Yanagimachi Mitsuo: il crimine della sopravvivenza

Che differenza c'è tra le aree rurali del Giappone e dell'Asia, solcate da profonde ferite ancestrali, e le tecnocrati Tōkyō e Hong Kong, patinate e abilmente concepite a immagine di videogame? Nessuna. Nel cinema di Yanagimachi, si tratta comunque di ricettacoli di solitudini...

 

YANAGIMACHI MITSUO: IL CRIMINE DELLA SOPRAVVIVENZA

 

Che differenza c'è tra le aree rurali del Giappone e dell'Asia, solcate da profonde ferite ancestrali, e le tecnocrati Tōkyō e Hong Kong, patinate e abilmente concepite a immagine di videogame? Nessuna. Nel cinema di Yanagimachi, si tratta comunque di ricettacoli di solitudini, terra che respira grazie a polmoni antichi e divini la stessa aria da millenni, che ha dato i natali a gente di ogni specie e mai si stanca di accoglierne di nuova. Quale differenza, allora, tra chi ha il privilegio di restare nel luogo in cui ha avuto origine la propria specie e chi è invece costretto a migrare distante? Nessuna, ancora una volta. La tradizione e i valori del passato vivono dentro come impronta genetica, ovunque il personaggio si fermi nel suo pellegrinaggio, egli stesso divinità, si fonda un tempio e altre voci vi si raccolgono intorno. Perché Yanagimachi nel Duemila? Perché forse nessuno in Giappone, meglio di lui, ha dato in questi ultimi anni migliore dignità all'uomo, perché per lui "animale" non è necessariamente sinonimo di "bestiale", perché sostiene che gli istinti non contaminano la purezza quanto accade con la ragione, e soprattutto perché per parlare di tutto questo fa del cinema un agone linguistico, un incontro di segni che stridono tra loro ma convivono nell'armonia della distruzione degli antichi miti.

Incontrare il suo cinema non lascia mai indifferenti: ci fagocita quanto un reportage su crimini quotidiani. Non ci conduce per mano a comprendernere i motivi, ma ci lascia in preda alla nostra soggettività, non ci suggerisce in quale chiave giudicare i suoi personaggi, ce ne rende complici e ci lascia allo stesso tempo riluttanti a condividere le loro esperienze. Non vorremmmo soffrire delle stesse solitudini, ma come non sentirsi vittime di un analogo dolore, come non amare la dolce paura che i suoi uomini provano verso il progresso? Come non disperarsi di non essere eterni nell'eterna Natura, l'unica dimensione che mai si distrugge e sempre vince gli sforzi di mutamento umani? Nel segno già collaudato dall'ammirato maestro Mizoguchi Kenji, Yanagimachi seleziona quasi sempre i suoi campi vagando a distanza dalle situazioni, e affondando poi con violenza le mani nelle realtà più degradate e oscure in cui si agisce per sopravvivere. A differenza del maestro, tuttavia, il suo è un mondo virile e disincantato verso il sentimento e l'arte, i suoi uomini disillusi sull'idea che l'erotismo possa offrire delle felicità, gli affreschi sugli ambienti non lirici ma spietati nei contrasti tra luci e ombre, con spigolosità geometriche che ricalcano gli stati d'animo più violenti.

In Giappone Yanagimachi è stato il primo autore realmente indipendente in un claustrofobico sistema di major. Non solo ha prodotto i propri film fondando la piccola casa Gunro, ma ne ha anche curato la distribuzione fino al dettaglio, scovando per la proiezione piccoli luoghi di culto di Tōkyō che inaspettatamente straripavano poi di pubblico, attraendo sempre più l'interesse di alcune grosse major sul genio di questo giovane e sconosciuto autore. A oggi i titoli della sua filmografia sono solo sette, ma quasi tutti si collocano a diritto nella rosa, non tanto nutrita, in realtà, di capolavori dell'ultimo trentennio nella cinematografia nipponica. Dal suo primo documentario nel 1976, God Speed You! Black Emperor (tit. or. in.), nel ritratto di giovani motociclisti emarginati per nascita e perché inebetiti dal limbo dell'adolescenza, con la sua macchina da presa sincopata e agile, posta sempre a uguale distanza dai corpi, Yanagimachi disegna il crimine come predestinazione, innocente risultato dell'incomunicabilità, dell'incomprensione, del bisogno di crescere. Un documentario che si rivela anche un preludio alle devianze dei suoi personaggi futuri, una sorta di affresco in cui l'area urbana e i giovanissimi personaggi giustificano quanto le macro storie dei film successivi scuoteranno in noi.

La mappa dei diciannove anni, nel 1979, è il primo dei suoi momenti di intensa riflessione sul tema del viaggio - sempre anche interiore - che è per l'autore momento essenziale dell'esistenza. Il giovane protagonista giunto dalla campagna alla città rinasce tra gente per cui comunicare è del tutto superfluo: in crisi quasi afasica, non gli resta che dare fisicamente corpo ai fantasmi di chi gli vive intorno, organizzando un'enorme mappa del quartiere in cui ogni abitante viene collocato per responsabilità umane, sociali, in una sempre più ampia arena di colpevoli, ciascuno macchiato da piccole croci e condannato a subire la missione sterminatrice che il giovane mette in atto con un terrorismo telefonico. Come accade con gli interpreti selezionati per le opere successive, il giovane protagonista di questo film viene spogliato di ogni spontaneità mimica: agisce con movimenti iconografici, diventa egli stesso un segno di scrittura di un ampio disegno come quelli che la sua mano nervosamente descrive nella mappa.

