Il caos indistinguibile

Un viaggio nel cinema giapponese degli ultimi dieci/venti anni, con gli occhi puntati su un genere in particolare, il noir, giovanissimo eppure saldamente avvinto al passato in cui le sue radici affondano.

IL CAOS INDISTINGUIBILE

 

(...) è davvero arduo cercare di stilare un rendiconto in forma di panoramica informativo-critica (rigorosamente in questo ordine) degli ultimi dieci/vent'anni – altrimenti non basterebbe un volume – di cinema giapponese. Ho voluto dunque restringere (...) il campo e affrontare un genere, il nero, (...) sconosciuto, perché giovanissimo (anche se le sue radici, come vedremo, affondano nel passato) e quindi non ancora catalogato, e perché terribilmente faticoso da afferrare, dato che risulta praticamente invisibile fuori patria. Nero, si badi, sfilacciato, che può includere il noir, il poliziesco, un certo horror astratto, il mystery: generi che meritano di essere osservati con attenzione, perché contengono una visione del mondo ben determinata, e tracciano delle coordinate di stile apprezzabili e, al tirar delle somme, importanti.

Accusare l'imperialismo delle tre case di produzione di cinema maggiori in Giappone – Tōhō, Shōchiku e Tōei – di aver tarpato le ali allo spirito di iniziativa, voglia di nuovo e inventiva ribollente di molti talenti, è strumento comune nelle parole dei diretti interessati. Che la politica di promozione e sponsorizzazione delle "tre parche" sia stata decisamente controproducente su un piano di rinnovamento, con l'imposizione di tematiche, la negazione di qualsiasi idea tangenziale, la reiterazione cocciuta di marchi cinematografici, i meccanismi dell'advance tickets sales e block-booking, non è da sottovalutare. Eppure mi sembra che la reiterazione di certi argomenti sia stata, in alcuni casi, proficua. Di primo acchito, si può parlare di nomi. Nomi che hanno fatto, dentro quelle case, un lavoro di perfezionamento autoriale-tematico che impressiona fino all'ultimo, perché non si adagia in un catalogo di coordinate e sensi centenari, ripetendo in continuazione, magari anche più che dignitosamente, le stesse cose, ma ci lavora sopra, restandovi attaccato ma infondendole, in un qualche modo, del sentore dei tempi. Basti vedere il magnifico Hideo Gosha, di cui bisognerebbe vedere tutto: uno che nel corso degli anni Sessanta-Settanta ha oscurato il jidaigeki con un senso della tragedia e del pessimismo atroce, e che alla fine degli anni Settanta, gira un film nero, Hunter in the Dark (1979), che riprende molto, se non tutto, di quello che aveva già messo in scena e detto, ma con un respiro e una profondità che riflettono con ansia e pessimismo il passare del tempo e delle età, che, tragicamente, rimangono sempre uguali a se stessi.

