Mizoguchi e la libertà

Il montaggio e tutto il resto: un viaggio attraverso alcuni dei più importanti film di Mizoguchi, con particolare attenzione alla libertà dei suoi punti di vista. Le immagini, i conflitti, le emozioni di un cinema che fa dell'artificio il suo stesso argomento, e della ricerca dell'autenticità un'ossessione.

MIZOGUCHI E LA LIBERTÀ

 

(...) Non c'è dubbio che il cinema di Mizoguchi, per quanto incentrato su temi esclusivamente giapponesi, s'inscriva nella tradizione espressionistica del cinema occidentale e del naturalismo romantico francese, così come nella rivolta alla cultura tradizionale giapponese. Non fosse stato giapponese, probabilmente, Mizoguchi sarebbe stato facilmente etichettato come "anti-giapponese". Sospetto di non riuscire a sentirmi prossimo ai personaggi di Mizoguchi perché il suo è un cinema che fa dell'artificio non soltanto uno stile, ma il suo stesso argomento e della ricerca dell'autenticità un'ossessione. Non riesco a sentirmi vicino ai personaggi di Mizoguchi perché spesso non sono neppure "lì" sullo schermo, ma sono l'oggetto della ricerca e sono loro stessi alla ricerca di un autore, come in Pirandello. Sono due gli aspetti del suo cinema: il montaggio e tutto il resto.

Parte 1: Tutto il resto
Yuki fujin ezu (Ritratto della signora Yuki, 1950) comincia, come molti film di Mizoguchi (e molti film di Ford) con un arrivo: la giovane Hamako arriva dalla campagna per servire l'affascinante e aristocratica Lady Yuki che lei venera, sia pure da lontano, fin da quando era piccola. Con un'attrice così graziosa, riservata e ingenua come Yoshiko Kuga, l'inizio è più che promettente. Uno immagina qualcosa di simile a quel che Ophuls e Hitchcock avevano fatto con Joan Fontaine in Lettera da una sconosciuta e Rebecca. Ed effettivamente l'inizio è simile, con Hamako persa in contemplazione mentre fa il giro delle proprietà di Yuki. Mizoguchi ci offre perfino il suo monologo interiore in voice-over, mentre fa il bagno, un po' alla maniera di King Vidor con Audrey Hepburn in Guerra e pace.

Ma subito dopo averci sedotto, Mizoguchi ci esclude. Ci sposta da Hamako a quel che Hamako sta vedendo. Nella scena successiva la vediamo mentre chiacchiera con Seitaro, ma non riusciamo neppure a intuire le sue sensazioni perché è troppo lontana dalla camera, messa lì soltanto per ascoltare. A questa seguono un viaggio in autobus e uno in treno, ma è il suo compagno di viaggio Kikunaka a rubarle la scena, così come successivamente capiterà con Yuki.

Non essendo più il nostro punto di riferimento, Hamako diventa un personaggio secondario di scarsa importanza, null'altro che una "persona" costretta da Mizoguchi a volgerci le spalle. L'unica altra scena di Hamako è quella in cui il marito di Yuki la costringe ad assistere mentre lui fa l'amore con la moglie. Dopo di che Mizoguchi la relega volontariamente in un campo lungo alle prese con una scopa, con Kikunaka e la governante che commentano sprezzanti prima di cambiare argomento. Di fatto tutte le scene del rapimento di Hamako non sono servite ad altro se non a preparare il terreno per Yuki.

E poi è la stessa Yuki a trasformarsi in un personaggio laterale! Come Charles Foster Kane. E lo stesso accade a Kikunaka, figura senza volontà e spessore, così come il volgare e disgustoso marito di Yuki. Un gruppo di aristocratici degenerati. Perché mai Mizoguchi ci sottrae Hamako che, nell'intepretazione di Yoshiko Kuga, emana tanta intensità quasi senza sforzo e con così tanta grazia? Michiyo Kogure, al contrario, incarna il personaggio di Yuki come un vuoto, con tutta l'energia diretta verso l'interno, incapace di uscire dalla propria nullità, incapace di trovare uno scopo superiore se non quello della sua stessa estinzione. Quando rimane incinta la sua risposta è dissolversi nelle vaghe nebbie delle rive del lago e poi nel lago stesso. Mentre Hamako – parlando a nome delle donne giapponesi del dopoguerra, ma ormai definitivamente relegata in campi lunghi quasi indefinitamente distanti – sconfessa la sua eroina di un tempo: «Madame Yuki, una donna senza coraggio!» Perché Mizoguchi non ci lascia vedere il suo volto? I migliori film americani sono basati essenzialmente sui personaggi, il che vuol dire che i fatti, la trama, l'illuminazione e la messinscena sono concepiti per focalizzare il nostro interesse sui personaggi. (...)

