Il panorama dei registi è variegato: da una parte emerge un gruppo di formazione "islamica", dall'altra vengono recuperati i cineasti dell'epoca dello Shâh. Proprio questi ultimi porteranno avanti la trasformazione del cinema post-rivoluzionario, adattandosi alla nuova realtà.

L'incendio del cinema Rex nella città di Abadan rappresenta un evento chiave nella lotta rivoluzionaria contro lo Shâh, oltre a essere la prima e la più sanguinosa di una serie di azioni che porteranno nel giro di un anno alla chiusura di più della metà delle sale cinematografiche sparse sul territorio nazionale: è un atto simbolico – tragicamente simbolico – per rigettare a chiare lettere l'apparato ideologico filo-americano che il regime di Rezâ Pahlavi aveva appoggiato senza tentennamenti negli anni e nei decenni passati. Il cinema, secondo il movimento islamico, era, con il suo ammaliante carico di sesso e violenza, il mezzo più suadente per convincere la popolazione ad aderire agli stili di vita e ai valori occidentali, il fulcro di una strategia imperialista volta a corrompere i pensieri e la morale pubblica. In larga parte, i religiosi – come già affermavano agli inizi del novecento – consideravano la settima arte come un veicolo dell'influenza occidentale, offensivo nei confronti della morale e fonte di corruzione. In realtà, lo stesso Khomeyni, appena salito al potere, in alcuni comizi pubblici, sosteneva di non essere contrario al cinema in quanto tale, ma ad un suo utilizzo "distorto". Egli, anzi, ben lungi dal proporne la soppressione, si augurava che i registi si servissero del mezzo ("in maniera propria, corretta" e "consona all'etica") per combattere la cultura Pahlavi e fare al contempo strada ad una nuova cultura islamica. 

La "teoria" di un cinema islamico viene elaborata, di fatto, in questi comizi, anche se le parole dell'âyatollâh non determinano, almeno nell'immediato, disposizioni o normative che aiutino registi e produttori ad attenersi alla "nuova linea". I primi passi del governo in questo settore prevedono, sostanzialmente, il congelamento del cinema pre-rivoluzionario. Per prima cosa tra il 1979 e il 1981, le 256 sale rimaste in piedi in tutto l'Iran, cambiano nome: dai nomi occidentali si passa a quelli patriottici, islamici o terzomondisti, per cui ad esempio il Cinema Impero di Tehran diverrà Esteqlâl (Indipendenza), La Città d'Oro diventerà Felestin (Palestina), Panorama sarà cambiato in Âzâdi (Libertà), e Atlantic in Efriqâ (Africa). Sempre negli stessi anni una speciale commissione governativa sequestra e visiona tutte le pellicole presenti nei magazzini dei produttori e dei distributori cinematografici: 897 film stranieri e 2208 film iraniani. Di questi 512 stranieri e 1956 iraniani non ottengono il visto censura e sono, di fatto, esclusi da qualsiasi proiezione, sia pubblica che privata. Per ottenere l'autorizzazione, la commissione, in accordo con i produttori, taglia le scene di nudo presenti in alcuni film o fa in modo di cancellare con mezzi rudimentali (pennarelli indelebili usati direttamente sulla pellicola) gli elementi della messa in scena che facevano riferimento al vecchio regime (effigi dello Shâh, donne senza velo, elementi riconducibili alle società occidentali). Nonostante gli sforzi di adeguamento, la maggior parte delle pellicole viene "nascosta" in qualche magazzino del Ministero o direttamente bruciata.

All'indomani della rivoluzione, la situazione politico-economica incerta sconsiglia gli investimenti nella produzione di nuove pellicole, incoraggiando implicitamente la proiezione di vecchi film e l'importazione di nuovi film stranieri, come ad esempio commedie e spaghetti western dall'Italia, oppure film provenienti dal Giappone o da Hong Kong. Le importazioni americane coprono una grossa parte del mercato, così come i film russi e orientali. Tuttavia, bastano pochi mesi all'establishment per invertire la rotta ed evitare, così, che i film stranieri possano avere la medesima funzione di "colonizzazione culturale" avuta dai film iraniani del passato. Già dal luglio '79 si mettono dunque in atto politiche volte a "purificare" le importazioni: dapprima vengono tagliati i film di serie B turchi, indiani e giapponesi, e in seguito saranno messi al bando tutti i film "imperialisti" e "anti-rivoluzionari". Il gruppo successivo di film ad essere escluso sarà poi quello americano, a causa del deterioramento delle relazioni politiche tra i due paesi in seguito alla "crisi degli ostaggi".