Ma non è soltanto una questione di registi. La storia del cinema giapponese è forse quella che ha visto più serie cinematografiche dalle puntate superiori a cinque (007 permettendo) di tutto il resto del globo: capitoli successivi in cui un personaggio-eroe tornava in nuove avventure, che di nuovo, a dir la verità, avevano soltanto il nome o il sesso del cattivo. L'impegno di registi e sceneggiatori riguardava tutt'al più qualche approfondimento sul passato del protagonista, svelato a poco a poco, oppure il caricamento maggiore di violenza, sangue e sesso (al passo con le epoche, ovviamente), o, al massimo, l'ingarbugliamento della storia. Per il resto, tutto tornava. E proprio qui, nella loro sicurezza di riapparizione e perseveranza pubblica, stava il loro successo. Come di un oggetto di cui non si poteva fare a meno. Le case di produzione avevano opzionato il marchio, e ci marciavano sopra come se non ci fosse esaurimento. Ma il piacere di veder tornare il già visto, anche in maniera identica, era enorme, e lo è tuttora per chi riesce ad impossessarsene. Due tra gli esempi più eclatanti (le serie con tre-quattro capitoli non si contano), a parte ovviamente gli scontri di Godzilla o Gamera, sono il ciclo di Baby Cart, dove Itto Ogami, boia del governo dello shōgun accusato di tradimento, è costretto a girovagare all'infinito per terre desolate col piccolo figlio Daigorō dentro una carrozzella armata, scontrandosi con malvagi sanguinari, e di Kyōshiro Nemuri, dove Kyōshiro è un ronin egoista e spudorato nato da un prete missionario europeo e una cortigiana giapponese, destinato ad errare solitario e a imbattersi in un'umanità disperata e avida. Episodi che sembrano ripetersi all'infinito, dove la violenza e il pessimismo generale regnano sovrani, e dove registi e sceneggiatori, al di là delle invenzioni contingenti e del ritmo infuso alle vicende, contano poco. Dunque, incolpare le grosse case di produzione della banalità delle storie, e delle gabbie in cui ponevano i registi, vale dal punto di vista più eminentemente autoriale-libertario, che da quello puramente dilettevole. La soddisfazione di veder ritornare un marchio di fabbrica per la ventesima volta poteva essere inversamente proporzionale all'originalità progressiva, ma non diminuisce l'importanza che per il pubblico giapponese possedeva la serialità, che non è sinonimo di bellezza, ma che comunque stupisce, nella maggior parte dei casi, per la forza dirompente e costante. Forza che, in un certo senso, coloro che hanno intrapreso la strada del cinema indipendente negli ultimi vent'anni hanno mantenuto come spinta centrifuga, mutando i temi e i metodi, ma infondendo i propri personaggi, e se stessi, del medesimo spirito rivoluzionario. Tutto nero.

