Un cinema in trasferta

Evoluzione del cinema taiwanese: le nuove tendenze che hanno reso celebre nel mondo una cinematografia fino a vent'anni fa quasi del tutto sconosciuta.

UN CINEMA IN TRASFERTA

 

La storia del cinema taiwanese degli ultimi vent'anni si regge su un paradosso: proprio nel momento in cui i suoi maggiori esponenti, Tsai Ming Liang (premiato a Venezia nel 1994 con il Leone d'oro per Vive l'amour!, a Berlino nel 1997 con l'Orso d'argento per Il fiume e ormai regolarmente in concorso a Cannes, nel 1998 con The Hole e l'anno scorso con What's Time Is There?), Hou Hsiao-hsien (vincitore del Leone d'oro nel 1988 con Città dolente, presenza costante a Cannes e assurto ormai da anni a statuto di autore), Edward Yang (vincitore della Palma d'oro come miglior regista nel 2000 con Yi Yi), sono ormai riconosciuti come maestri a livello internazionale, ricevendo i premi dei principali festival; mentre Ang Lee, cineasta artisticamente apolide, cresciuto e formatosi a Taiwan, ma dalla metà degli anni '90 trasferito ed affermatosi nel mainstream hollywoodiano, si aggiudica l'Oscar con La tigre e il dragone come miglior film straniero del 1999, registrando anche il record d'incassi al box office statunitense per un film non in lingua inglese (settanta milioni di dollari rispetto ai cinquanta de La vita è bella), il sistema produttivo taiwanese vive una fase di recessione e di scacco che rischia di minarne le fondamenta. Dal 1987 - anno in cui viene riconosciuto un gruppo di cineasti appartenenti al cosiddetto filone del "Nuovo Cinema Taiwanese" - ad oggi la produzione di film taiwanesi è calata verticalmente. Si è passati dai 185 lungometraggi del 1988 ai 29 del 1997 con un conseguente calo degli incassi pari, nei rispettivi anni, a 141.533.000 e a 36.533.000 dollari.

La crisi dell'industria cinematografica taiwanese ha dato vita a due modelli produttivi alternativi. Da una parte, dopo aver concorso con alte offerte di mercato ad acquisire i diritti dei film provenienti da Hong Kong, provocandone un sensibile aumento del valore reale all'interno del sistema distributivo, i produttori, a partire dall'inizio degli anni '90, hanno direttamente investito nel cinema hongkongese, avendo, spesso la possibilità di intervenire direttamente nella composizione dei cast tecnici ed artistici. Dall'altra parte, altri finanziatori hanno rivolto il loro sguardo alla limitrofa Cina, sia per il basso costo delle maestranze che per la presenza sul territorio continentale di scenari antichi dove poter far rivivere mondi ormai definitivamente scomparsi. Tendenza, quest'ultima, in via di esaurimento, a causa dei crescenti costi della manodopera cinese.

Delle tre comunità cinesi, Taiwan è quella che produce meno film, con circa cinquanta titoli all'anno dal 1991. La crisi si è estesa anche a livello distributivo. Delle 484 pellicole distribuite nell'isola nel 1991, solo 33 appartengono alla produzione taiwanese. I dati segnalano che il circuito commerciale è dominato dalle cinematografie straniere, in particolare da Hong Kong con il 40% dei lungometraggi distribuiti. Tra i 422 film circolati a Taiwan nel circuito nel 1995, solo 28, pari al 6,6%, erano taiwanesi, mentre le produzioni nazionali girate non nelle varie declinazioni della lingua cinese arrivavano al 61,9% del totale. In termini economici significa che un prodotto taiwanese medio, con un budget attorno ai 10-12 milioni di dollari taiwanesi, può incassare soltanto da 90.000 a 200.000 dollari taiwanesi. Le ragioni della crisi vanno individuate, innanzitutto, nella competizione tra la televisione via cavo e quella satellitare. Lo spettatore televisivo ha a disposizione un enorme ventaglio di offerte, di qualsiasi tipo, dai film americani a quelli giapponesi, da quelli hongkongesi a quelli europei, grazie alla proliferazione inarrestabile degli oltre novanta canali monotematici, sorti dopo trent'anni di monopolio della televisione pubblica.

L'evoluzione del cinema taiwanese, avviato agli inizi degli anni '80, indirizzatosi verso direzione stilistiche e tematiche maggiormente complesse rispetto agli anni '60 e '70 ha trasformato la fruizione dei film nazionali da popolare, da evento di massa, ad occasione di esibizione di una cultura elitaria. Come vedremo successivamente, ripercorrendo per brevi cenni la storia del cinema taiwanese fino al fatidico 1982, la produzione locale ha quasi completamente perso la sua originaria dimensione di intrattenimento. E, se questa tendenza ha reso celebre nel mondo una cinematografia fino a vent'anni fa quasi del tutto sconosciuta, una tale inversione vettoriale ha provocato un processo endogeno spiraliforme che rischia di mettere a seria prova l'esistenza stessa del prodotto "made in Taiwan". Un rigido protezionismo che partiva dallo stato permetteva, inoltre, alla produzione locale di difendersi meglio, grazie ad un sistema di quote che limitava l'importazione di film stranieri permettendo la circolazione di solo quattro copie per ogni titolo. Il monopolio delle pellicole hollywoodiane ha cominciato ad imporsi quando il mercato distributivo ha esteso il permesso a trentun copie per film. Nei centri rurali si è assistito ad una progressiva scomparsa delle sale cinematografiche e quelle rimaste sono state riconvertite a multisale con accanto centri commerciali dalle multinazionali entertainment made in Usa.