In Mizoguchi troviamo spesso la gioventù che critica la vecchiaia. Anche in Shin heike monogatari (Nuova storia del clan Taira, 1955), ambientato nel dodicesimo secolo, i giovani dicono agli aristocratici che il loro tempo ormai è finito. È difficile trovare un film di Mizoguchi senza donne indifese e uomini brutali – e ugualmente vulnerabili. C'è sempre un momento in Giappone in cui, come c'informano i titoli di testa di Shansho dayu (L'intendente Sansho, 1954), gli uomini devono «ancora svegliarsi per diventare esseri umani». Yuki probabilmente associa la figura di un patriarca forte all'identità della sua infanzia perduta e per questo non sa difendersi dal marito. In questo modo l'invettiva di Hamako nei suoi confronti ha un sapore allo stesso tempo generale e atemporale, cosa che rende Hamako, per Mizoguchi, una persona irrilevante, se non per le sue azioni. Paradossalmente, un'attrice delle qualità di Yoshiko Kuga è eccezionale nei film di Mizoguchi, proprio perché dà ai suoi personaggi esattamente quel tipo di individualità. Si immedesima talmente nei suoi personaggi che sembra impossibile, mentre uno la osserva in un ruolo, immaginarla in un qualunque altro – in Shin heike monogatari o Uwasa no onna (Una donna di cui si parla, 1954) di Mizoguchi, in Ohayo (Buon giorno, 1959) di Ozu, in Yoidore tenshi (L'angelo ubriaco, 1948) o Hakuchi (L'idiota, 1951) di Kurosawa o nei suoi film con Kobayashi, Ichikawa e Oshima.

Al contrario di Kuga, gli altri attori di Mizoguchi mostrano spesso un coté da commedia dell'arte, una coscienza pirandelliana di star recitando e di farlo entro uno stereotipo. Il tema, dunque, è quello dell'artificio. Sembra che il peccato originale del Giappone di Mizoguchi sia il fatto che tutti ricoprono un ruolo e un atteggiamento conseguente a quello, e che le personalità, i nomi, gli abiti e le posizioni sociali non sono altro che apparenze posticce che nascondono il vuoto, l'inesistenza. Alcuni personaggi sono alla ricerca di un'identità (i protagonisti di Sansho dayu e di Shin heike monogatari), molti altri cercano di assumerne una e altri ancora, come Yuki o come Oharu in Saikaku ichidai onna (Vita di O-Haru, donna galante, 1952) sembrano non possedere alcuna indentità se non quella dei ricordi d'infanzia. Come l'asino Balthazar di Bresson, se non fosse che in Mizoguchi sono tutti asini, risultato della crudeltà del mondo, non ancora umani, soltanto posticci. Il male è generalizzato in Mizoguchi, non è individuale: non ci siamo ancora "svegliati". È per questo che gli attori non sembrano neppure parlare tra loro, ma si rivolgono direttamente a noi, senza timore di gigioneggiare, come Chaplin; si palesano flirtando con noi; girano gli uni attorno agli altri, recitando per noi, dicendoci – come nella commedia [in italiano nel testo, ndt], in Brecht e in Chaplin – che gli artifici sociali sono una dannazione, non un riparo.

La tradizione è in larga parte brutalità istituzionalizzata. La cerimonia del tè offre a Mizoguchi in Gion bayashi (La musica di Gion, 1953) lo spunto per una delle sue sequenze più belle, ma è una cerimonia organizzata dalla maîtresse di un bordello come parte dell'addestramento di ragazze adolescenti che s'apprestano a diventare prostitute, come dimostrazione della capacità del Giappone di vendere se stesso ai turisti stranieri. Anche le relazioni familiari sono basate su una corruzione del genere: in Chikamatsu monogatari (Gli amanti crocifissi, 1954), una madre, che è stata costretta a vendere la figlia per evitare la bancarotta, è ossessionata dall'idea che questa si tolga la vita e non tanto perché ami sua figlia, ma perché lo scandalo distruggerebbe la famiglia. E sebbene la ragazza, che è fuggita, continui a mandare denaro a casa, la madre terrorizzata la denuncia alla polizia che alla fine la condannerà a morte – sulla croce – per un delitto d'amore, un amore peraltro mai consumato.

