il paesaggio è un'esperienza, non un oggetto autonomo, e studiarlo significa studiare una cultura, il suo modo di costruirsi lo spazio, di rapportarsi a se stessa, quel rapporto fra il noto e l'ignoto che abitualmente chiamiamo "mondo"". Il territorio cinematografico è del "mondo" – così concepito da Bernardi – una cassa di risonanza, un'eco che amplifica i conflitti/movimenti in atto, entrando in scena in un (impercettibile) secondo tempo, trasformandosi da semplice cornice dell'immagine a presenza terza, espressione di una forma mentis (del regista, solitamente, ma anche del personaggio o dello spettatore) priva della sua impronta "soggettiva". Che sia luogo del naufragio, personaggio (nella sua carica più umana) tra i personaggi, strumento per raggiungere il trascendente o, viceversa, la concretezza della realtà fenomenica, il paesaggio pare essere, in molti film iraniani, il punto di riferimento cui ancorare non solo il piacere della visione, ma anche la portata connotativa della storia. Non pare casuale il fatto che molte delle pellicole citate terminino con quelli che comunemente vengono definiti "finali aperti": non assistiamo a nessun colpo di scena conclusivo, le storie si aprono a diversi epiloghi o a diverse interpretazioni, i personaggi scompaiono dalla vista degli spettatori, senza che a quest'ultimo sia data nemmeno la soddisfazione di assi-stere alla scioglimento di tutti i conflitti. In tutti i casi, da Il sapore della ciliegia a Il tempo dei cavalli ubriachi, da Djomeh a Lavagne, da Sotto gli ulivi a Acqua vento terra, in assenza di sicure coordinate critiche, rimane la rassicurante presenza di un paesaggio cinematografico che, seppur vir-tualmente evanescente, assurge spesso e volentieri a cartina topografica della narrazione. Lasciandosi fideisticamente trasportare da esso, come succede all'osso gettato da Farzhad nel ruscello in Il vento ci porterà via.

Filmografia di riferimento
A.B.C. Africa (id, 2001) di ‘Abbâs Kiârostami
Viaggio a Kandahar (Safar-e Qandahâr, 2001) di Mohsen Makhmalbâf
Il voto è segreto (Ra'y-e makhfi, 2001) di Bâbak Payâmi
Il cerchio (Dâyere, 2000) di Ja'far Panâhi
Djomeh (Jom'e, 2000) di Hasan Yektâpenâh
Il tempo dei cavalli ubriachi (Zamân-i barâ-ye masti-ye asbhâ, 2000) di Bahman Qobâdi
Lavagne (Takht-e siyâh, 2000) di Samirâ Makhmalbâf
Il vento ci porterà via (Bâd mâ-râ khâhad bord, 1999) di ‘Abbâs Kiârostami
La mela (Sib, 1998) di Samirâ Makhmalbâf
Il silenzio (Sokut, 1998) di Mohsen Makhmalbâf
Il sapore della ciliegia (Ta'm-e gilâs, 1997) di ‘Abbâs Kiârostami
Lo specchio (Âyene, 1997) di Ja'far Panâhi
Gabbe (id. 1996) di Mohsen Makhmalbâf
Il palloncino bianco (Bâdkonak-e sefid, 1995) di Ja'far Panâhi
Sotto gli ulivi (Zir-e derakhtân-e zeytun, 1994) di ‘Abbâs Kiârostami
E la vita continua (Zendegi edâme dârad, 1992) di ‘Abbâs Kiârostami
Bashu il piccolo straniero (Bâshu, gharibe-ye kucak, 1989) di Bahrâm Beyzâ'i
Acqua, vento, terra (Âb, bâd, khâk, 1987) di Amir Nâderi
Dov'è la casa del mio amico (Khâne-ye dust kâjâ-st, 1987) di ‘Abbâs Kiârostami
Il corridore (Dâvande, 1985) di Amir Nâderi

Bibliografia essenziale

Cinema e Paesaggio
S. Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, Marsilio, (Venezia, 2002)
A. Costa, Il cinema e le arti visive, Einaudi, (Torino 2002)
S. Arecco, Il paesaggio del cinema, Le Mani (Recco 2001)
A. Kiarostami, Photographies, Photographs, Fotografie ..., Editions Hazan (Paris, 1999)
U. Leone, Dallo spazio al territorio, Loescher, (Torino 1996)
L. Quaresima, (a cura di), Il cinema e le altre arti, Marsilio, (Venezia 1996)
F. La Cecla, Perdersi. L'uomo senza ambiente, Laterza, (Bari 1995)
R. Zipoli, Un giardino nella voce. Persia 1972 – 1994, Angelo Pontecorboli Editore (Firenze, 1995)
J. Aumont, L'occhio interminabile, Marsilio, (Venezia 1991)

