Diciassette anni - Guo Nian Hui Jia

Il controverso film di Zhang Yuan, vincitore del premio per la regia al festival di Venezia.

DICIASSETTE ANNIGuo Nian Hui Jia

 

Regia: Zhang Yuan. Sceneggiatura: Yu Hua, Ning Dai, Zhu Wen. Fotografia: Zhang Xigui. Scenografia: Zhao Xiaoyu. Musica: Zhao Jiping. Montaggio: Jacopo Quadri, Zhang Yuan. Interpreti: Liu Lin, Li Bingbing, Li Yeping, Liang Song, Li Yun. Produzione: Zhang Youa per Keetman Ltd, Fabrica, Studi Cinematografici Xi'an, RAI. Distribuzione: Istituto Luce. Origine: Italia/Cina, 1999. Durata: 90 minuti.

Nasce da una storia vera e dunque dalla vita Diciassette anni, il primo dei sette film di Zhang Yuan a vedere il buio delle sale in Cina, dopo essere arrivato alla Mostra del Cinema di Venezia 1999 senza visto di censura e sotto bandiera italiana. Ma se la realtà colta all'improvviso e "pedinata" come voleva Zavattini (sempre un maestro per i rappresentanti di quelle cinematografie ancora capaci di incidere sulla realtà sociale) resta il punto di partenza per questo asciutto e dolente melodramma umano, da essa il regista si allontana con l'universalità dell'astrazione. E così, a cominciare da questa dialettica fra realismo e apologo, il film, diviso in due blocchi narrativi e stilistici ben distinti, si sviluppa all'insegna del doppio: due sono le sorelle, due sono i padri della protagonista, due sono i personaggi femminili, una detenuta e una secondina (ma ambedue recluse e senza un posto dove andare per il Capodanno), alla ricerca della famiglia di Tao Lan. E a dispetto del titolo che si riferisce agli anni trascorsi dalla giovane omicida in prigione, poco sappiamo del "durante": quello che conta sono il prima e il dopo ricongiunti attraverso personaggi-cerniera che si muovono in una zona liminare - né dentro né fuori - e che più di altri incarnano le contraddizioni della società cinese che a Mao ha sostituito il dio denaro. Quella di Zhang Yuan è insomma una Cina divisa in due, così com'è strappato e poi ricomposto il volto delle due adolescenti sulla locandina del film. In questa ricerca del tempo perduto e di una giovinezza negata, il regista sembra mantenersi in disparte, astenendosi dal pilotare le emozioni e lasciando che siano atmosfere e personaggi a condurre il gioco. La fragilità e la debolezza della protagonista diventano così le lenti più adatte per mettere a fuoco le contraddizioni di un paese che muta. Ma di questo trentesettenne cineasta della sesta generazione (quella emersa dopo gli avvenimenti di piazza Tian'anmen) è facile cogliere lo sguardo lucido e tagliente su una realtà complessa come la Cina contemporanea, che punta tutto sul capitalismo. Ed ecco allora i videogame nei bar, gli ex operai che diventano tassisti, i vecchi mobili di casa risistemati in funzione dei nuovi elettrodomestici, interi quartieri demoliti per essere ricostruiti, macerie di un presente che rimandano a drammatiche fratture dei rapporti privati. Il mondo oltre il muro della prigione è pieno di indizi che parlano di una vita che Tao Lan non ha vissuto, di un'esistenza ridotta a un lungo e silenzioso fuori campo. Non è facile integrarsi, soprattutto quando il carcere costringe a uno stato mentale infantile e all'incapacità di manifestare una propria personalità e una propria volontà. Quando la cosiddetta rieducazione non è altro che la ripetizione quotidiana degli stessi gesti e degli stessi comportamenti, non ci sono altri risultati se non l'impossibilità di comprendere anche i propri sentimenti. Così, dopo diciassette anni di smarrimento di sé, Tao Lan non fa che passare dalla sua cella a una prigione più grande, dove l'esistenza resta in bilico fra reclusione ed esclusione. La giovane protagonista resta un'estranea a se stessa, alla propria famiglia, al mondo che la circonda, talmente priva di slanci vitali da attribuirsi anche una colpa non commessa. Troppe cose sono cambiate e il nucleo familiare non può ricostruirsi senza aprire vecchie ferite mai rimarginate fino in fondo. Così, fra il braccio di ferro di sguardi che annaspano nel silenzio di tempi sospesi e dilatati e i vuoti e impacciati rituali di accoglienza in cui si rifugia la cultura dell'onore, si consuma il dramma di un ritorno impossibile. Sono tutti storditi, frastornati: nessuno riesce a dare un senso a quello che è accaduto. È in fondo proprio questo pessimismo, che si traduce nell'incapacità di credere nei cambiamenti di una nazione, a suscitare l'ostilità del governo cinese, restio a concedere al film il visto di censura (questo, una volta arrivato, ha richiesto il taglio di tre scene, particolarmente sgradite a un paese, dove sono le commedie a riscuotere il maggior successo di pubblico).

Non è la prima volta che Zhang Yuan usa il nucleo familiare o gli "outsider" per parlare della realtà contemporanea. In Mother (1990) raccontava la storia di una ragazza madre, che allevava un figlio minorato mentale nella Pechino dei nostri giorni. Ne I bastardi di Pechino (1992), primo film indipendente nella storia del cinema della Repubblica Popolare Cinese, offriva il ritratto di una gioventù infelice e in preda all'angoscia esistenziale. In Sons (1995) ha esposto le vicende di una famiglia distrutta dall'alcolismo e dalla follia del padre. In East Palace, West Palace (1996) ha messo in scena un dramma psicologico, incentrato sull'interrogatorio di un omosessuale da parte di un poliziotto di Pechino. Tuttavia se questi film erano caratterizzati da uno sguardo documentaristico ai limiti dell'entomologia, è proprio in Diciassette anni - una volta dentro le mura domestiche, dove i sentimenti umani sembrano riaccendersi poco prima di precipitare nel baratro della disperazione - che noi ritroviamo una partecipazione insolita per questo "enfant terrible" di una generazione di cineasti, decisi a non seppellire nel nuovo che avanza il dolore di utopie spezzate e di profonde, intime ferite.

Alessandra De Luca