L'isterismo collettivo
L'urlo, in molto cinema noir giapponese, è una costante che risulta afferrabile anche allo spettatore impreparato. Basterebbe un film come Gonin di Takashi Ishii: uno degli aspetti maggiormente rilevabili ad una fruizione immediata è il carattere violentemente esagitato e isterico dei personaggi. Sembra che il loro urlare non finisca mai, assordando persino i momenti di pausa. Quando tacciono, interviene magari un altro elemento della scena a coprire il silenzio e la calma: la pioggia su tutti, prima ancora che gli spari. Colpisce però quanto i protagonisti modulino il tono delle conversazioni, anche dei dialoghi "intimi", su livelli decisamente alti. Ma non è soltanto una questione di decibel: a volte, si tratta più della caratura della parola o della frase, che del volume con cui sono pronunciate. Nel film preso come esempio, oltre alle sequenze dichiaratamente nevrotiche, come quella nella discoteca, persino le battute tra amanti risaltano con un grado sensitivo, oltre che uditivo, elevatissimo, non soltanto tra i due killer, dove è più esplicito, ma pure tra Bandai, il proprietario del night, e il ragazzo innamorato di lui: la sequenza del corteggiamento indiretto, in casa, prima che il giovane si allontani spogliandosi verso la doccia, possiede una notevole dose di elettricità trattenuta; e quella tragica nella toilette della stazione carica l'atmosfera di passione disperata rosso fuoco, ma in qualche modo imprigionata. Gli esempi potrebbero continuare numerosi: gli eccessi sguaiati, anche sessuali, dell'accesissimo Chinese Mafia in Shinjuku di Takashi Miike, i grovigli verbali e contingenziali allucinati e incredibili di Unlucky Monkey di Sabu, molte situazioni confusamente elementari e "sciocche" che si accavallano nella stazione di polizia in Bayside Shakedown di Katsuyuki Motohiro. Le ragioni di tutto questo non sono superficiali o eminentemente profilmiche. L'uso della parola isterica, turbolenta e interminabile ha da sempre costruito una specie di "crogiuolo dell'indeterminatezza", fin da Akira Kurosawa. Mi sembra che ogni suo film fondi, con gradi differenti (e spesso con metodi opposti, come vedremo), parte della sua importanza teorica sulle modalità con cui vengono costruiti i dialoghi, impostate le voci degli attori, fatte girare le parole nell'aria. Si veda, per esempio, Bassifondi (Donzoko, 1957), due ore di parole racchiuse tra quattro mura o poco più: personaggi che sparano battute l'uno contro l'altro senza un attimo di sosta. E, per la quasi totalità, si tratta di grida enfatiche o comunque di termini dai toni alti, che girano vorticosamente creando un che di impreciso, inafferrabile. Lo stesso è da dirsi per i suoi adventure, come La sfida del samurai (Yojimbo, 1961) e Sanjuro (Tsubaki Sanjuro, 1962), dove i personaggi sembrano persino pensare a voce altissima. Rashomon (1950), poi, è forse la quintessenza di tale impostazione uditiva. Poi c'è Nagisa Oshima. I suoi film giovanilistici come Racconto crudele della giovinezza (Seishun zankoku monogatari, 1960) e Il cimitero del sole (Taiyō no hakaba, 1960) fanno delle parole strumenti per ferite mortali, spudorate armi che non guardano in faccia nessuno, urlando e ammazzando. In Notte e nebbia del Giappone (Nihon no Yoru to Kiri, 1960), la parola come testimonianza, confessione o ricordo sembra che cerchi faticosamente di portare alla verità degli eventi, ma invece non serve a niente che non sia il caos e il totale offuscamento della realtà delle cose. Anche qui molti dei personaggi convocati alla cerimonia che fa da nocciolo alla storia caricano le frasi con tonalità nevrotiche e arrabbiate, coscienti, si direbbe, della loro inutilità e superfluità. Non si può dimenticare Seijun Suzuki. Sembra che le parole, nei suoi film, seguano l'imprescindibile potenza del linguaggio grammaticale tecnico: tutto votato alla terribile constatazione che non esiste nulla di preciso o prefissato. La farfalla sul mirino (Koroshi no rakuin, 1967), Tokyo Drifter (Tokyo Nagaremono, 1965), Youth of the beast (Yaju no seishun, 1963) e Fighting Elegy (Kenka erejii, 1966, a cui Fight Club di David Fincher e il romanzo di Chuck Palahniuk da cui è tratto devono molto), soltanto per citarne alcuni, sfaldano le sicurezze dei personaggi e dello spettatore con dialoghi e parole che non possono che correre dietro, ansanti, alla frammentazione della messinscena, secondo un nervosismo che, paradossalmente, sa che non c'è niente da sapere, oltre alla precarietà della vita.

Il "crogiuolo dell'indeterminatezza" è l'enorme discarica in cui confluiscono le parole di questi personaggi e film: lì rimangono, marciscono, vengono sotterate dalle altre che sono arrivate con gli anni, fino ai giorni nostri. È un bacino senza confini in cui tutto il nero della tragedia umana ha trovato il suo posto. Ed è fonte inesauribile d'ispirazione per i registi degli ultimi tempi che vogliano raccontare anch'essi la neritudine dell'esistenza. Imprescindibile sacca di orrori, è da lì che deriva tutto il nero che vediamo oggi. O, in termini di genere, tutto il noir: perché Bassifondi è, a veder bene, un noir della parola, come Rashomon e Notte e nebbia del Giappone, che sono anche thriller a incastri; Racconto crudele della giovinezza e Il cimitero del sole, vicende di gangsters come, esplicitamente, i film di Suzuki. Si vorrebbe che l'urlo diventasse la maniera per sopravvivere contro l'obnubilamento dell'omologazione. Si vorrebbe scavalcare gli altri con toni sempre più violenti, tentando di evitare la stabilizzazione del proprio io. Ma il relazionarsi a voce alta-altissima, invece che far capire meglio, fa fuggire tutto nell'oscurità del mucchio o, addirittura, fa tornare al punto di partenza, perché tanto non c'è alcun traguardo. Come dimostrano le azioni sconclusionate e imprevedibili, tirate da un caso nevrotico che le squassa senza portarle da nessuna parte, messe in scena da Sabu (anche nel mediocre Dangan Runner e, con procedimento differente, nel bel Postman Blues), Miike e Takashi Ishii.