Niente di nuovo sotto il sole, da un certo punto di vista. Gli anni '90 sono stati in tutto il mondo teatro di un'ineludibile americanizzazione e globalizzazione nella fruizione dell'industria dello spettacolo a discapito delle identità nazionali. Il protezionismo culturale, sia a livello produttivo che distributivo non rappresenta certamente una soluzione valida e universale, ma è certo che in quelle zone del pianeta, e l'Estremo Oriente è sicuramente una di queste, dove i meccanismi democratici e i sistemi di controllo non sono improntati al massimo della trasparenza, processi di questa portata rischiano spesso di essere traumatici, di creare fratture difficilmente sanabili e di assumere i toni di una vera e propria colonizzazione culturale. Più degli altri paesi limitrofi, Taiwan potrebbe soffrire maggiormente di un sistema coatto. Dall'inizio del Novecento, infatti, quest'isola situata a pochi centinaia di chilometri dalla Cina continentale è stata un coacervo di culture diverse, di sistemi di vita differenti, apparentemente opposti. La dominazione giapponese prima, la tradizione cinese storicamente presente nel Dna taiwanese, le pesanti infiltrazioni dell'American way of life seguite alla scelta anticomunista del Kuomintang di Chan Kai-shek hanno consentito un'inedita sintesi sincretica di poli opposti, una contaminazione di Weltanschauung antitetiche. Il tratto più distintivo della società taiwanese risiede proprio in questa identità spuria, frammentaria. È quindi evidente che la preponderanza di un modello unico, quello statunitense, peraltro già dominante per lunghi tratti del dopoguerra, anche soltanto nel panorama culturale, nuocerebbe al futuro sviluppo dell'isola.

La globalizzazione della produzione cinematografica taiwanese ha coinvolto anche la CMPC (Central Motion Pictures Corporation), l'ente di Stato appoggiato dal Kuomintang deputato alla creazione del prodotto taiwanese. Dall'inizio degli anni '90 la CMCP cerca sempre di più formule miste, dalla coproduzione agli investimenti in film che vedono l'apporto di tecnici provenienti da paesi diversi. Altri paesi investono sui progetti dei più affermati cineasti taiwanesi: la MICO, gruppo formato da quarantotto compagnie giapponesi e la NHK, la Herald Ace, la French, la Hero e la Tokuma e altre società giapponesi. A Confucian Confusion (1994) di Edward Yang è stato distribuito e prodotto dalla Warner Asia, costola orientale della Warner Bros., mentre Yi Yi è stato realizzato grazie anche all'utilizzo di capitali inglesi, senza dimenticare che Hou Hsiao-hsien gira con una certa continuità grazie alla mitica Shochiku. Proprio la CMCP è da considerarsi all'origine del cinema taiwanese. Sostenuta dal governo del Kuomintang trasferitosi sull'isola dopo la sconfitta subita dalle truppe di Mao, l'industria cinematografica di stato si preoccupava soprattutto di far uscire dai suoi studi opere di propaganda, sature di retorica, sostenute dal più bieco dei manicheismi, tronfie di patriottismo e di spirito anticomunista. Pellicole aliene da qualsiasi presupposto estetico, realizzate come dei documentari ma endemicamente attraversate dall'afflato dell'epica di regime.

È proprio per la povertà a livello visivo che il pubblico non si affezionerà mai a questi film, trovando, invece, divertimento e svago nella produzione girata nel dialetto Amoy, molto differente dal mandarino. Tutti i generi furono visitati alla fine degli anni '50, dal poliziesco al melodramma, dall'opera lirica all'horror e se con l'inizio degli anni '60 i film recitati in dialetto taiwanese furono soppiantati da quelli hongkongesi, ben più spettacolari e visivamente elaborati, il "movimento Amoy" rivelò un attore di grande talento, Ou Wei e registi come Lin Hsin, Lin Fu-ti e Li Chia, oltre alla prima regista donna, Chen Wen-min. Il pubblico taiwanese era attratto molto di più dalle storie di genere che non dalla retorica della propaganda ed è quindi naturale pensare che, quando i rutilanti e ridondanti film hongkonghesi giunsero nei mercati commerciali dell'isola tradotti dal cantonese al mandarino, il successo commerciale fu immediato ed enorme. Per arginare quella che secondo molti dirigenti della CMCP si configurava come una deriva ludica, l'industria cinematografica di stato varò una prima offensiva normativa, denominata del "sano realismo". Sintetizzando, i dirigenti della CMCP riproposero gli stessi topos filtrati dai film degli anni '50 optando per una forma diversa. Consapevoli che il pauperismo estetico che aveva contraddistinto il cinema taiwanese negli anni '50 non poteva confrontarsi con la ricchezza scenografica e narrativa della produzione hongkongese, brevettarono una formula che potesse veicolare un sistema di valori e di principi all'insegna del politically correct. Quello del "sano realismo" non si configura, quindi, come un "avanzamento estetico", ma come necessario accorgimento per trasmettere attraverso i canali ufficiali della cultura un messaggio di continuità politica ed ideologica rispetto alla "tradizione" degli anni '50.

Come spesso accade negli anni '70 si verificò un brusco allontanamento dagli stilemi che avevano caratterizzato il periodo del "sano realismo". Forse mai come negli anni '70 Taiwan conosce un periodo di straordinario sviluppo economico che ne condiziona anche lo stile di vita e il tipo di fruizione delle principali forme di spettacolo e di intrattenimento, tra cui il cinema. Sempre più influenzati dalla virulenza effettistica della limitrofa produzione hongkongese, (il fenomeno Bruce Lee invade tutti i mercati orientali) il cinema taiwanese anni '70 è all'insegna dello svago, dell'entertainment, dello spettacolo popolare, con storie melodrammatiche dozzinali, sdolcinate, sempre a lieto fine, che rimandano un'immagine non problematica o conflittuale della società e dei cambiamenti in atto. Scoppia il fenomeno Chiung Yao, scrittrice rosa che firma oltre cento film e che diventa un punto di riferimento imprescindibile soprattutto per il pubblico femminile.