Virtualmente ogni rapporto in Mizoguchi è contrassegnato da una gerarchia, dall'umiliazione, dall'asservimento. Attraverso lo spazio si esprime il potere di una persona e la nullità dell'altra: inchini che non finiscono mai, salamelecchi, gente che s'umilia strisciando per terra. E nonostante tutte queste inquadrature di gente che attraversa stanze e corridoi, non capiamo mai cosa si provi a vivere in quelle case, perché queste sono soltanto set, scenografie costituite da rettangoli, cubi, linee e volumi, e il loro spazio è fittizio, parte di un incubo di potere. L'eleganza delle costruzioni, le linee precise degli edifici, la sensazione rassicurante che proviene dalle strutture stesse di trovarci dentro un ordine da manuale zen, tutte queste cose si rivelano come forze geometriche di oppressione e reclusione che ricordano il Caligari, tanto quanto la tradizione giapponese.


Colonne sonore percussive fanno spesso da eco alla geometria dei set. Anche gli esterni in Mizoguchi sono degli artefatti: i celebri laghi immersi nella nebbia di Ugetsu monogatari (I racconti dalla luna pallida d'agosto, 1953) e di Yuki fujin ezu; gli stagni brillanti di Yuki e Sansho, i ruscelli di campagna e i villaggi che richiamano paesaggi olandesi in Utamaro (Cinque donne attorno a Utamaro, 1946). La realtà è soggettiva, investita dall'emozione. I film sono costruiti soprattutto sull'atmosfera, ha detto Mizoguchi, citando Vermeer. A volte non c'è molta differenza tra il Giappone di Mizoguchi e la Danimarca di Dreyer, quella in cui si bruciano streghe (Dies irae) o i morti risorgono (Ordet) apparentemente per nessuna ragione sensibile se non per la qualità della luce. Il mondo veramente reale è un po' come l'amore o la libertà, è qualcosa di irraggiungibile come il cielo. Se la tradizione ha una qualche forza, di sostegno o ispirazione, questa si traduce soltanto in una speranza. Ci si sottomette alla tradizione per tener fede alle "parole" del padre. In Sansho dayu Anju si sacrifica proprio perché Zushio possa mantenere le parole del padre. Dopo aver passato un cancello attraversato da una luce che suggerisce un altrove infinito, Anju annega in uno stagno le cui onde concentriche ripetono le stesse "parole" in un movimento centrifugo che ritroviamo poco più tardi come un'eco, con la camera che retrocede mentre Zushio avanza e libera messianicamente gli schiavi, prima di apprendere la notizia della morte della sorella, morte che riduce il suo grande gesto alla semplice estinzione di un'onda. Analoghi motivi si ritrovano nella difesa del padre da parte di Kyomori in Shin heike monogatari (dopo che questa ha risolto il dubbio cruciale su chi sia suo padre); nella devozione dei quarantasette samurai in Genroku chushingura (Storia dei fedeli seguaci dell'epoca Genroku, 1942) e di Mohei in Chikamatsu monogatari; nell'eroismo di Okita in Utamaro; nella fermezza di Munechika in Gubijinso (Il papavero, 1935); nell'offerta funebre del figlio di Genjuro alla fine di Ugetsu. In tutti questi casi, tener fede equivale a compiere un atto. L'identità di sé è l'atto che una persona compie. La "personalità" è un nulla. Costruiamo noi stessi sulla base delle parole del padre e ci dedichiamo totalmente, così come fanno i samurai, alla realizzazione di un fine ideologico. Per questo, in un certo senso, non c'è nessuna differenza in Sansho dayu tra lo schiavista e il liberatore: il rifiuto dello schiavista che marchia a fuoco i propri schiavi di provare pietà per questi si fonda sulla fedeltà alle parole del padre. Da questo deriva l'aspetto di consapevole pirandellismo di questi personaggi, splendidamente esemplificato non tanto dalla facilità con cui Zushio si trasforma da schiavo a governatore imperiale in un batter d'occhio, quanto dal suo disprezzo per la maschera – la schiavitù pirandelliana nei confronti dell'artificio, della necessità di assumere un ruolo per poter sopravvivere nella società e comandare – e dall'uso che fa dell'autorità contro l'autorità stessa. Se Zushio riesce a fare tutto questo è perché capisce di non essere nulla in sé: quel che conta sono le sue azioni. Allo stesso modo se Hakamo scompare ai nostri occhi in Yuki è perché non ha più nulla da fare.