Il silenzio sospeso
Nel "crogiuolo dell'indeterminatezza" si arriva anche con il procedimento opposto. Mi sembra si debba partire ancora da Akira Kurosawa. Il capolavoro Anatomia di un rapimento (Tengoku to Jigoku, 1963) pone le basi per uno sviluppo ad accumulo di sensi e suoni che porterà negli anni ad un paradossale meccanismo di sottrazione. Tutta la prima ora è concentrata tra quattro mura, dove si discute sul cosa e come fare in merito al sequestro, motore scatenante della vicenda, e sul peso che le decisioni avrebbero. Kurosawa fa aerare il locale di parole su parole, ma asciugandole dell'impeto e dell'isterismo profusi negli altri film. I personaggi cercano soluzioni, ma il nero della stanza, piena di ombre, e delle loro anime (non perché cattive, ma perché predestinate alla disperazione della tragedia) schiaccia persino l'apertura all'esterno e la conclusione positiva delle ricerche. In questo modo, l'inafferrabilità del senso del vivere non è meno esplicita di quanto appariva nel mare in tempesta dei toni vocali di Bassifondi: in Anatomia... la stesura dei dialoghi e delle parole possiede colori tenaci ma dimessi, quasi rassegnati. La pacatezza è certo sinonimo di pensiero ragionevole, ma non riesce a evitare l'abisso che inghiotte e confonde la loro presunta capacità di superare ogni ostacolo, esplicitato pure dal divario geografico tra l'alto, dove vivono i ricchi, e il basso, dove abitano i poveri e dove i superiori sono costretti a sconfinare, annusando direttamente l'imperturbabilità della miseria. Un altro splendido esempio di svelamento progressivo con parole lente e sinuose, che porta alla distruzione di certezze ritenute inaffondabili, è Harakiri (Seppuku, 1962) di Masaki Kobayashi, dove per più di due ore si affastellano parole che minano alla base i pensieri e le mura di un organismo potente e rigido: qui lo srotolare severo ma tranquillo della voce che racconta somma tasselli che vengono a comporre un quadro ben definito, eppure alla fine non c'è più nulla di determinato, perché tutto è stato eroso.