È in questo contesto che si colloca la nascita del nuovo cinema taiwanese tra la fine degli anni '70 e i primi anni '80. In un momento di ripensamento dell'identità taiwanese nei confronti della comunità internazionale, in una fase di parziale reflusso economico e di rifondazione dello statuto ontologico del cinema, inteso non più come intrattenimento, ma come opera d'arte, ricca di alti significati. Come spesso accade, le ascisse e le ordinate di un movimento o di una scuola cinematografica non vengono determinate da dogmatiche elaborazioni teoriche, da speculazioni etiche o estetiche, ma rispondono ad un principio economico e produttivo. In alcune interviste rilasciate a riviste specializzate straniere come "Sight & Sound", "Positif" e "Cahiers du Cinéma", Hou Hsiao-hsien ed Edward Yang hanno spesso affermato che molte, se non tutte, delle scelte stilistiche che hanno dato un'impronta al rilancio del cinema taiwanese agli inizi degli anni '80 erano dettate da esigenze di tipo economico. In un isola dove solo nel 1987 scomparve ufficialmente la pena di morte (de facto non si applicava più dagli anni '70) e spesso isolata internazionalmente, se non con i tradizionali alleati statunitensi, reperire fondi era un'impresa davvero ardua e possibile solo grazie ai finanziamenti della CMCP, ovvero della cinematografia di stato. E' per questo che, pur sorretto da un manifesto di un gruppo di cineasti stilato nel 1987, che riaffermava una serie di principi estetici che dovevano essere alla base di ogni film appartenente al movimento del nuovo cinema taiwanese, quel tipo di produzione nata del 1982 con i due film ad episodi In Our Time (1982) e The Sandwich Man (1983) non ha mai avuto un carattere sistematico né è stato preceduto da qualsiasi "dogma" estetico, com'è avvenuto per Lars von Trier e compagni.

Nonostante ciò e fatte queste debite premesse, è indubbio che proprio il 1982 è l'anno della svolta, perché la CMCP affida la realizzazione di due film ad episodi a sei registi, due fra i quali erano proprio Hou Hsiao-hsien ed Edward Yang. Certo, in uno speciale come questo che vuole abbracciare un arco di tempo superiore ai vent'anni, una sessantina di titoli e una trentina di cineasti, sarà impossibile sfuggire a qualche schematizzazione o semplificazione. L'estetica che informa il nuovo cinema taiwanese si muove in una duplice direzione: da una parte, come si diceva precedentemente, i budget spesso irrisori non permettevano ai registi taiwanesi di allestire macchine ad alto tasso di spettacolarità come avveniva nella limitrofa Hong Kong, dall'altra la nascita di una nuova letteratura di stampo realista, che si era affacciata alla fine degli anni '70, ma ben lontana sia dalla propaganda degli anni '50 che dal sano realismo degli anni '70, spingeva i giovani cineasti ad occuparsi del privato, inserito spesso in un contesto rurale, in cui ogni piccolo fatto, ogni piccola azione avevano una propria specifica valenza drammaturgica. Oltre ai film di Hou Hsiao-hsien e a quelli di Edward Yang che, però, meritano un'analisi a parte, i titoli più rappresentativi di questa rinascita sono Jade Love (1984) e Kwei-mei, a Women (1985) di Chang I, A Flower in the Rainy Night (1983), The Strawmen (1987) di Wang Tung.

Il macromitolegema del nuovo cinema taiwanese è il realismo. Ma quale realismo? Innanzitutto un realismo inserito in determinate caratteristiche stilistiche: fissità della macchina da presa, campi medi e lunghi, importanza del fuori campo, tendenza, all'interno di nuclei tematici, a rispettare il tempo della realtà, quasi totale abolizione del primo piano, uso iterato di panoramiche (non in Hou Hsiao-hsien). Sinteticamente, se si può dire che il cinema hongkonghese è movimento, dinamismo, virulenza dell'effetto, il nuovo cinema taiwanese è drammatizzazione allo stato puro del semplice dato reale. Spingendoci, poi, nell'analisi del primo cinema di Hou Hsiao-hsien il discorso si fa molto più complesso e articolato. Senza ripetere la necessaria panoramica operata da Adriano Piccardi e Angelo Signorelli nello speciale dedicato a Taiwan più di dieci anni fa da "Cineforum", occorre sottolineare come Hou Hsiao-hsien renda protagonista della propria materia narrativa i ragazzi di strada, le contrapposizioni tra bande, tranches de vie della quotidianità taiwanese non di Taipei, città con la quale si identifica spesso l'intera Taiwan. In lui fa capolino un dolore a volte irrefrenabile, inarrestabile, ma sempre trattenuto, controllato, mai furiosamente empatico, ma osservato con uno sguardo da entomologo, distante, con sofferta immobilità, come di colui che osserva ma che non può cambiare il corso degli eventi.

Altro tema fondamentale nel primo Hou è l'assenza del padre, come punto di riferimento morale, ben sintetizzato da In vacanza col nonno (1985). È un assenza metaforica, non solo affettiva, che si può estendere a tutta l'isola, coacervo di culture e storie diverse ma da oltre un secolo alla ricerca di una propria identità (occorre ricordare che i genitori di Hou erano cinesi). Altro tratto fondamentale e innovativo del cinema di Hou è la presenza del paesaggio che, rispetto alla tradizione precedente, non è semplice sfondo dell'azione, suppellettile cristallizzata della messa in scena, ma si trasforma in elemento drammaturgico con cui i protagonisti si relazionano dialetticamente. Il mare è spesso descritto nei film di Hou (ad esempio in Ripercorrendo con nostalgia il cammino della vita, 1986), come ostacolo insopportabile per una generazione che cerca oltre i confini taiwanesi una speranza, uno spiraglio per una vita migliore. Allo stesso modo, gli splendidi scenari tropicali inseriti da Hou non certo in senso estetizzante finiscono per interagire con la complessa psicologia dei suoi personaggi. È un tema ricorrente, quello del paesaggio, che Hou ed altri registi sapranno utilizzare con grande maestria.