Sono pochi ed eccezionali gli eroi in Mizoguchi; servono a ricordarci che la maggioranza delle persone è solo un ingranaggio del sistema, violenta e terrorizzata insieme. Sembra quasi uno scherzo brechtiano il momento di Saikaku ichidai onna in cui un personaggio viene arrestato per falso in un mondo di geishe in cui ogni relazione è falsa e l'unica emozione autentica è la paura. L'intero film è un'invettiva iconoclasta contro ogni tipo di autorità, potere, ruolo o comportamento. Per questo i grandi temi di Mizoguchi sono anche le grandi passioni: amore, dovere, onore e suicidio. E pure quelle più meschine: denaro e avidità. Le persone su cui focalizza l'attenzione sono ossessive, addirittura isteriche nelle loro necessità, come i dissoluti infernali di Balzac – Goriot, Hulot, Eugénie Grandet. Eroi come Zushio e Kyomori si muovono sulla scena come se fossero caricati da una molla. Al contrario di Yuki e il marito che sprofondano sempre più nel languore. I cattivi sono fuori dal comune quanto i buoni, sempre al di là di ogni redenzione, creature da melodramma e da commedia [in italiano nel testo, ndt], se non addirittura da mondo di marionette. Eppure, soltanto pochi giorni prima di liberare gli schiavi Zushio non era altro che una volgare rotella dell'ingranaggio, capace di marchiare a fuoco un vecchio, senza pietà. Il suo "risveglio" non era ancora avvenuto.

«Descrivimi l'implacabile» ha chiesto una volta Mizoguchi al suo fedele sceneggiatore Yoshikata Yoda, all'epoca di Naniwa hika (Elegia di Naniwa, 1936). «Descrivimi l'implacabile, l'egoistico, il sensuale, il crudele... Ci sono soltanto persone disgustose a questo mondo». Il melodramma naturalistico era in questo senso il mezzo ideale: «Tutto deve essere cristallizzato, concentrato... Devi scrivere una grande opera alla maniera di Balzac, Stendhal, Victor Hugo o Dostoyevsky».

Se una recitazione della qualità di Yosiko Kuga è eccezionale in Mizoguchi probabilmente è perché l'attrice è così brava a costruirsi nuove identità, diventando così l'estrema giustificazione, almeno da un punto di vista artistico, del sistema stesso di artifici che Mizoguchi cerca di combattere. Stili attoriali più minati dal dubbio, più "brechtiani" sono più efficaci nel segnalare l'arbitrarietà della repressione sociale e la supremazia delle azioni sugli individui. Mizoguchi è più interessato allo schema che sta attorno agli individui che agli individui stessi. Uno schema che definisce e allo stesso tempo soffoca, dal quale c'è sempre il pericolo che l'individuo esca fuori violentemente. Ed è soltanto quando le emozioni più profonde stravolgono gli artifici "caligareschi" che il rinnovamento morale arriva a redimere le intollerabili costrizioni della vita.

Molti dei momenti magici del cinema di Mizoguchi derivano dalla sua attenzione per le icone, per le strutture che delimitano gli individui. I suoi attori devono soltanto mettersi in posa, come in questa inquadratura di Gion Bayashi. E i campi lunghi spesso servono solo ad amplificare le loro emozioni. La forte influenza di Murnau è evidente in questa sorta di linguaggio del corpo. Pensate ad esempio come questo tipo di sconforto assomigli a quello di Tabu di Murnau. E in una maniera simile comincia anche Dodsworth (Infedeltà, 1936) di William Wyler, un autore che Mizoguchi ammirava molto.

In Uwasa no onna basta soltanto che una prostituta si appoggi a un lampione perché le sue emozioni diventino subito chiare. Nello stesso modo, in Saikaku ichidai onna, la sofferenza di O-Haru che cerca disperatamente di sbirciare il proprio figlio viene espressa anche attraverso la sua postura. Si potrebbero citare altre centinaia di momenti del genere. Anche se il pathos che generano è esterno: è un conflitto tra i personaggi e il mondo. Quel che invece rende Genroku chushingura così potente e eccitante – nonostante duri tre ore e trentasei, con solo 160 inquadrature e praticamente senza azione – è al contrario il fatto che il conflitto è interno. Non solo perché i personaggi agiscono riferendosi a un codice, ma perché il conflitto tra loro e il codice è evidente: da questo deriva il dramma. Lunghe inquadrature trattengono la tensione, così come i cubi e i rettangoli, e nella loro durata la amplificano oltre ogni sopportazione.