La parola, dunque, è leggera e testarda arma per scavare e ribaltare il mondo. Parola silenziosa, vorrei dire, visto che attua la propria opera mediante un meccanismo di sommessa disintegrazione. Di recente, questa azione si è così prosciugata che la parola è quasi scomparsa, lasciando il posto al silenzio, che produce un effetto di indeterminatezza ancor più sconvolgente. Sembra non ci sia più bisogno di alcuna spiegazione o indagine: i colpevoli, in molto nero giapponese degli ultimi tempi, saltano fuori quando pare a loro, senza che prima le parole e i termini li abbiano pedinati; l'aria e l'atmosfera sono fissate, assorbono la logica e annullano il tono sonoro del linguaggio. I personaggi – e lo spettatore – fluttuano in un mondo dove quello che c'è da capire non può essere capito, quello che c'è da scoprire non può essere scoperto, perché ogni cosa è nero-trasparente-invisibile: ristagna sugli oggetti, sulle facce, sui corpi e sulle superfici, si accumula alla rinfusa, striscia ovunque ed è indecifrabile e inafferrabile. Si può soltanto constatare la propria inadeguatezza. Angel Dust di Sōgo Ishii anticipa quel flusso di parole deliranti che circola nella seconda parte – e che, a guardar bene, non portano da nessuna parte che non sia l'imprecisione di qualunque delucidazione – con un primo tempo in cui i suoni, leggerissimi, punteggiano come aghi i luoghi della città e della mente: tintinnii, fruscii, aliti sospendono il tempo e la narrazione, in un'immobilità che fa paura per le profondità che apre. Il capolavoro Cure di Kiyoshi Kurosawa si spinge ancora oltre: nega ogni sviluppo razionale, cerca di seguire un discorso ma arriva alla terribile conclusione che non è possibile "tracciare un tracciato", perché l'enormità dell'indeterminatezza guasta alla radice ogni sforzo; e non si può far altro, allora, che abbandonarsi a essa, innestando una spirale di sangue e disperazione che non ha fine, perché non può averla. Meccanismi e sensi messi in atto anche da Ring e Ring 2 di Hideo Nakata, e da Hypnosis di Masayuki Ochiai, neri-fantastici che partono da basi "popolari" e arrivano inaspettatamente a messinscene teoriche sorprendenti: storie semplicissime in cui la voragine dell'indefinibile uccide senza sosta, e lo fa con il silenzio; dove personaggi che cercano spiegazioni e colpevoli sono destinati a fallire in mezzo a immagini sonore che sfuggono non appena si crede di intravederle, e che tornano in continuazione, uguali o magari impercettibilmente variate, illudendo il raziocinio e la logica. I poliziotti di Hypnosis lamentano spesso, prima di trovare una traccia, il pessimismo cosmico che copre e annebbia le possibilità di indagine, perché adesso gli accadimenti avvengono senza un'evidente ragione. Quando, in Bayside Shakedown, i due agenti chiedono aiuto al serial killer per poter identificare l'autore del sequestro di un alto funzionario della polizia, si sentono rispondere di abbandonare i loro preconcetti e di non ricercare a tutti i costi motivi, backgrounds e ragioni, perché il più delle volte non ce ne sono. Il mondo incomprensibile descritto non è poi molto lontano da quello di Rainy Dog di Takashi Miike, dove un killer agisce senza conoscere veramente i luoghi, le persone, le vittime, l'aria: tutto infatti è ostacolato dalla pioggia incessante, nera, greve; anche il silenzio, qui, non ha pace, schiacciato com'è dal rumore dell'acqua, ma il risultato è il medesimo. O da quello di Gemini di Shinya Tsukamoto, dove anche se si cerca di spiegare gli eventi niente si mette a posto, anzi il contagio continua secondo un circolo senza inizio e senza fine: la claustrofobia sigillata e quasi muta della casa, e il suo presunto ordine silenzioso, rigoroso e pulito, sono rotti da improvvisi lampi di violenza sonoro-visiva che confondono le idee, e alla fine anche il senso di una vita e di regole che si pensava di conoscere, e che invece risultano irrimediabilmente infettate. Oppure ancora, da quello di Mitsuo Yanagimachi, dove personaggi che agiscono credendo di conoscere veramente i luoghi (A 19 Year-Old's Map/Jūkyū sai no chizu, 1979; Farewell to the Land/Saraba itoshiki daichi, 1982; Fire-Festival/Himatsuri, 1984) si accorgono infine di non avere nulla in mano che possa anche solo dare un senso elementare alle loro azioni e vite, e quindi compiono un ultimo atto estremo, che in fondo però non termina alcunché, perché le cose rimangono completamente senza ragioni: resta l'offuscamento, e per tutti, spettatori compresi, una negazione delle consequenzialità comuni dei comportamenti e dell'ordine degli eventi. Nei suoi film, Takeshi Kitano immobilizza il proprio viso e quello degli altri personaggi con uno stupore del tutto perdente e de-emozionato di fronte all'inesplicabilità dell'esistenza, che non ferma comunque i soggetti dal compiere l'azione, ovviamente destinata a concludersi con una sconfitta sul piano della risistemazione delle cose. Questo succede la maggior parte delle volte senza una sola parola, perché il lessico comune ormai è completamente superfluo, e dunque tranquillamente inutilizzabile. Rimane soltanto un'interrogativa rassegnazione dentro una bolla di silenzio attutente – che non vuol dire stasi o rinuncia, si badi, ma annientamento delle facoltà conoscitivo-razionali, che porta piano piano alla morte. Ovvio che non tutti i registi che attuano procedimenti filmici tali riescano a convincere: basti vedere il Shinji Aoyama di Chinpira/Two Punks o il Rokuro Mochizuki di Another Lonely Hitman, dove il silenzio non dice nulla, e procura soltanto noia.