Sull'importanza del piano sequenza nel cinema di Hou, sulla sua vicinanza stilistica all'opera di Ozu, voglio rimandarvi all'intervento di Johnny Costantino contenuto in questo speciale anche se non si può fare a meno di ribadire come per lui non si tratti semplicemente di uno stilema al quale ricorrere, quanto di una scelta morale dello sguardo in cui far convivere tensioni e speranze, paure e ossessioni. Il piano sequenza, nei film di Hou, più che in quelli di altri cineasti, rappresenta un mondo a parte, un microcosmo onnicomprensivo in cui tutto avviene indipendentemente dal resto. È, quindi, una naturale conseguenza che anche il fuori campo assuma una sua specifica fisicità, corporeità e non si limiti a semplice contrappunto della sovrabbondanza del piano sequenza. In Hou la perfezione del quadro non si risolve mai in manierismo o in scelta estetizzante, anche nei primi dieci anni della sua produzione. È anzi interessante gettare uno sguardo su uno dei film cerniera della carriera di Hou Hsiao-hsien (l'altro è Città dolente del 1989), Green Green Grass of Home (1983), lungometraggio che segue le prime due opere rinnegate dal cineasta taiwanese, Cute Girl (1980) e Cheerful Wind (1981) e precede uno degli episodi di The Sandwich Man (1983). Green Green Grass of Home è un patchwork, a metà tra wenyi, il melodramma cinese, e il xiangtu (terminologia con la quale si suole indicare i racconti che riguardano la campagna). In esso si ritrova, quindi la tendenza al melodramma tipica del cinema taiwanese degli anni '60, mutuato da quello hongkonghese, e "il sano realismo" degli anni '70 con l'aggiunta, tutta di Hou, del soggetto antropologico che caratterizzerà i suoi primi film, ovvero i ragazzi di strada, le piccole gang, i protagonisti della piccola criminalità. Un misto di melodramma, realismo e racconto di formazione contraddistingue questo film di Hou in cui si evidenzia anche una certa nostalgia per il passato dell'isola, per i suoi usi e costumi in continuo cambiamento.

L'altro grande talento del nuovo cinema taiwanese agli inizi degli anni '80, Edward Yang, dopo aver partecipato all'altro esperimento di film ad episodi commissionato a quattro registi nel 1982 con Our Time, sembra percorrere fin da subito una via indipendente, del tutto personale. Il suo secondo film, That Day on the Beach (1983), pur rispondendo ai principi estetici del nuovo cinema taiwanese (piani sequenza, importanza del paesaggio, inquadrature in campo lungo e medio), rivela una maggiore predisposizione per il dramma, per il tragico. Il suo cinema, di ambientazione quasi sempre metropolitana, si focalizza sui complessi rapporti umani, dando molto spazio alle figure femminili che escono, finalmente, dallo stereotipo, dopo quarant'anni di cinema taiwanese. The Terroriser (1985) è un'opera ancora più complessa, sull'epifania del terrore, sull'inquietudine del moderno, sui riti di passaggio. Un film che si nasconde subdolamente dietro una cornice di genere per celare la complessità di un autore sicuramente meno regolare e continuo rispetto a Hou Hsiao-hsien, ma certamente in grado di raggiungere, nel corso degli anni '90, vette ineguagliabili.

La fase iniziale del nuovo cinema taiwanese subisce un primo iato, un primo momento di incrinatura rispetto alle premesse date, in un anno carico di forti valenze simboliche, il 1987, quando, contemporaneamente viene ufficialmente abolita la pena di morte ed esce il manifesto del nuovo cinema taiwanese. Il 1987 è anche l'anno in cui Hou Hsiao-hsien dirige un film apparentemente minore, in realtà seminale nella prospettiva di un'analisi critica di questo movimento. La figlia del Nilo sembra riprodurre alcuni topoi della narrazione di Hou; microstorie, microframmenti di personaggi in conflitto, piccola delinquenza. A cambiare, infatti, non è la materia narrativa, anche se la vicenda è ambientata a Taipei, ma i procedimenti stilistici con cui essa viene raccontata. Il quadro perde parte della sua fissa perfezione, la macchina da presa si aggira nella frenetica vita canicolare della metropoli, la tonalità cromatica del film è variegata, continuamente punteggiata, quasi fosse l'incrocio tra un quadro pop e uno iperrealista. Hou segue la rutilante vita notturna di Taipei, cercando, per la prima volta di seguire da vicino i suoi personaggi, di partecipare empaticamente alle loro volubili vicende. Lo sguardo non è più quello dell'entomologo o di colui che fa infrangere i conflitti contro il muro della convenzione o li fa implodere attutendone il potere deflagratorio. In questo caso Hou ci mostra il reale attraverso la mediazione eidetica dei suoi personaggi. La figlia del Nilo non è certo una cesura nella filmografia di Hou Hsiao-hsien, si potrebbe, piuttosto parlare di un'imprevista evoluzione che troverà altri esempi straordinari in Goodbye South, Goodbye (1996) e in Millenium Mambo (2001).

Il rapporto con la storia
Per un paese che in un secolo è stato attraversato da due diverse dominazioni politiche, quella giapponese prima della seconda guerra mondiale e quella nazionalista cinese a partire dal 1949, e da una dominazione sociale e culturale come quella che gli Stati Uniti hanno esercitato su quest'isola dell'estremo Oriente come in un nessun altro paese asiatico, in virtù della collocazione anti-comunista del regime di Chan Kai-shek, il rapporto con la storia appare come momento ineludibile, asse portante di un popolo che si interroga su se stesso e sul proprio passato. Il confronto con i punti di svolta che hanno determinato l'assetto di Taiwan ha sempre rappresentato un motivo di estrema difficoltà per i registi che volevano indagarvi o porvi il proprio sguardo critico. Il processo di completa democratizzazione di Taiwan è stato lungo e complesso, pieno di momenti drammatici, come l'"incidente del 28 febbraio" del 1947, quando i nazionalisti compirono un'autentica strage nei confronti degli indigeni che erano appena usciti dalla dominazione giapponese o, ancora, l'"incidente di Formosa" del 1979 in cui furono uccisi, durante manifestazioni di piazza, dimostranti che si opponevano al regime nazionalista. Se si pensa, poi, che la legge marziale, istituita subito dopo l'arrivo di Chan Kai-shek nell'isola, fu ufficialmente abolita solo nel 1987, si capisce come sia stato problematico confrontarsi con la storia. È per questo motivo che Città dolente rappresenta uno spartiacque: il Leone d'oro vinto a Venezia nel 1989 apre definitivamente Taiwan e la sua cinematografia all'occidente, fa conoscere i suoi cineasti alla critica internazionale, permette agli storici di affrontare la diaspora montante con la limitrofa Cina in termini critici, consente ai registi taiwanesi di parlare direttamente della loro storia, senza metafore o mediazioni intellettuali.