Addio, amata terra natale (1982) rappresenta il percorso inverso, il ritorno dalla metropoli alla campagna. L'uomo immerso nella sua comunità viene qui spogliato per gradi di tutti i requisiti del vivere sociale: perde prima i figli, poi la forza di volontà con la droga, quindi il lavoro, infine la ragione e, dopo un omicidio, la libertà. Solo a questo punto sembra finalmente felice, reso animale e come tale parafrasato da alcuni maiali nella scena finale. A testimoniare l'incapacità degli sforzi umani nel gestire la propria esistenza, Yanagimachi rende la Natura, quella apocalittica, devastante, rigeneratrice, la vera protagonista e artefice di questa tragedia. Coadiuvato dalla bellissima fotografia di Tamura Masaki, l'impianto naturale sembra pulsare di un'energia propria, abilmente catturata da un occhio vigile e indiscreto che riesce a cogliere il movimento delle fronde come respiro insinuante e gli uomini dispersi in campi lunghi tra impianti di naturale architettura, soprattutto i monti, dominanti e pieni di fascino.

Un lungo amplesso tra l'uomo e la Natura è una delle scene più indimenticabili di La festa dei fuochi (1985), il capolavoro di questo regista. Per srotolare l'intricata matassa di segni disseminati lungo questo film e comprendere l'ascesi mistica del suo protagonista verso il nuovo ruolo di divinità si richiede, è vero, una certa familiarità con il panteismo shintoista e la sua rappresentabilità, ma il film non può che incantare qualsiasi spettatore, per quanto sprovveduto, per la sua divina proposizione criminale. Un uomo stermina la sua famiglia senza motivo apparente: è solo un trafiletto di cronaca in un quotidiano, abbastanza per scatenare tanta mitica violenza nell'immaginario del regista e del suo sceneggiatore, lo scrittore Nakagami Kenji. Nessun disegno psicologico, solo il nudo decorso della "patologia" di quest'uomo ripreso da una macchina da presa che gli si avvicina come personaggio ombra (nell'intenzione del suo operatore Tamura) e svela le pieghe del suo comportameno, senza giudizi morali.

Del 1990 è l'unico film, China Shadow, che Yanagimachi dichiara di non amare - e non si può che esserne d'accordo - tra tutti quelli realizzati fino a oggi. Si tratta di un progetto ambizioso coprodotto dalla New Line, interpretato da alcune star particolarmente popolari in Asia e nel mondo, tra cui John Lone. Il tema non dovrebbe tradire il disegno generale del suo autore, rappresentando le migrazioni tra Cina e Hong Kong, il viaggio cioè fisico ma anche esistenziale di alcuni uomini per i quali il crimine è solo un metodo per sopravvivere. Purtroppo la versione finale viene eccessivamente edulcorata da alcune scelte produttive, il soggetto iniziale un po' per volta svuotato della sua tensione, l'effetto generale finalizzato al successo di cassetta piuttosto che a rispondere alle aspettative dei cultori del suo cinema.

Due anni più tardi, nel 1992, Yanagimachi ritorna al sistema produttivo che più gli è congeniale girando con la sua Gunro il piccolo e riuscito Sull'amore, Tōkyō, un soffuso canto d'amore descritto tra le righe di nervose tensioni sociali quali il problema degli immigrati asiatici in Giappone, l'arrivismo economico, l'impotenza maschile, lo scontro tra culture e la solita sopraffazione tra uomini. Per la prima volta nei film di questo autore, un incanto romantico lascia un segno di speranza a due dei tre protagonisti, la giovane ragazza cinese e l'uomo giapponese di mezza età che nel finale scompaiono per darsi, si suppone, un doppio-suicidio liberatore. Per il resto, come sempre nessuna simpatia per una o l'altra morale ci deriva dal regista, mai didattico ma voyeuristicamente in attesa che le situazioni seguano il loro naturale corso. Asfissiante è l'esistenza quanto gli ambienti in cui tutti i personaggi vengono ritratti, solo quattro scorci - una sala di pachinko, un dormitorio, un tratto di autostrada e un mattatoio -, angoli che brulicano di immagini ma in cui nessuno riesce comunque a comunicare.

L'ultimo film di Yanagimachi è, come il primo, un documentario. I Pao janghu erranti (1995) racconta la sua storia in immagini apparentemente rubate nel corso di una rappresentazione itinerante di una piccola comunità di venditori di medicinali a Taiwan. Come nelle violente diapositive sui giovani motociclisti del primo film, anche qui la macchina da presa, estremamente mobile e abilmente profana nelle mani di Tamura Masaki, indaga sull'emarginazione sociale di questa specie di etnia in via di estinzione, con cui Yanagimachi parafrasa i tanti popoli che nel mondo saranno presto sterminati in favore del progresso. Nel corso del loro viaggio, disseminando gli ultimi grani di una cultura che solo un secolo fa sembrava essere il principio del mondo, basata su principi etico-religiosi antichi e in quanto tale capace di coalizzare un popolo intero contro ogni avversità, i membri di questa famiglia raccontano tra danze e vendite di prodotti quanto sia necessario tornare al passato, senza mai dimenticare per non lasciarsi esaurire nel progresso. Cinque anni di inattività segnano ora la carriera di Yanagimachi. Autore in costante ricerca, potrà darci ancora tanto, mettere a nudo molte altre pulsioni, stupirci sempre più della nostra ingenua incapacità di resistere al dolore. Per il Duemila ci aspettiamo il suo prossimo sogno.

Maria Roberta Novielli