Il conflitto ha origine nel 1701 quando Lord Kira provoca Lord Asano e lo spinge ad attaccarlo durante la cerimonia di corte. Per questo sacrilegio Asano è condannato a fare harakiri e la sua casata viene estinta. Ossequienti all'ordine, i familiari di Asano e il suo seguito giudicano giusta la sentenza. Ma il loro codice di samurai richiede che anche Kira venga condannato, perché in caso contrario non esisterebbe più l'ordine. L'imperatore stesso è dispiaciuto del fatto che Asano, nel rispondere alla provocazione, abbia fallito il suo attacco. Il conflitto si risolve con i 47 samurai di Asano che uccidono Kira, mettono la sua testa sulla tomba di Asano e commettono tutti harakiri. E questa è una rivoluzione che proviene dall'interno. Il loro gesto provoca l'abolizione del casato di Kira e da questo deriva un rinnovamento morale, come la liberazione degli schiavi da parte di Zushio in Sansho dayu. Un rinnovamento che viene pagato di persona e a caro prezzo, al punto da spingerci a pensare che possibilità esistano per una società in cui i migliori cittadini si trovano nell'obbligo di suicidarsi. I critici sono tutti concordi nel giudicare Genroku chushingura, realizzato con grandi investimenti durante la Seconda Guerra Mondiale, come un'esaltazione del militarismo, dell'obbedienza fino alla morte, della sottomissione dell'individualità a un codice d'onore e dunque della guerra fascista condotta dal Giappone. Ma quando, nove anni dopo, in Sansho dayu, Anju entra lentamente in acqua così che il fratello possa fuggire e così tener fede alle parole del padre, non c'è stato un critico capace di accusarlo ancora di simpatie fasciste. Di fatto, atti deliberati di suicidio sono endemici nel cinema di Mizoguchi nel decennio successivo alla guerra: Utamaro, Yuki fujin ezu, Oyusama (La signora Oyu, 1951), Musashino fujin (La signora di Musashino, 1951), Sansho dayu, Chikamatsu monogatari e Shin heike monogatari. E, come in Genroku chushingura, il suicidio è sempre una protesta contro l'ordine imperante e si giustifica con la necessità di purificare quell'ordine, di «Trasformare il falso in vero» come dice una giovane che decide di unirsi all'harakiri dei 47 samurai.

Mizoguchi non mostra il sangue. Forse è immorale non lasciarci vedere nei dettagli l'assassinio di Kira, almeno per mostrarci a cosa tutti quegli alti discorsi hanno portato. Del resto non vediamo neppure gli sventramenti finali. Non è il dolore che i samurai temono, o la morte, due cose trascurabili da un punto di vista morale. Quel che temono, come i cristiani di fronte ai leoni, è la possibilità di esitare (come ha fatto Asano). «Mostrarsi forti è più difficile di quanto uno pensi», fa notare Oishi. È questo che strappa le lacrime. È questa la tensione che le lunghe inquadrature di Mizoguchi amplificano. In ogni momento possiamo vedere l'attore che rischia di tradire il suo ruolo, l'individuo che infrange il rituale. È perché hanno perso tutto e non riescono più a controllarsi che queste persone si autoimpongono una disciplina di ferro. La moglie di Asano che si taglia i capelli con grazia perfetta e stile, in segno di solidarietà e di lutto, è passione pura, come la Giovanna di Dreyer.

Il loro non è, come alcuni hanno sostenuto, un conflitto fra dovere e sentimento (giri contro ninjo). Le azioni di Oishi sono i suoi sentimenti, la sua identità, il suo io. Il sentimento impossibile da sopportare è quello di non riuscire a tenere fede alla parola. Le storie sono storie d'amore: Oishi che è stata compagna di Asano fin dall'infanzia; la ragazza che non può riunirsi al suo fidanzato. E in entrambi i casi queste amanti suicide "correggono" i fallimenti dei loro amati, tramutando il falso in vero.

Il disprezzo nei confronti della parola è la molla che spinge i personaggi di Mizoguchi alla violenza. In Uwasa no onna, Yukiko (Yoshiko Kuga) è quieta come un agnellino prima di correr dietro al suo amante traditore con un paio di forbici. Mizoguchi se la prende con i traditori anche in Gubijinso, Naniwa hika, Gion no shimai (Le sorelle di Gion, 1936), Utamaro, Yuki fujin ezu, Oyu-sama, Musashino fujin e Ugetsu (e mi riferisco soltanto ai film di Mizoguchi che conosco: 21 su 85). Utamaro (1946) è quasi un remake di Genroku chushingura: Okita uccide l'amante fedifrago e giustifica l'omicidio col fatto di tener fede a se stessa, ma allo stesso tempo, come i quarantasette samurai, accetta le conseguenze legali del suo gesto, ricevendo il plauso di tutti. Una donna aristocratica dice che adesso sa qual è il comportamento che una donna deve seguire e l'artista Utamaro, schiavo delle stesse mitologie di Okita, così come per secoli i poeti giapponesi nei confronti del mito dei 47 samurai, dichiara «Voglio farle un ritratto!».