Hou Hsiao-hsien ha dichiarato diverse volte che senza l'abolizione della legge marziale nel 1987 non avrebbe mai potuto realizzare Città dolente, che non avrebbe mai potuto parlare del "terrore bianco". In Città dolente Hou entra nel cuore del trapasso politico e sociale: la dominazione giapponese, la seconda guerra mondiale, "il terrore bianco" dei nazionalisti. Lo fa entrando in una famiglia dove si confrontano le varie tesi, le diverse posizioni. Un procedimento che rimarrà costante per tutti gli anni '90 nel cinema taiwanese e che si può considerare un altro macromitolegema di questa cinematografia. La Storia nella sua dialettica è sempre un procedimento binario: da una parte i fatti, la loro oggettività, dall'altra le ripercussioni che si sono riverberate su un singolo o su una micro-comunità. I traumi, i cambiamenti radicali, le trasformazioni sociali si incuneano negli interstizi della memoria e riaffiorano in un ricordo, in un attimo, o nel rapporto fecondo tra la finzione e la realtà come nello splendido Good Men, Good Women (1995) di Hou Hsiao-hsien. Anche quando la rievocazione storica assume toni più aspri, ideologici, come nel secco e tagliente Heartbreak Island (1995) di Hsu Hsiao-ming, tutto passa attraverso il filtro del ricordo, della rielaborazione personale di una militante dei movimenti di opposizione al regime duramente stroncati dalla polizia nel sud del paese, a Kuoshiang nel 1979. È forse per questo che spesso si confonde il ricordo con la nostalgia quando si parla di cinema taiwanese e del suo rapporto con la storia. Non esiste un cinema propriamente nostalgico, piuttosto un cinema che costruisce un presente in un confronto dialettico e perpetuo con il passato, che non lo rimuove mai, anzi si materializza nei momenti più impensati. Il confronto con il proprio passato, soprattutto per un paese come Taiwan significa anche fratture, iati, cesure, sofferenze, o fusioni coatte. È il cammino che racconta Wu Nien-jen in uno dei film taiwanesi più conosciuti in occidente (grazie anche al premio vinto al festival del cinema giovani di Torino nel 1994), A Borrowed Life (1994) in cui assistiamo nella vicenda del minatore Sega, al doloroso passaggio generazionale dalla dominazione giapponese a quella cinese dei figli di Sega dopo l'arrivo dei nazionalisti. Un cambiamento traumatico che porta ad un senso di straniamento, di stordimento nei protagonisti.

Il film che, forse, però, meglio di tutti, sintetizza la complessità della cultura taiwanese nei rapporti con il suo passato è A Brighter Summer Day (1991). Sul capolavoro di Edward Yang si è detto tanto, quasi tutto, visto che si tratta di un'opera seminale nell'intera storia del cinema. Nella sua fluviale lunghezza, l'opera di Yang riesce a visualizzare ancora una volta i sedimenti della dominazione giapponese nei cinquant'anni che precedettero la seconda guerra mondiale nel rapporto dialettico tra l'architettura (ancora giapponese in quasi tutta l'isola) e i personaggi appartenenti ad altre culture. Quella americana, innanzitutto, che si impossessa del tempo libero dei giovani, nello scontro tra bande mutuato dai gangster movie anni '40, nell'oggettistica, nella passione feticistica per le icone dello spettacolo statunitense. Ma, nella vicenda di Hsiao S'ir si concentra anche la millenaria tradizione cinese, qui rappresentata dal padre, nato a Shanghai e proprio per questo accusato dalle autorità taiwanesi di essere una spia comunista. Gli anni '60 a Taiwan sono questo, spiazzamento e voglia di riconciliazione, traumi e passaggi dall'infanzia all'età adulta. Anche qui l'individuale e il collettivo costituiscono un tutt'uno inseparabile e la storia dell'isola è anche quella di Hsiao S'ir, Ming, Ma e Honey.

La Storia è anche quella orale del Maestro di marionette (1993) di Hou Hsiao-hsien, in cui attraverso le parole di Li Tien Lu vengono raccontati i cinquant'anni di dominazione giapponese, spesso rimossi dalle ricostruzioni del Kuomintang in funzione propagandistica, ma che Hou decide di trasmetterci come epoca di serenità e di feconda socialità. Il film si salda con Città dolente (finisce dove inizia l'altro) e forma con il successivo Good Men, Good Women un'ideale trilogia della storia taiwanese dell'ultimo secolo. Con Flowers of Shanghai (1998), Hou si spinge ancora più indietro e cambia territorio, spostandosi nella Cina continentale. Se Il maestro di marionette seguiva il procedimento adottato da Hou e dagli altri registi taiwanesi, saldando il dato storico con quello famigliare e sociale, in Flowers of Shanghai il fattuale si nasconde dietro la descrizione ipnotica dei riti di una casta impermeabile a qualsiasi sollecitazione che provenga dall'esterno. È cinema che droga i sensi, che altera la percezione, quello di Flowers of Shanghai, ricco scenograficamente, sinuoso nel muovere la macchina da presa negli eleganti saloni ottocenteschi cinesi. Hou rivede anche la concezione del piano sequenza, ancora più rigoroso e perfetto nell'unire la durata della sequenza in relazione allo spazio in cui prende corpo.