Il passaggio vero e proprio dal cinema Pahlavi al cinema della Repubblica Islamica avviene solo nel 1982, quando il governo approva una serie di norme che regolano la proiezione di film e video, e affida il controllo dell'industria cinematografica al Ministero della Cultura e della Guida Islamica. Nel tentativo di codificare i valori islamici si sviluppa un articolato e rigido sistema di censura, che inibisce ulteriormente la produzione locale. Questa si risolleverà solo a partire dal 1984-85, dopo che il governo avrà introdotto nuove disposizioni economiche a favore della produzione nazionale, dando avvio anche a un programma di finanziamento diretto dei film attraverso vari organi competenti: oltre al Ministero della Cultura e della Guida Islamica, alla Fondazione Fârâbi e all'Istituto per lo Sviluppo Intellettuale dei Bambini e degli Adolescenti (il Kânun), contribuiscono all'islamizzazione dell'industria cinematografica istituzioni quali la Fondazione per i Diseredati e il Ministero per la Crociata di Ricostruzione.

Nel 1983 la Fondazione per i Diseredati possiede circa la metà delle sale dell'Iran, semimonopolio che le permette di esercitare una grande influenza sulla produzione e distribuzione dei film. Non solo, la Fondazione dà vita ad una serie di iniziative volte a favorire la produzione di quei registi "impegnati" che, nei loro film, si ispirano direttamente alla Rivoluzione e ai valori islamici. Il Ministero per la Crociata di Ricostruzione si occupa invece della promozione dell'ideologia islamica nelle campagne: tra le sue principali attività c'era anche la distribuzione delle pellicole nelle parti periferiche del paese.

È sbagliato, tuttavia, pensare al periodo post-rivoluzionario come ad un periodo dove vengono prodotti solo film di mera propaganda ideologica. L'irrigidimento delle norme censorie, ispirate ai precetti islamici, favorisce al contrario il predominio dei film d'azione, di avventura e di guerra, anche se non mancano i drammi familiari, che sperimentano nuovi modi di ritrarre le donne senza contravvenire alle regole della censura. Per cui, invece di concentrarsi sui valori islamici e persiani più profondi, il cinema iraniano degli anni Ottanta, in larga parte, mantiene (accentuandolo) un carattere moralista già esistente nel cinema pre-rivoluzionario. Si tratta in realtà di una moralità superficiale, contraddistinta da facili speranze ed emozioni a buon mercato. I religiosi al potere spingono i cineasti a diffondere le nozioni del sacrificio di sé, del martirio e della pazienza rivoluzionaria. Tali temi pervadono questo cinema e troveranno la loro espressione più naturale nel filone di film dedicati alla guerra con l'Iraq. 

Il panorama dei registi è variegato: da una parte emerge, gradualmente, un nuovo gruppo di registi di formazione "islamica" (si pensi ad esempio a Makhmalbâf, Hatâmikiyâ, Bani E‘temâd), dall'altra vengono recuperati i cineasti dell'epoca dello Shâh, cui viene nuovamente permesso di lavorare. Saranno proprio questi ultimi (tra cui Kiârostami, Beyzâ'i, Mehrju'i, Kimiyâ'i, Sinâ'i) a portare avanti la trasformazione del cinema post-rivoluzionario, adattandosi alla nuova realtà. 

Se negli anni '90 la politica, l'economia e la cultura iraniane conoscono significativi sviluppi e cambiamenti che coinvolgono positivamente, tra le altre, anche l'industria cinematografica, nondimeno il dibattito sulla natura e le caratteristiche proprie del "cinema islamico" continua ad essere particolarmente acceso, anzi – in alcuni casi – diventa decisivo per la sorte di importanti personalità pubbliche. Nell'estate del 1991 una parte del governo paventa il rischio di una "invasione culturale" del paese da parte dell'"Imperialismo Occidentale". Per screzi interni al governo, nel 1992 si dimette il primo ministro Hoseyn Musâvi e, a metà dello stesso anno, Mohammad Khâtami, Ministro della Cultura e della Guida Islamica, uno degli artefici dell'evoluzione e della fortuna anche critica del cinema iraniano. Qualche anno dopo anche Mohammad Beheshti, presidente della Fondazione Fârâbi, viene rimosso dal suo incarico.