Uno strumento linguistico molto usato per ottenere i risultati descritti è l'ellissi. I film di Sogo Ishii, Kiyoshi Kurosawa, Hideo Nakata, Masayuki Ochiai, Takashi Miike e Takeshi Kitano tolgono pezzi delle classiche addizioni aritmetiche dei procedimenti filmici, e lasciano proseguire il racconto a buchi. Questa narrazione traforata porta lo spettatore verso il litorale dell'azione e poi lo blocca, presentandogli la fine senza il passaggio immediatamente precedente, oppure sbalestrandolo addirittura su un'altra scena. È un metodo che sospende il mondo e le cose in un limbo di imprecisione e imperfezione che terrorizza, perché non c'è più alcun appiglio per un tentativo di organizzazione mentale e comportamentale. (...) La grammatica cinematografica si mutila, perché il senso delle cose, adesso come ieri, non ha senso. A cosa servono, dunque, le parole se non c'è niente da ricercare, spiegare, confessare? Anch'esse si adeguano allo stile monco del film e dell'universo messo in scena, e confluiscono in un oceano di offuscamento di significati, paradossalmente (o no?) caricato di migliaia di significanti. Senza risposta. Quando proprio K. Kurosawa dice in un'intervista che detesta, senza saperne il motivo, la struttura fondata sul rapporto di causa-effetto, e che un film non può mostrare che corpi, lasciando quel che concerne il cervello agli spettatori, sembra confermare esattamente questo.

La messinscena della paura
Il terrore, nel cinema nero giapponese di questi anni, è una diretta conseguenza dei meccanismi attuati mediante il silenzio sospeso. Prende vita dal nulla. La differenza principale rispetto alle classiche ghost stories degli anni Sessanta come Onibaba-Le assassine (Onibaba, 1964) di Kaneto Shindo o Kwaidan (1964) di Masaki Kobayashi sta nella sottrazione dell'elemento esplicativo della paura dalle singole scene. Se nel film di Shindo la paura, intesa come brivido, tensione epidermica e battito cardiaco, proveniva dall'immensità buia delle distese di canne o dall'apparire improvviso e violento della maschera, in un film come Cure viene da un rivolo d'acqua sul pavimento, dalla punta di una sigaretta che brucia, dal lento dolly in pieno sole che dall'alto si avvicina ad un gomito sporgente dal finestrino di un'auto, dal rombo sordo di una lavatrice. Là era utilizzata, pur con procedimenti più stilizzati e sottili rispetto al cinema occidentale, la grammatica comune della scena paurosa, ovvero un fattore dominante o invasivo che aumenti o stacchi l'atmosfera perimetrale della sequenza stessa e del set; qui invece il criterio è simile, ma non uguale: si prende sempre un componente della scena, che può essere un oggetto o un'azione, e li si ingigantisce sensorialmente rispetto al resto; ma si tratta di elementi banali, altrimenti trascurabili, desaturati e anestetizzati, quasi annullati, in modo che risultino insonorizzati. Così facendo, si sottrae l'apparato eminentemente profilmico – musica, rumori, partecipazione registica –, e si presenta l'oggetto o l'azione nella loro convenzionalità di tutti i giorni, fissati dall'inquadratura e sorprendentemente inquietanti. La banalità di una cosa o di un gesto, che l'attenzione umana non coglie perché insignificante, acquista una connotazione paurosa che non è possibile spiegare in termini di linguaggio cinematografico o sensibilità comune. È, ancora una volta, il "crogiuolo dell'indeterminatezza" che annienta il raziocinio. Riprendere per pochi secondi il lembo di un impermeabile risulta immensamente più pauroso, in certo cinema nero-fanta-horror giapponese, della suspense prolungata e del relativo scossone, perché non riusciamo a capirne la ragione, in un mondo dove non ce n'è più. Ovvio che si debba tenere conto del contesto, perché la macchina da presa su un ciondolo per alcuni istanti non mi crea inquietudine in un film come Swallowtail Butterfly, ma lo fa invece in Angel Dust. Questione di registi. D'accordo. Eppure Kiyoshi Kurosawa, che afferma che a 17 anni voleva imitare lo stile di Nagisa Oshima, viene dal soft-core e dall'horror di grana grossa, Hideo Nakata conserva visibilmente un'impronta più popolare. Questione di film. Anche. Perché è certo che questi meccanismi non appaiono in Kichiku Daienkai (1998) di Kazuyoshi Kumakiri, Organ (1996) di Kei Fujiwara o nella serie Evil Dead Trap: in tali casi i meriti devono essere cercati altrove.

