La Cina contemporanea raccontata attraverso il rapporto tra un poliziotto e una prostituta, aspirante suicida.

HAI XIANFrutti di mare di Zhu Wen

 

In Hai xian non occorre arrivare alla sequenza in cui la prostituta Xiao Mei uccide, più o meno accidentalmente, il poliziotto-pigmalione Deng Jianguo, per accorgersi che si tratta di un grande film, per di più opera prima. Era già chiaro dal principio che il progetto di redenzione concepito in maniera alquanto improvvisata, disarmata e velleitaria dal malcapitato tutore dell'ordine dovesse rivelarsi fallimentare. Tutto il racconto, costruito secondo criteri all'apparenza casuali e seguendo una progressione alquanto orizzontale ed episodica, lasciava intuire che il suicidio per la prostituta esprimesse una desolazione generale, complessa, riflessa in un mondo che l'autore esplora contestualmente. La forza del film scritto, diretto e montato da Dai Zhu Wen (già sceneggiatore di Diciassette anni di Zhang Yuan) sta nella capacità di accumulare indizi, non di organizzarli gerarchicamente, neppure in una prospettiva strettamente narrativa.

Il nucleo centrale della storia c'è, e sembra ruotare attorno ai due personaggi il cui legame non si basa affatto su un bisogno primario reciproco. La prostituta non ha chiesto aiuto a nessuno, meno che mai ad un poliziotto ottimista e in vena di buone azioni salvifiche. Lei, silenziosamente, cerca di compiere un gesto sintomatico che non contiene alcun messaggio polemico, non prospetta alcuna ribellione e non costituisce un invito cifrato all'altrui solidarietà. Il poliziotto, che evidentemente è troppo giovane, fiducioso e inesperto, si autoinveste di una missione non richiesta, inutile. E, come si vedrà, controproducente e paradossale. La parabola del film, per citare un paio di esempi utili ad orientarsi, ha molte più cose in comune con L'argent di Robert Bresson che con il Totò e Carolina di Mario Monicelli. La persona traviata e condannata ad un tragico destino riassume nella sua assoluta linearità la visione del mondo dell'autore. E ogni tentativo estemporaneo di alterare un simile percorso non può che peggiorare le cose e produrre una ulteriore frattura.

A prima vista, Hai xian assomiglia ad un remake hongkonghese di Totò e Carolina, con le stesse prerogative neorealiste di rappresentazione generale mimetizzate dentro la vicenda-pretesto del tentato e mancato suicidio. Tuttavia qui la cornice semidocumentaristica è davvero più importante e caratterizzante del quadro. Ciò che succede attorno ai protagonisti chiarisce la scelta di Xiao Mei di togliersi la vita e confuta concettualmente l'impegno profuso da Deng Jianguo per convincerla a rinunciarvi.

Le ragioni proclamate dall'uomo, tra una consumazione e l'altra di frutti di mare, sono banali e retoriche, deboli nella sostanza come lo è la sua fiducia nella vita e il suo pragmatico e ruvido tentativo di restituirle la necessaria autostima. Sopravvivendo al suicidio, la prostituta non può che ritornare alla sua attività e ad una condizione dalla quale sente di non potersi sottrarre. E questo principio negativo, esemplificato nella sua indifferente reticenza, ha senso soprattutto se lo si considera alla luce di quel diffuso disagio, di quella cappa di solitudine e di degrado, di anonimato e di indigenza, che filtra automaticamente dalla realtà circostante, da Pechino a Beidahe, poi a Shanhaiguan e infine daccapo a Pechino, siglando così una progressione circolare insignificante, vuota e implacabile.

Il film di Dai Zhu Wen ostenta una mancanza di coesione proprio perché il suo itinerario è in fondo ironico e fuorviante, se osservato nella prospettiva romantica e idealista del protagonista maschile, che infatti entra ed esce dalla vita dell'aspirante suicida senza lasciare traccia di sé, anzi scacciato dalla persona stessa che si era intestardito con eccessiva petulanza a voler salvare. Xiao Mei incarna non solo la misura tragica del vivere quotidiano, iscritto in un destino collettivo e omogeneo, ma l'asse portante del viaggio, che di un poliziotto illuso come Deng Jianguo, il quale esemplifica con la sua azione coercitiva una semplice e inutile parentesi, può benissimo fare a meno. E, sbarazzandosene, ne fa a meno anche in termini di economia narrativa. La morte di Deng Jian-guo, nella sua pregnanza demenziale e inquietante, corona tutto un meccanismo la cui monotonia si afferma strada facendo come un tratto saliente, nella forma come nel contenuto di cui l'omicidio si incarica di esplorarne le estreme conseguenze.

Ma il film non si chiude con questa morte assurda e persino beffarda, essendo stato il poliziotto in un sussulto di virile dignità e di impavido paternalismo ad aver armato la mano della prostituta invitandola a sparare. In una chiave evidentemente cinica riesce persino a valorizzarla. Non a caso l'incidente luttuoso sortisce l'effetto positivo voluto. La prostituta rinuncia, momentaneamente, al proposito suicida e beneficia dei vantaggi che la vita le offre: torna al punto di partenza, a fare cioè la prostituta a Pechino. Lo shock causato dalla morte del suo improbabile benefattore è servito almeno a reprimere o a rimuovere l'istinto autodistruttivo, sebbene non si sappia per quanto tempo. Una morte ne ha davvero scongiurata un'altra, equivalendola e sostituendola. L'atto gratuito ha condotto l'uomo a una fine gratuita,a un sacrificio involontario, obbedendo anche ad un criterio selettivo e, pessimisticamente, darwiniano. A restare in vita, pur in modo precario e ingrato, è il soggetto più forte, la prostituta, in quanto consapevole dello stato ignobile dei rapporti umani, profondamente demotivata e priva totalmente di volontà di riscatto. Mentre non poteva che soccombere il più stupido, il maschio, il cavaliere convinto della nobile missione, ma, al dunque, disposto a cedere l'arma, ossia l'unico strumento di difesa di cui per ragioni istituzionali era dotato, alla sua diretta e realistica antagonista. L'alienato insomma era lui. Non poteva avere scampo. E non era il Totò dell'Italia volenterosa e grama dei lontani anni '50.

Anton Giulio Mancino
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