Fratture della quotidianità
Se definire La figlia del Nilo un film di frattura appare eccessivo, certamente è altrettanto indubitabile che il film che Hou Hsiao-hsien realizzò nel 1987 rappresentò un importante cambiamento nel panorama del nuovo cinema taiwanese. In questo film apparentemente di passaggio Hou si immerge per la prima volta nella realtà metropolitana di Taipei, nel suo caos, nelle sue mille luci al neon. Affronta, cioè, di petto, un tema epocale: il cambiamento di Taiwan da società agricola a società industriale, con tutto quello che comporta. Fino alla fine degli anni '60 l'isola dell'estremo oriente era sì un avamposto strategico per gli Stati Uniti, ma l'economia si basava essenzialmente sull'agricoltura e i costumi risentivano in modo decisivo della millenaria tradizione cinese. Agli inizi degli anni '90, con circa vent'anni di ritardo, anche i cineasti portano sullo schermo questi cambiamenti, che vanno dal ritmo frenetico che impongono il modus vivendi occidentale, le nevrosi tipiche della modernità, il diverso ruolo dell'infanzia e dell'educazione, i nuovi mezzi di trasporto, il nuovo modo di vestire dei giovani, la sfera sessuale.

Il cinema taiwanese, grazie a registi come Tsai Ming-liang, Ho P'ing, Lin Cheng-sheng,Wang Shao-ti ed altri spostano il baricentro della loro attenzione alla quotidianità, non quella delle campagne dei primi film di Hou, ma, piuttosto, quella stressante di Taipei. Allo stesso modo viene rovesciata la classicità della messa in scena taiwanese. Ai piani sequenza si sostituisce un montaggio più vicino agli standard occidentali, alla fissità del quadro si aggiungono movimenti di macchina, all'ariosità e all'afflato epico di alcune narrazioni, si affiancano racconti franti, piene di microfratture, di inserimenti. Il ritmo di questi film è rapsodico, sfuggente, spesso inafferrabile, difficile da catalogare. La centralità del personaggio non è messa in discussione, è rivista, piuttosto, rispetto al contesto che lo circonda. Non deve, infatti, più confrontarsi con la Storia, ma deve pensare ad un futuro incerto, fatto di dubbi e di interrogativi; non è inserito nel classico quadro familiare, ma è reduce da scacchi sentimentali, da piccoli scarti dell'animo, incrocia la propria esistenza con le mille variabili del caso e si confronta con uno dei tabù della cultura orientale, il sesso, inteso come carnalità e fisicità. Lo stesso Hou Hsiao-hsien con Goodbye South, Goodbye e Millenium Mambo scopre nuove luci, nuovi colori, nuovi movimenti di macchina, una maggiore libertà compositiva, una visione della realtà in continuo divenire, uno sguardo che si fa eidetico e straniante, partecipe e rutilante. Hou sembra liberarsi della rigorosa composizione che è alla base del suo cinema per abbracciare una forma più libera, capace di contaminarsi con suoni, odori, colori provenienti dall'esterno.

Senza dubbio il nome più rappresentativo di questo nuovo approccio interno al cinema taiwanese è Tsai Ming-liang, che già nei suoi cortometraggi e nell'opera d'esordio Rebels of Neon God (1992) filma l'angoscia metropolitana, l'incertezza della strada, il vagare senza meta e senza un fine preciso di giovani che si organizzano in mini bande, che vivono di espedienti. Corpi straziati dall'esistenza, incapaci di reagire, ma che Tsai ammanta di una lieve poeticità. Successivamente il cinema di questo regista nato in Malesia ed emigrato in giovane età a Taiwan si fa più complesso, ricco di rimandi alla tradizione cinematografica orientale, come il musical hongkonghese degli anni '60 che irrompe improvvisamente nel tessuto narrativo di The Hole (1998). L'incomunicabilità e il movimento nello spazio sono le coordinate entro le quali si sviluppa il cinema di Tsai: una diffusa sensazione di impotenza e di straniamento, unitamente ad una cronica afasia li rende incapaci ad agire, condannati ad essere senza poter incidere sul reale. Gli appartamenti vuoti di Vive l'amour (1994) e The Hole (1998), le corse in motorino in una Taipei deserta non registrano tanto o solo l'adesione ad uno scarno minimalismo stilistico quanto la constatazione di un'umanità errante che rifiuta i significati, il senso, le ideologie. Tsai Ming-liang è anche, però, il primo cineasta taiwanese che affronta e non esita a mostrare uno degli aspetti tabù delle società orientali: il sesso. Prima, in Rebels of Neon God e in Vive l'amour con l'uso di correlativi oggettivi metaforici, poi, in Il fiume, in tutta la sua fisicità, nel rapporto incestuoso tra padre e figlio. Una sessualità mediata da una ritualità tipicamente orientale, da una cerebralità concettuosa e asettica.

Ben diversa quella mostrata, senza imbarazzo né ritrosie da Lin Cheng-sheng, sicuramente uno dei nomi più interessanti emersi nel panorama del cinema taiwanese negli ultimi anni. Questo giovane cineasta abbandona ben presto il delicato ritratto psicologico di A Drifting Life (1996) per sovvertire i tratti essenziali della moralità corrente taiwanese. Murmour of Youth (1997) e Sweet Degeneration (1998) sono i manifesti di una gioventù inquieta che abbandona qualsiasi tabù sessuale per cercare di colmare nel rapporto fisico ciò che manca a livello interiore. Lin Cheng-sheng è veramente il regista più innovatore del nuovo cinema taiwanese, sia a livello stilistico che a livello tematico. Il cuore pulsante del suo cinema è Taipei, nella desolazione e nello squallore dei suoi quartieri più abbandonati, mentre il soggetto antropologico del suo sguardo è una gioventù a cui manca qualsiasi punto di riferimento, inquieta e lacerata. Si è sempre disquisito sulla provenienza urbana dell'opera di Edward Yang (anche in virtù dell'importantissima esperienza americana) rispetto a quella rurale di Hou Hsiao-hsien, ma il prosieguo della loro carriera ha poi dimostrato che si trattava di un'eccessiva semplificazione. Più ancora di Tsai Ming-liang con Rebels of Neon God Lin Cheng-sheng sposta il baricentro del cinema taiwanese nella metropoli e nelle sue contraddizioni, riuscendo a sintetizzare nel suo cinema pieno di invenzioni visive e di provocazioni morali, i paradigmi e gli stilemi di certo cinema orientale (ritualità, riflessione psicologica, riflessione sullo scorrere del tempo) con alcuni topoi propri del cinema occidentale di matrice metropolitano (certe pulsioni autodistruttive, le nevrosi dei personaggi, la coazione a perdere). Una sintesi che fino ad ora era riuscita solo al miglior Tran Anh Hung con Cyclò (1995) e che unisce l'iperrealismo con un naturalismo ebbro, continuamente frantumato.