Credo che, al tirar delle somme, quello che fa venire la pelle d'oca sia essenzialmente il silenzio ottuso che pervade la scena, e la normalità della stessa, filmati da una regia che non interviene, lasciando che le cose accadano con il loro tempo, e non con quello cinematografico. Il finale nel ristorante di Cure possiede la distensione dell'andamento reale della vita, ma i suoni leggerissimi e i gesti quasi impercettibili tradiscono una tensione insopportabile e un'enormità del male da togliere il respiro. La sequenza nel centro commerciale in Bayside Shakedown, quando la polizia tenta di scoprire l'assassino che manda messaggi via Internet, ha un'indubbia suspense da ambientazione di tutti i giorni in situazione pericolosa: il procedimento col quale è attuata non è lontano da un poliziesco americano, eppure ci sono momenti in cui tutto pare sprofondare in una spirale di "incantamento sordo" che provoca ansietà; lo svelamento dell'identità del serial killer, con un leggero spostamento della macchina da presa dal volto in primo piano dell'esca al volto in campo lungo focalizzato dell'assassino, seguito da un primo piano di quest'ultimo che sorride mostrando l'apparecchio dentale, non diminuisce l'effetto, anzi lo aumenta, in uno strano processo di svuotamento sonoro della scena. Il tutto dura pochi secondi, forse meno di un minuto, ma lascia il segno, e fa venire qualche brivido. Hypnosis costruisce molte sue parti su questi meccanismi: tutte le scene parallelamente (ma anche, a volte, perpendicolarmente) intrecciate di suicidio si presentano davvero come sotto l'effetto dell'ipnosi. Il regista Masayuki Ochiai è molto bravo nel desaturare uditivamente la scena, lasciando che nell'aria ristagni il segno sonoro che porta le persone ad ammazzarsi. Questo porta il film su livelli di terrore notevoli, molto più sottili rispetto al pur spaventoso pandemonio caricato finale.

