Il p'ansori nel cinema: Ch'unhyang di Im Kwon-Taek

Fra tradizione e modernità, l'originalissimo Ch'unhyang utilizza un'equilibrata e armoniosa miscela di p'ansori e cinema.

L P'ANSORI NEL CINEMA: CHUNHYANG DI IM KWON-TAEK

Regia: Im Kwon-Taek. Sceneggiatura: Kim Myoung Kon, Kang Hye-yun. Fotografia: Jung II-sung. Scenografia: Min Un-ok. Montaggio: Park Sun-duk. Musica: Kim Chong-gil. Interpreti: Lee Hae-Eun (Hyangdan) Kim Hak-Yong (Pangja) Cho Seung-Woo (Mongryong) Lee Jung-Hun (il governatore Byun) Kim Sung-Nyu (Wolmae) Lee Hyo-Jung (Chunhyang). Produttore: Lee Tae Won. Produzione: Taehung Pictures. Distribuzione Wild Bunch (Le Studio Canal +). Corea del Sud, 2000, 35mm, colore, 120' . 

 

 

La cantilena roca e ipnotica, ritmata dai colpi secchi di un tamburo, in apertura del film è quella di un cantastorie, l'attore sul palcoscenico che di fronte al pubblico di un teatro intona, commenta e ricrea a parole per gli occhi – nostri e della sua platea –un classico della letteratura popolare coreana, la favola ripetuta chissà quante volte della dolce fanciulla Chunhyang, la figlia di una cortigiana che in nome della purezza e della fedeltà per il suo amato – il figlio del governatore – resiste nella tortura, sino al trionfo finale della giustizia e dell'amore. La voce che ricorda tutto questo, dicevamo, è quella di un p'ansori (o pyonsa), splendida figura di musicista, cantante, attore con radici antiche nella cultura del suo paese, che ha avuto anche un ruolo fondamentale nella storia dello stesso cinema coreano, visto che nel periodo del muto il commento e le gesta orali di questo personaggio all'interno della sala cinematografica venivano a sostituire le didascalie, assenti nei primi film prodotti in Corea. (Il p'ansori svolse a suo modo anche un ruolo politico: durante l'occupazione giapponese negli anni '20, i cinema furono luoghi di resistenza. Incomprensibili agli invasori, le parole del p'ansori si facevano interpreti della riscossa nazionale, di fronte a film che almeno sul piano visivo non lasciavano intendere nessun spirito patriottico.) D'altro canto, la storia di Chunhyang rappresenta un archetipo primario anche nell'immaginario filmico: il primo film muto coreano è Chunhyang, al pari del primo film sonoro, del primo film in cinemascope... Una storia sull'armonia dei principi base del confucianesimo, ripresentata via via in numerose versioni, diventata poi anche un classico del teatro, dell'opera cantata, del balletto.

Per Im Kwon-taek, riconosciuto maestro del cinema coreano, si tratta dunque di affrontare di petto un patrimonio dell'immaginario collettivo, il già detto e già sentito di uno spettacolo che ha il valore di una cerimonia; o, più semplicemente, di riconsiderare la storia stessa del cinema del suo paese, nel film coreano modello che riappropriandosi della figura del pansori, così fondamentale agli albori del muto, si ripropone in un circolo chiuso come una sorta di pellicola a suo modo "definitiva". L'impressione è quella di trovarsi di fronte a un progetto di "arte totale". C'è l'immaginario consolidato da secoli che si traduce nelle parole ritmate del p'ansori; questo canto produce però a sua volta delle immagini, dà sfogo a una vita, la plasma come creta, la fa nascere come attraverso le gesta di un mago nella nostra immaginazione. La parola genera la visione così come una visione dà luogo alla parola, allo stesso modo in cui un teatro contiene un cinema che ritorna comunque sempre al teatro, per dargli un nuovo senso. La musica, l'ossessione di una voce, si interseca poi necessariamente con lo schermo, il palcoscenico, la platea; ogni sequenza segue la linea sinuosa della melodia vocale; tra i colori strabilianti delle scenografie e la perfezione grafica dell'immagine e dei costumi, l'occhio si snoda con ritmati movimenti di macchina sensuali e di ampio respiro, mentre i dialoghi vengono declamati precisi come in un canto, rispettosi della metrica di qualche antica poesia. Non esistono infatti "differenze" tra le varie forme di spettacolo, perché il principio che regge il tutto è quello di una conciliazione degli opposti in un'ideale di suprema armonia. Così Kwon-taek, nella lunga sequenza della tortura della ragazza, raggiunge a suo modo il sublime. Dalla piazza dell'esecuzione lo stacco netto ci riporta dentro il teatro, e allora ogni sferzata su Chunhyang diventa un colpo di tamburo, ogni parola del cantastorie un fotogramma di dolore, perché ogni lacrima della fanciulla è negli occhi dello spettatore che dalla platea del teatro guarda e ascolta, come sempre, il suo pansory. Ribalta e platea sono un unico universo immaginativo, non c'è scissione, perché ciò che è scisso si riunisce nell'abbraccio dello yin e dello yang della raffigurazione confuciana, quasi che non potesse esistere bellezza senza orrore, gioia senza dolore.

 

Quanto sopra vi può sembrare una litania di superlativi da parte di un critico in preda a un delirio di esagerazione. Sbagliate: non è altro che la pura descrizione di un'opera di una semplicità disarmante. In effetti, non ci sono parole adatte per descrivere questo film (il vostro critico non è un p'ansori), perché Chunhyang, al di là della sua confezione da grande produzione internazionale, è a suo modo l'espressione di un'arte di un "altro mondo", che da troppo tempo non ci appartiene più. Non è che noi occidentali siamo incapaci di comprendere appieno le sfumature di una cultura per noi lontanissima. È che noi occidentali siamo da troppo tempo "modernamente" scissi, in una cultura che mitologicamente si fonda sull'archetipo della "caduta", della cacciata dal paradiso, della divisione e della frattura. L'arte di Kwon-taek non ci può lasciare che attoniti, perché parla di un'armonia per noi perduta, in un racconto di antichissime origini che ritorna nella modernità in una sorta di ideale senza tempo, apparentemente non intaccato dalle fratture imposte dalla Storia. Ma forse le cose non stanno nemmeno così. La grandezza di Kwon-taek sta probabilmente nella commozione di chi, immerso nel tempo del moderno, assiste alla cerimonia popolare di qualcosa che va al di là del tempo. Il p'ansori, l'alter ego del regista che ci guarda negli occhi per farci vedere questa favola, è un sacerdote antichissimo ma pienamente consapevole di officiare il suo rito pieno di bellezza da un teatro costruito nella nostra contemporaneità. Le sue ultime parole sono terribili, e hanno la grandezza e la malinconia del discorso finale del Prospero della «Tempesta» scespiriana: «Qui si conclude il mio racconto. Di ciò che sta al di là delle mie parole non posso sapere nulla». Come dire: al di là delle pareti dello spettacolo non c'è garanzia, e forse la piccola Chunhyang non trionferà. Oltre l'arte del racconto e del cinema, per il popolo da decenni scisso nel suo profondo non c'è unità possibile. La salvezza sta solo qui, in questo film meraviglioso e irripetibile.

 

 

Michele Fadda