In parte è un'inquietudine ripresa da un altro giovane cineasta, Ho P'ing che, come Lin Cheng-sheng, ha gli adolescenti e i loro turbamenti come serbatoio privilegiato per le sue storie. Il cinema di Ho P'ing è sicuramente maggiormente stilizzato e più legato alla tradizione taiwanese. Semmai in lui è accentuata una certa propensione (sviluppata poi, in particolare da Tsai Ming-liang) a circoscrivere i suoi personaggi in spazi angusti, in cui si sentono intrappolati, con un notevole senso di claustrofobia. Gli adolescenti di Eighteen (1993), sono incapaci ad agire ancora prima che incapaci ad essere, cristallizzati in un terribile silenzio. La riflessione sullo spazio viene radicalizzata da Ho P'ing in uno dei film taiwanesi più curiosi degli ultimi anni: Wolves Cry Under the Moon (1997) in cui le infinite superstrade taiwanesi, molto simili ad un modello di sviluppo urbanistico occidentale (in particolare americano) si rivelano, in realtà, in un meccanismo claustrale dal quale i personaggi sembrano non riuscire a sottrarsi. In un intervista Ho P'ing ha, infatti, dichiarato che i taiwanesi si muovono attorno ad un cerchio e sembra che non ci possa essere via d'uscita. The Rule of the Game (2001) visto recentemente al Forum conferma la sensazione di trappola entro la quale sono iscritti i personaggi di questo giovane regista che filma lo spaesamento, il senso di straniamento, il tentativo di trovare una collocazione definitiva.

Lo stesso Edward Yang, negli anni '90, al di là del corale Yi Yi, per certi versi complementare, spostato sul piano della contemporaneità a A Brighter Summer Day, ha filmato lo spaesamento quotidiano dei giovani di Taipei in A Confucian Confusion (1994) e Mahjong (1996), due commedie dal ritmo franto, rapsodico, inconsueto per un cineasta come Yang. La prima si immerge, come dice il titolo stesso, nella "confusione" metropolitana di Taipei, seguendo le vicende sentimentali e professionali di un gruppo di ragazzi. La m.d.p. si muove nervosa negli algidi e asettici interni dei grattacieli e nei locali fumosi della capitale dell'isola. Yang, pur continuando a filmare in campo lungo e con l'uso di piani sequenza, incrina parzialmente le coordinate geometriche del suo cinema cercando di restituire un effetto di puro stordimento e di perdita del centro. Mahjong, in questo senso è un film ancora più inafferrabile, policentrico e polifonico, ibrido nella sua disperata impresa di trovare una collocazione ai propri personaggi che sono alla ricerca di qualcosa che non otterranno mai. Anche qui, come in A Confucian Confusion, alla luce naturalistica dei suoi primi film e della gran parte dei film taiwanesi degli anni '80 si sostituisce la luce al neon e i colori fluorescenti dei locali frequentati dai protagonisti, in una storia quasi completamente ambientata di notte, tra fallimenti esistenziali, scacchi sentimentali e speranze deluse.

Sono queste le coordinate entro le quali si inscrive l'ultimo cinema taiwanese che abbandona quasi completamente la riflessione sul suo passato per affrontare le contraddizioni del presente. Anche gli steccati autoriali cominciano a cadere. Ang Lee è ormai definitivamente proiettato nella logica degli studios americani, per i quali sta realizzando The Hulk, in uscita la prossima estate, mentre Tsai Ming-liang con What's Time Is There? e Hou Hsaio-hsien con Millenium Mambo hanno accettato la regola di una sorta di meticciato estetico e linguistico, in cui gli stilemi e i paradigmi del proprio cinema si confondono con sollecitazioni di autori occidentali o si uniscono a elementi della tradizione orientale in un coacervo di immagini, suoni e simboli. Il miglior esempio è forse Mirror Image, presentato nella Quinzaine des Réalisateurs a Cannes nel 2001, diretto da Hou Hsiao-chuan, assistente alla regia di Hou Hsiao-hsien per Flowers of Shanghai, con una concezione claustrale dello spazio tipica di Tsai Ming-liang, la fissità della macchina da presa che ricorda il primo Hou Hsiao-hsien, ma con infiltrazioni estetiche (luci al neon, deformazioni del reale) che rimandano al cinema di Lin Cheng-sheng.

Millenium Mambo
Il cinema taiwanese sta attraversando produttivamente una fase di crisi, analogamente a quanto sta avvenendo per le altre cinematografie orientali. Non si è ancora verificato il fenomeno di trasmigrazione dei cineasti più rappresentativi cooptati da Hollywood, come ad Hong Kong, ad eccezione di Ang Lee. Non c'è dubbio, però, che da un parte la produzione statale (la Central Motion Picture Corporation) è in graduale reflusso, con una moderata ripresa proprio nel 2001, mentre le produzioni indipendenti faticano a trovare un'adeguata collocazione. A Taiwan manca un solido star system, unico elemento che ha consentito all'industria hongkonghese di sfuggire al crollo commerciale, e i grandi autori non hanno mai trascinato le grandi masse. Hou Hsiao-hsien, Edward Yang, Tsai Ming-liang e i giovani registi degli anni '90 sono giustamente considerati l'avanguardia del cinema orientale dalla critica occidentale (soprattutto quella francese), ma in patria sono ancora visti come fenomeno marginale, di nicchia, indirizzato ad un ristretto gruppo di esperti. Altre realtà limitrofe, come la Corea del Sud si sono rilanciate puntando su formule produttive miste, affidate all'impresa privata e alla televisione, mentre in Thailandia gli studios stanno mettendo a punto un modello estetico trainante fatto di contaminazione di elementi apparentemente antitetici, di forte caratterizzazioni cromatiche, di entertainment. Ciò che è sempre mancato a Taiwan e che, in questo momento sembra mancare in modo ancora più drammatico, dal momento che gli esiti commerciali di un film non sono più il risultato degli incassi fatti registrare in patria, ma della loro capacità di essere esportabili, è la mancanza di prodotti di facile fruizione. Mancano commedie, musical, b-movie. Anche se non ci si rivolge più al passato, la produzione taiwanese continua ad essere circondata da un aura autoriale, dalle stimmate dell'operazio- ne piena di senso e di significati. E' assente l'evasione, il puro divertimento.