Parte 2: il montaggio
«È questa lingua, non il giapponese, che bisogna imparare se si vuole capire Mizoguchi»
(Jacques Rivette, a proposito della messinscena)

La successione di inquadrature che vedete sotto e che proviene da Gubijinso non sarebbe mai stata permessa in un film occidentale eppure è tipica di Mizoguchi e non solo del Mizoguchi del 1935. In America o Europa la posizione della camera nelle sei inquadrature sarebbe stata strutturata così: Quel che fa Mizoguchi invece è questo: Le inquadrature di Mizoguchi non "stanno assieme", ognuna di queste combatte con l'altra, presenta un'angolazione inaspettata, impone ogni volta allo spettatore un riorientamento diverso. La maniera occidentale non accetterebbe l'angolo acuto dell'inquadratura 2, né passerebbe, per nessuna ragione particolare, dietro ai personaggi nelle inquadrature 2, 3 e 5, per tornare di fronte a loro nelle inquadrature 4 e 6. La maniera occidentale avrebbe cercato di conservare lo spazio emotivo dei personaggi, così da permettere a noi di apprezzare i loro sentimenti mentre si guardano tra loro. In Mizoguchi, al contrario, il susseguirsi delle inquadrature sembra suggerire che il ragazzo e la ragazza si mettano in mostra per noi spettatori piuttosto che l'uno per l'altro. Mizoguchi cerca la maniera più romantica possibile di comporre, da un punto di vista pittorico, ogni momento della loro conversazione con un risultato meraviglioso ed eccitante, che val la pena di vedere e di rivedere più volte. Ma soprattutto quel che fa è situarci una volta di più al di fuori dei personaggi a favore delle loro azioni. I cambi di prospettiva di Mizoguchi assomigliano a quel che fa Humphrey Jennings quando mescola in maniera surreale immagini diverse dell'Inghilterra durante il blitz. Con la differenza che Jennings fa un panorama dell'intera Inghilterra, Mizoguchi lo fa su una scena d'amore.

In maniera non dissimile Mizoguchi prende tutte le angolazioni possibili in Genroku chushingura durante la lunga conversazione tra Oishi e la ragazza e in Ugetsu monogatari, svariando tra plongée e contreplongée nella scena in cui Genjuro viene sedotto dalla donna fantasma: Naturalmente una conversazione fra tre persone in Gion Bayashi viene ripresa da tre angolazioni diverse. Cosa, probabilmente, mai successa in un film americano: Per Mizoguchi lo "scavalcamento dell'asse" è una cosa del tutto normale col risultato che i personaggi cambiano posizione ad ogni nuova inquadratura, ma per quanto la defizione di "scavalcamento dell'asse" sia il termine tecnico giusto per descrivere quel che ogni buon montatore occidentale è tenuto a evitare, questa non basta a descrivere lo stile di Mizoguchi.

Pensate a una mappa degli Stati Uniti con una coppia nel mezzo. Secondo la maniera occidentale la camera va posta in Messico con qualche spostamento per mostrare il ragazzo o la ragazza o entrambi, all'interno comunque di una prospettiva coerente (il Messico). Mizoguchi, invece, comincia dal Messico per passare in Canada, con un ripresa aggiuntiva dalle Hawaii e poi una dall'Islanda. Al posto di un punto di vista coerente (il Messico), Mizoguchi passa da un punto di vista all'altro su un cerchio immaginario che si stringe attorno alla coppia. Col risultato che non esiste più una prospettiva spaziale se non quella narrativa di Mizoguchi. È per questo che facciamo sempre fatica a capire la disposizione delle case e delle stanze e perché lo spazio nei suoi film sembri sempre così finto, così collegato alla "forma" e alla psicologia piuttosto che alla realtà. Non è che Mizoguchi cerchi deliberatamente di "scavalcare l'asse", cerca di confondere il nostro senso dello spazio. Alzando e abbassando la camera, cambiando i punti di vista, Mizoguchi avvolge i suoi personaggi in un senso di comunione: lo spazio delimitato dalla camera diventa uno spazio condiviso.

Anche Ozu ottiene un effetto di spazio condiviso, ma con altri mezzi e altri fini, ad esempio montando le immagini di due persone che parlano guardando direttamente in camera ovvero che parlano direttamente a noi e ci fissano, così che noi diventiamo il punto focale dello spazio (e delle sensazioni) che loro condividono. Si potrebbe dire che Ozu è intimo, là dove Mizoguchi è epico. La camera di Ozu sembra trovarsi in mezzo ai personaggi, all'interno del loro spazio. Quella di Mizoguchi è al di fuori. Ozu crea un'empatia personale tra noi e i suoi personaggi. Mizoguchi, in rottura con lo stile colloquiale di Ozu (e del cinema occidentale), impedisce ogni empatia e isola moralmente ogni individuo. Perché non sono gli individui che contano, ma le loro azioni e la concezione dello spazio in Mizoguchi serve proprio a sottolineare le azioni, non gli individui. Un po' come Rossellini, Mizoguchi dà l'impressione che le cose succedano a prescindere dal suo intervento e che lui sia semplicemente lì a filmare. È così che riesce a tenerci lontani dai suoi personaggi più di quanto accada normalmente o più di quanto vorremmo, come nel caso di Yoshiko Kuga. Quel che viene fuori, dice Fred Camper, è che «la relazione tra un individuo e la sua cultura deriva in parte dalla maniera in cui viene concepito lo spazio stesso». Gion Bayashi è un film anomalo per Mizoguchi perché si concentra su due donne che cercano di essere padrone della loro vita. A differenza di Oharu in Saikaku ichidai onna e di molte delle derelitte eroine di Mizoguchi, che sono piuttosto delle vittime viste in campo lungo. Ma il montaggio di Mizoguchi produce effetti molto diversi dal tipo di relazione empatica tipico nel cinema occidentale.