Il medesimo "incantamento sordo" si trova per quasi l'intera durata dei due Ring. La loro atmosfera paludosa sembra coprire il senso dell'udito. Le scene primarie, ovvero quella del pozzo, dello specchio e, nel secondo episodio, del volto nel video, staccano dallo sfondo, e assurgono a distillati d'immagini paurose come se ne vedono di rado. La forza risiede proprio nel mutismo: è come se azzerando il secondo senso col quale lo spettatore guarda un film, si aumenti considerevolmente la sensibilità del primo, la vista, rendendolo quasi insopportabile. La sequenza ritornante dello specchio, soprattutto, agisce a grandi linee con effetti che sembrano derivare dall'epoca dell'horror muto: una donna si sta pettinando davanti ad uno specchio; il fotogramma successivo, con uno stacco brusco, sposta la posizione dello specchio a lato della donna, mostrando qualcosa di diabolico; poi lo specchio torna davanti a lei; e poi di nuovo si sposta. Il trucco ha davvero un'esecuzione grossolana e da anni Venti, ma la sensazione che provoca è di gran lunga più terrificante di qualsiasi perfezione tecnicistica. La bolla insonorizzata in cui si trovano la donna e lo spettatore fa scivolare la tensione sottopelle: non è uno schiaffo, ma un progressivo e capillare spargimento di elettricità. Sembra davvero che la paura nasca e accada nella scena senza che una mano registica la faccia nascere e accadere: istintività e naturalezza. Per un cinema, come quello del terrore, che fa dello stile della messinscena uno dei suoi principali elementi distintivi e funzionali, tutto questo risulta decisamente originale. Non si vuole certo negare l'apporto di un bravo o eccellente regista, o, all'opposto, quello di un incapace: ma la questione è più impalpabile e meno identificabile di una mano autoriale, o della mancanza della stessa. Si arriva sempre in quel "crogiuolo dell'indeterminatezza" che, oltre a caratterizzare il mondo filmato, si fa sentire pure quando si tenta di costruire un discorso, in questo caso sulla paura, che fugge ad un incasellamento teorico. In questi film essa esiste e si propaga spontaneamente.

Note
I jidaigeki (dramma storico) e gli yakuza eiga (gangster film) erano le due fonti inesauribili per i produttori giapponesi, che insistevano sugli stessi parametri perché il pubblico sembrava apprezzarli in continuazione: ma i primi ebbero un punto di arrivo negli anni Sessanta, che li vide trasmigrare in televisione; i secondi negli anni Ottanta, dove vennero relegati nel mercato home video, perlomeno fino agli anni Novanta, quando molti giovani registi tentarono di dare il loro contributo per una rinascita.

Si trattava, da parte di Tōhō, Shōchiku e Tōei, di vendere quantità rilevanti di biglietti d'ingresso e prenotare posti nelle catene delle loro sale cinematografiche prima che il film fosse posto in cartellone o addirittura terminato. In questo modo, le case di distribuzione avevano già recuperato la maggior parte delle spese, se non tutte, sostenute per la produzione della pellicola. Poco importava poi che le sale, durante le proiezioni, fossero mezze vuote (perché molti compravano il biglietto e poi magari non andvano): il denaro era stato preventivamente messo al sicuro. Questa strategia distributiva – che divenne sempre più un metodo prepotente per ipotecare il successo di un film – fu messa in atto alla fine degli anni Sessanta, e poi ebbe un boom sul finire degli anni Ottanta e gli inizi dei Novanta, durante i quali a poco a poco si esaurì, anche se le "tre parche", soprattutto la Tōhō, non demorsero facilmente.

Conosciuto anche come la serie Shogun Assassin e Lone Wolf with Child, consta di sette film cinematografici, quattro film televisivi distribuiti in sala, e un episodio per la televisione: il primo è del 1972, l'ultimo del 1992. La Tōhō produsse e distribuì le prime sei puntate, poi sostituita dalla Tōei. In Italia la Edizioni Tropici fece uscire in videocassetta, col titolo Shogun il giustiziere, la versione che nel 1981 la New World di Roger Corman distribuì nelle sale americane: si trattava di un pot pourri dei primi due episodi, doppiati e montati insieme senza criterio.

Conosciuto anche come la serie Son of the Black Mass e Sleepy Eyes of Death, consta di diciotto film (c'è anche una serie televisiva e un episodio speciale per la tv), prodotti e distribuiti inizialmente dalla Tōhō, e in seguito dalla Daiei: il primo è del 1957, l'ultimo del 1993.

Intervista di Thierry Jousse a Kiyoshi Kurosawa, in Cahiers du Cinéma, n. 540, novembre 1999, pp. 81-82.

ibidem, p. 79.

Pier Maria Bocchi