Cinema Iraniano
H. Dabashi, Close up Iranian Cinema, Past, Present, Future. Verso Press (London & New York, 2001)
H. Kéy, Le Cinéma Iranien: l'Image d'une Société en Bouillonnement: de La Vache au Goût de La Cerise, éditions Karthala (Paris, 1999).
A. Morini, E. Rashid, A. Di Martino, A. Aprà (a cura di), Il cinema dei paesi arabi, Marsilio (Ve-nezia, 1993)

Monografie di registi iraniani
M. Dalla Gassa, Abbas Kiarostami, Le Mani (Recco, 2001)
M. Della Nave, Abbas Kiarostami, Il Castoro Cinema, (Milano, 1999)
AA. VV., Abbas Kiarostami: textes, entretiens, filmographie complete, Petite bibliothèque des Cahiers du cinéma (Paris, 1997)
A. Barbera, U. Mosca, Mohsen Makhmalbaf, Lindau, (Torino, 1996).

Articoli di riviste
P. Blouin, C. Tesson, "Elimination de l'auteur", Cahiers du cinéma (Septembre 2002), 12-20
M. Proctor, "The road out: Abbas Kiarostami's views of the infinite." Aperture 164 (summer 2001), 66-70.
V. Bouruet-Aubertot, "Abbas Kiarostami" Beaux Arts Magazine 187 (Décembre 1999) 54-7
H. Naficy, "Iranian cinema under the Islamic Republic" in S. Zuhur, Visual and Performing Arts of the Middle East, The American University in Cairo Press (Cairo 1998) 229-246.
L. Mulvey, "Kiarostami's Uncertainty Principle." Sight and Sound 6 (June 1998), 24-27.
P. Aufderheide, "Real life is more important than cinema: an interview with Abbas Kiarostami" Cineaste 21 (Summer 1995) 31-34
B. Nichols, "Discovering form, inferring meaning: new cinemas and the film festival circuit", Film Quaterly 47 (Spring 1994), 16-31

Note
R. Zipoli, Un giardino nella voce. Persia 1972 – 1994, Angelo Pontecorboli Editore (Firenze, 1995), 147.

Per comodità e per facilità di lettura, abbiamo deciso di inserire nel testo del saggio solo il titolo italiano e il regista delle pellicole citate. Per riferimenti più puntuali (titolo originale, anno di produzione) rinviamo alla filmografia presente in coda al testo.

Nel caso di E la vita continua questo moto di accettazione e rifiuto del paesaggio serve per creare distacco tra realtà e rappresentazione (un distacco non freddo ma partecipato), in modo da evitare i facili sentimentalismi da una parte e le incaute immersioni nei dolori intimi delle persone (che il regista giudica profondamente immorali) dall'altra. Nessun sensazionalismo, né tv-verità, ma solo una riflessione teorica e quasi estatica sulla forza di sopravvivenza dell'uomo.

S. Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, Marsilio, (Venezia, 2002), 23.

Della produzione iraniana prenderemo in esame, quindi, solo i film "d'arte" ovvero quelle opere che hanno ottenuto i maggiori riconoscimenti di critica in Occidente, che sono stati presentati nei festival o distribuiti nelle sale italiane e che, di conseguenza, hanno fatto conoscere il cinema iraniano nel mondo. Pur essendo film d'elite, sicuramente tra i meno visti dagli spettatori iraniani, essi rappresentano la parte più sperimentale, innovativa e interessante di una cinematogra-fia altrimenti di livello medio basso. Oltre a Kiarostami, verranno citate le opere di maestri del cinema iraniano degli anni 70-80 come Beizai, Naderi, e Mohsen Makhmalbaf e della nuova generazione di cineasti (Panahi, Ghobadi, Samira Makhmalbaf, Yekpatanah, Payami). Verranno perciò, ahinoi, esclusi dall'analisi autori fondamentali nella storia del cinema persiano che però sono quasi del tutto sconosciuti al pubblico (cinefilo) mondiale. Si tratta di Daryush Mehrju'i, Parviz Kimiavi, Kianush Ayyari, e dei più giovani Abolfazl Salili, Majid Madidi.

Tra i tanti articoli si veda B. Nichols, "Discovering form, inferring meaning: new cinemas and the film festival circuit", Film Quaterly, 47 (Spring 1994), 16-31.

Ci venga perdonato dai puristi del genere questo parallelo tanto azzardato quanto, a nostro avviso, calzante.