Quando la sedicenne Eiko arriva per la prima volta nella casa della geisha Miyoharu, apre la porta (la cui struttura a graticola segna il suo ingresso nel mondo delle geishe) e ascolta Miyoharu che parla con un cliente: Miyoharu: Non sopporto la gente come te. Sei pieno di debiti. Eppure vieni qui a cercare una geisha. Dovresti venire qui soltanto quando hai dei soldi.

Il cliente: Ma io voglio sposarti. Non cerco una geisha.

Miyoharu: Non ho nessuna intenzione di sposarti.

Il cliente: Allora mi hai mentito?

Miyoharu: Le geishe non mentono, parlano d'affari. Lo sai che non diciamo mai di no... Mettiti a lavorare e paga i tuoi debiti. Solo allora ci potremo rivedere.

Ma l'inquadratura successiva – quella di Miyoharu e del cliente - non è ripresa dal punto di vista di Eiko come sarebbe successo in un film americano o europeo. Perché? Perché la scena in realtà offre a Eiko la falsa idea che la vita di una geisha sia la vita di una donna di potere. Eiko vede se stessa e Miyoharu come due donne del dopoguerra, liberate e col diritto costituzionale a valutare e rifiutare i clienti, che accettano il loro denaro, ma non se ne innamorano. Eiko, come Gigi, si appresta a diventare una geisha senza capire come non solo il mondo, ma il suo stesso personaggio siano senza speranza. Una delle sequenze più belle di Mizoguchi è quella in cui Eiko mostra tutto il suo piacere e sbalordimento mentre si veste per il suo primo giorno di lavoro, si aggira per Kyoto e annuisce felice all'ammonimento del parrucchiere: «Le maiko - aspiranti geishe - vengono sempre qui il loro primo giorno. Immagino che tu non abbia dormito tutta la notte per quanto eri felice. Ma da adesso in poi si tratta soltanto di affari. Devi essere sempre il più bella possibile [Eiko fa cenno di si!]. Ma non devi mai innamorarti perché è sbagliato [Eiko fa cenno di si!]». Più tardi dirà in maniera sprezzante: «Legami? Amore? Non ci penso neanche... Gli uomini sono solo uno strumento». Ritorniamo a Miyoharu e al suo cliente: il breve controcampo all'americana che troviamo a metà del loro colloquio è l'unico in tutto il film assieme a quello finale – un modo tipico dei registi espressionisti. Al termine del film Eiko si ribella

Eiko: Tutti mentono. Le geishe di Kioto [sic.], le maiko, sono solo bugie. Se sei brava a venderti, avrai successo. In caso contrario, sei tagliata fuori come me...

Eiko: ...se non posso vivere senza vendere me stessa, allora me ne vado.

Al che Miyoharu si gira verso di lei per rimproverarla e quindi si allontana:

Di nuovo, come all'inizio del film, Eiko guarda ma non vede niente: l'inquadratura successiva non coincide col suo punto di vista come diventa chiaro nell'inquadratura che segue Invece di darci il controcampo che ci saremmo aspettati come contraltare dell'inquadratura 4, Mizoguchi ha semplicemente fatto indietreggiare la camera rispetto all'inquadratura 5, arrivando a comprendere l'intero spazio dei due personaggi. Piuttosto che piazzare la camera tra di loro, mantiene lo stesso angolo di ripresa e non torna al punto di vista di Eiko.

Anche questa sequenza, come quella che apre il film, inizia con la porta che questa volta, però, si chiude su Eiko. E Miyoharu che torna a casa dopo essere stata costretta a far l'amore contro la sua volontà, sembra imprigionata in un set alla Caligari. Appena tornata a casa riceve i rimproveri di Eiko, come sottolineato dall'angolo di ripresa usato da Mizoguchi (Eiko sta in alto, Miyoharu è la sua vittima): La stessa angolazione usata nella sequenza precedente (tra Kanzaki e Miyoharu), quella dell'umiliante prostituzione di Miyoharu.