Questo sconvolgimento politico si traduce in campo cinematografico in un periodo d'incertezza. La censura continua a fare il proprio lavoro: molti film vengono proibiti, e tra essi anche alcuni di quelli classificati come film "di serie A". A metà del 1995 un gruppo di 214 addetti ai lavori scrive una lettera aperta al Ministero della Cultura e della Guida Islamica, invocando una rivalutazione delle procedure che regolano la produzione cinematografica, e chiedendo in sostanza che si permetta all'industria di uscire dalla sfera politica.

Alla sua elezione a presidente dell'Iran (1997), Khâtami sostituisce la precedente dottrina del na gharbi, na sharqi (né occidentale, né orientale) con il goftogu-ye tamaddonhâ (dialogo delle civiltà), introducendo nuovi valori secolari ispirati alla trasparenza e al pluralismo, che rappresentano un punto di partenza per una riforma dei valori islamici precedentemente stabiliti. Basandosi sulla nuova dottrina di dialogo e mediazione, Khâtami assume un ruolo sempre più determinante nel cambiamento dell'industria cinematografica, difendendo l'apertura e la qualità dei film, e incoraggiando in alcune occasioni la proiezione di pellicole in passato proibite, come ad esempio nel caso del controverso film di Dâvud Mirbâqeri, Âdam barfi (Il pupazzo di neve), girato nel 1994, in cui sono toccati complessi e delicati temi sociali (il protagonista si finge donna, travestendosi e comportandosi in modo ambiguo, per potersi sposare con un cittadino americano ed ottenere così il visto d'espatrio negli Stati Uniti).

Nel 1999 Khâtami presenta un piano di ristrutturazione dell'economia della Repubblica Islamica, basato innanzitutto su una serie di provvedimenti di privatizzazione di alcune industrie del paese, inclusa quella cinematografica, che dunque risentirà sempre meno dell'influenza del governo nel finanziamento, nella produzione e nella proiezione dei film. Non a caso sono gli anni in cui il cinema persiano ottiene riconoscimenti e visibilità internazionale, successi e apprezzamenti mai avuti in precedenza. Alla vecchia generazione di cineasti, se ne sta affiancando una giovane (Qobâdi, Payâmi, Samirâ Makhmalbâf, Yektâpenâh Shâhbâzi) altrettanto agguerrita e consapevole dei propri mezzi, capace di approfittare dei relativi spazi di libertà, garante di una vitalità cinematografica che solo pochi altri paesi al mondo possono vantare. 

Note

Il 19 agosto 1978, nell'anniversario del colpo di stato contro Mosaddeq, scoppia un incendio al cinema Rex di Abadan, in cui muoiono oltre 300 persone. In quei giorni fonti governative attribuirono la responsabilità dell'avvenimento a fazioni religiose, ma la maggior parte dell'opinione pubblica accusò il governo, ormai screditato, di aver organizzato l'attentato tramite la Savak, la polizia segreta dello Shâh. Solo dopo la Rivoluzione si accertarono i fatti e si stabilì un chiaro legame tra gli incendiari e i leader religiosi che si opponevano alla monarchia. 

"Noi non ci opponiamo al cinema, alla radio o alla televisione [...] Il cinema è un'invenzione moderna che bisognerebbe usare per educare il popolo ma, come ben sapete, esso è stato utilizzato invece per corrompere i nostri giovani. È il cattivo uso del cinema che noi condanniamo, un uso scorretto causato dalla politica sleale dei nostri governanti". Cfr. Hamid Algar (a cura di), Islam and Revolution: Writtings and Declrations of Imam Khomeini, Mizan Press, Berkeley, CA, 1981, p.258. (La traduzione in italiano si trova in Natalia N. Tornesello, Il cinema persiano, Roma, Jouvence, 2003, p.84.). 

Elena Zamborlini, Marco Dalla Gassa