S. Arecco, Il paesaggio del cinema, Le Mani (Recco, Ge, 2001), 12-13.

Amir Naderi è uno dei registi più importanti e più radicali della nouvelle vague iraniana degli anni '70/'80. Oltre a Acqua, vento, terra e Il corridore, i suoi film più conosciuti, ha girato in patria gli altrettanto belli Addio amico (Khoda-hafez rafigh 1971) e Tangsir, (Id, 1974). Dai primi anni novanta si è trasferito a New York e qui opera, tra mille difficoltà, come filmmaker indipendente. Suoi sono Manhattan by numbers (1993), A,B,C... Manhattan (1997), e Marathon (2002).

Il finale della pellicola che, sulle note della Quinta di Beethoven, mostra il protagonista mentre scava a mani nude numerose buche nella terra fin quando non trova l'acqua, ha i tratti dell'epopea biblica. I pesci riprendono vita, l'acqua sgorga come fonte di vita, il film si conclude con un segno di speranza che mai Naderi, nel corso del racconto, aveva, anche lontanamente, suggerito.

Avremo modo di parlare di questo film poco più avanti. La citazione si riferisce all'ultima sequenza della pellicola che si conclude con un minuto di schermo nero: paesaggio, personaggio, macchina da presa, regista, spettatore vengono inghiottiti dal nero dell'immagine, simbolo di un autodafè che coglie ogni individuo di fronte alla morte. Il film narra, infatti, la storia di un aspirante suicida e l'epilogo dovrebbe mostrare (ma non lo fa) l'estremo atto del protagonista.

Il racconto a focalizzazione interna prevede che il narratore assuma il punto di vista di un personaggio, mostrando solamente ciò che egli può sapere.

Il riferimento è ovviamente a Il ragazzo selvaggio di François Truffaut.

A. Barbera, U. Mosca, Mohsen Makhmalbaf, Lindau, (Torino, 1996), 144.

Si tratta di E la vita continua. Per un'analisi del fitto gioco di rimandi e relazioni tra Dov'è la casa del mio amico, E la vita continua, e Sotto gli ulivi – comunemente conosciuta come "La trilogia di Kokér" – rinvio a M. Dalla Gassa, Abbas Kiarostami, Le Mani (Recco, 2001), 67-117.

A. Masson, "Au travers des oliviers: La répétition ou l'amour récompensé", Positif, 408 (1995) 6-8.

Per un'analisi linguistica della sequenza rinvio a Dalla Gassa, Abbas Kiarostami, 177 ss.

Annullarsi come regista è una delle più grandi e innovative ossessioni kiarostamiane. L'ultimo film Dieci, ad esempio, è girato tutto all'interno dell'abitacolo di una macchina, con due sole inquadrature che riprendono il guidatore e il passeggero dell'auto. Togliendo al regista la "sovranità" del montaggio e della scelta delle inquadrature, nonché dei movimenti di macchina e dei dialoghi (la sceneggiatura del film era, in origine, poco più che un canovaccio), Kiarostami ridisegna la figura del cineasta, decantandolo (nella doppia accezione di purificare e lodare). Per un approfondimento si veda P. Blouin, C. Tesson, "Elimination de l'auteur", Cahiers du cinéma (septembre 2002), 12-20.

Zipoli, Un giardino, 99.

Ecco alcuni titoli che "mettono in scena" il cinema e che non citiamo nel testo: Close up, E la vita continua, Sotto gli ulivi e ABC Africa di Kiarostami, Salaam cinema, C'era una volta il cinema e Pane e Fiore di Mohsen Makhmalbaf, Lo specchio di Jafar Panahi, La mela di Samira Makhmalbaf.

Lo spechio racconta la storia di una ragazzina che, stufa di recitare in un film la parte di una studentessa sola e abbandonata, rompe il gioco della finzione, lascia il set e ritorna a casa. Il regista Panahi, per non perdere la possibilità di terminare il proprio film, decide di inseguirla, con un operatore affianco, per le vie caotiche della città; tuttavia il lavoro di pedinamento si rivelerà molto più complesso di quello meramente cinematografico, visto che la protagonista non solo riesce a sfuggire all'occhio della cinepresa ma perché, una volta giunta a casa, si rifiuterà di far entrare, tra le mura domestiche, il regista, lasciandolo sconsolatamente privo di un finale.

Zipoli, Un giardino, XI.

Bernardi, Il paesaggio, 18.

Marco Dalla Gassa
in AA.VV. Miscellanea di studi in onore di Adriano Alpago Novello,
in corso di pubblicazione presso la casa editrice Civis di Napoli