Miyoharu è stata costretta a prostituirsi per evitare che lei ed Eiko venissero licenziate come geishe e, ancor più, per evitare che Eiko venisse violentata da uno dei capi. È così che Miyoharu viene a trovarsi in una posizione simile a quella della dottoressa Cartwright (Anne Bancroft) in 7 Women di John Ford (uscito dodici anni dopo) che s'incammina per un buio corridoio, andando incontro a un'esperienza simile a quella di Miyoharu, allo scopo di salvare i suoi amici. Ma mentre Ford esalta il coraggio e le paure della Carwtright, l'angolo di ripresa di Mizoguchi enfatizza il ruolo di vittima di Miyoharu (con Kanzaki) e anticipa la stessa angolazione con cui si esprime il disprezzo di Eiko nei suoi confronti nella scena successiva.

In realtà tutte le riprese dall'alto stanno a indicare delle vittime nel cinema di Mizoguchi, un cinema in cui tutti o si inchinano o sovrastano. Così l'angolazione di ripresa di Miyoharu che sta sopra Kanzaki pone quest'ultimo, che apparentemente è il carnefice della donna, in una posizione di vittima ancora più accentuata. E la stessa angolazione di ripresa di Eiko sopra Miyoharu, indica che anche Eiko è una vittima. Nessuno sta in cima. Eiko non può essere salvata. L'essenza del sistema delle geishe, come spiega Miyoharu nella sequenza iniziale, sta nello sfruttamento e nel potere – di quello della geisha sul cliente e di quello del cliente sulla geisha. La prostituzione di Miyoharu è una conferma del sistema stesso. Miyoharu cerca di proteggere Eiko, salvandola dalla prostituzione. Di fatto lavora per Eiko che quindi, così come indica la somiglianza degli angoli di ripresa, viene paragonata a Kanzaki come parte della corruzione del potere.

Ritornando al confronto fra Eiko e Miyoharu, l'inquadratura 6 continua con Eiko che abbandona il suo mondo incantato, capisce di essere stata corrotta dal potere e si rifugia nel fondo dell'inquadratura. Con uno dei suoi passaggi Messico-Canada, Mizoguchi abbraccia lo spazio dei personaggi e ripete l'espansione dello spazio che si verifica tra la 5 e la 6, facendo indietreggiare la camera nell'inquadratura 8. Eiko si è allontanata da Miyoharu e dalla realtà di un mondo crudele che ci costringe ad assumere ruoli che non abbiamo scelto, a diventare noi stessi crudeli, a corrompere la nostra coscienza, al punto che alla fine le nostre stesse individualità non esistono più (come capita a Madame Yuki), non lasciano traccia. La natura della geisha (ma anche della signora) è quella di essere una bambola con la personalità di una bambola: un vuoto. Le donne del dopoguerra di Mizoguchi pensano di poter cambiare la situazione. In Josei no shori (La vittoria delle donne, 1946) una avvocatessa arriva a dichiarare che il formalismo del suo avversario «svuota il suo punto di vista». E sta parlando non dal punto di vista della tradizione, ma da quello di Mizoguchi che ritiene il mondo ingiusto. Ma i cambiamenti si pagano a caro prezzo. I rivoluzionari di Mizoguchi sono sempre figure simili a Cristo, destinate a sacrificare se stesse. «A che serve affrontare il mondo in maniera così orgogliosa?», dice una geisha come Eiko nel precendente Gion no shimai (1936). Nessuno dei 47 samurai è li per rispondere.

Su tutto questo, l'atteggiamento di Miyoharu è di compassione. Una compassione espressa nell'inquadratura 8 attraverso il linguaggio del corpo degli attori (in una maniera che fa venire in mente Tabù): Eiko è l'immagine della sconfitta, Miyoharu è una pietà [in italiano nel testo, ndt] che non è riuscita a salvare il proprio figlio dalla crudeltà della vità. E la compassione di Miyoharu è sottolineata anche dal movimento interno all'inquadratura. Miyoharu che avanza dallo sfondo verso il proscenio – verso di noi – seguendo lo stesso movimento in avanti che c'è fra la 7 e la 8. È per mezzo di questo movimento che la compassione di Miyoharu risponde alla disperazione di Eiko. È l'azione che conta.

È in questo modo che gli spostamenti di camera di Mizoguchi – la libertà dei suoi punti di vista – annullano le costrizioni di uno spazio artificiale. Siamo liberi.

Note
Adventures in Space: The Loyal 47 Ronin, «Chicago Reader», February 1997.

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(traduzione di Gualtiero De Marinis)
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