Registi importanti come Wen Jen e Wu Nien-jen hanno ormai esclusivamente rivolto la loro attività alla televisione, mentre altri ancora come Hou Hsiaoming faticano a trovare fondi per poter realizzare altri film. Si tratta di una crisi che coinvolge anche i tre autori per eccellenza del cinema taiwanese: Hou Hsiao-hsien per realizzare sia Flowers of Shanghai che Millenium Mambo ha dovuto ricorrere a capitali giapponesi, What Time Is There? è una coproduzione franco-taiwanese, mentre Yi Yi di Edward Yang è stato completato con l'apporto di una casa di produzione inglese, la Capitol Film. L'unico specifico taiwanese, al di là della CMCP che ha, però, il grande merito di sostenere registi promettenti come Lin Cheng-sheng, (in pre-produzione con Robinson Crusoe), è costituito dalle produzioni tra piccole case indipendenti appoggiate da figure carismatiche operanti nel settore come Peggy Chiao. Al di là di questo occorre sottolineare che endemicamente il cinema taiwanese è poco esportabile, in parte proprio per il suo scarso tasso di spettacolarità e perché in esso il fascino per l'esotismo e lo sconosciuto che avvicina lo spettatore occidentale alla produzione orientale è mitigato dal rigore dei suoi stilemi. Se si escludono i film di Hou Hsiao-hsien, Tsai Ming-liang, Edward Yang e Ang Lee, che vengono regolarmente distribuiti in Europa (ad eccezione dell'Italia) e nel mondo, i prodotti taiwanesi hanno un mercato unicamente in Francia, in virtù del fatto che questa è spesso paese coproduttore.

Rimane il circuito dei festival che, benchè in continuo aumento, e vetrina internazionale di prestigio, non consente al cinema taiwanese di essere conosciuto in Occidente al pari di quello hongkonghese, di quello coreano, di quello cinese e, forse, fra qualche anno di quello thailandese e di quello indiano. L'ultimo festival di Cannes ha, però, fatto luce su un'altra importante via produttiva che si sta affermando non solo ad Hong Kong, ma in tutto l'Oriente. La Sony, infatti, dopo aver finanziato Non uno di meno e La strada verso casa è entrata "ufficialmente" in Cina, con l'apporto decisivo delle autorità governative con il film, fuori concorso quest'anno al festival di Berlino, Big Shot Funeral, storia di un regista interpretato da Donald Sutherland, realizzato grazie all'apporto di maestranze e tecnici cinesi e americani. Ma sembra non essersi fermata qui. L'investimento riguarda, in generale, il cinema orientale, se si pensa al film tutto hongkonghese di Tsui Hark, Time and Tide, o Double Vision, al Certain Regard di Cannes 2002, diretto dal taiwanese Chen Kuo-fu. È importante sottolineare che la presenza di capitali statunitensi non si può limitare ad una dimensione economica, dal momento che in Double Vision compare, per la prima volta in un film taiwanese, la coppia assortita di poliziotti, uno bianco, yankee (interpretato da David Morse) e l'altro giallo, di Taipei, e la vicenda si snoda sui binari dell'action americano attraversato da pillole di misticismo orientale.

Anche a Taiwan, quindi, comincia a prendere piede quella globalizzazione artistica e culturale di cui ci parlava Bruno Fornara nell'editoriale a commento di Cannes 2001. Un'altra importante realtà di cui tenere conto per avere un esaustivo quadro della realtà produttiva a Taiwan è l'inserimento, sempre più frequente, di festival internazionali (Rotterdam su tutti) che investono su registi che hanno scoperto, e di grandi case distributive come l'olandese Fortissimo, specializzata nella diffusione in Occidente del cinema orientale di qualsiasi provenienza (Cina, Giappone, Filippine, Thailandia, Taiwan, Hong Kong, Cambogia, Vietnam). La Fortissimo non solo sta contribuendo alla realizzazione dell'ultimo film di Wong Kar-Way, 2046, ma sta producendo alcune opere taiwanesi come The Best of Time di Chang Tso-chi. È proprio grazie a questi apporti esterni che il cinema taiwanese può guardare al futuro con un cauto ottimismo, aprendosi a culture differenti, ad esperienze apparentemente antitetiche, pur lasciando inalterate le proprie prerogative e la propria identità fondante.

Note
John Lent, "The Asian Film Industry".

Un ampio quadro sulle relazioni tra la produzione cinematografica di Taiwan e quella cinese si trova in Li T'ien-tuo, Huang Ying-ten e Lin Hsiench'eng, The Dinamics Between Taiwan and China's Cinema in a Time of Political and Economic Change, in "Contemporary", aprile 1993, pp. 24-33. Sullo stato del cinema ad Hong Kong e in Cina vedi la tesi di laurea del 1993 di Yu Gwo-chuao, "China, Hong Kong and Taiwan: The Convergence and Interction of Chinese Film".

Uno studio analitico sulle cause del declino produttivo del cinema taiwanese negli anni ottanta si trova in Wei Shao, "Disorted Growth: An Analysis of Taiwan Film Production".

"Cineforum" n. 302 pp. 7-30.

Antonio Termenini