Shadows in the Palace - Kim-Mi-jeong

L' horror coreano al Fareastfilmfestival: un intreccio di relazioni misteriose che si sviluppa in un'ambientazione claustrofobica in cui prendono vita allucinazioni, forme di violenza e di puro sadismo, restituite nella loro crudezza.

Il decimo appuntamento con il Fareastfilmfestival si chiude con l'horror coreano in costume Shadows in the Palace di Kim Mi-jeong. Film di esordio per la regista (2007) che riunisce intorno a se un cast tutto al femminile. Il ruolo della donna, nella sua sottomissione, è subordinato alle ferree regole di una società tradizionale dalla matrice confuciana nella quale è relegata ad una condizione di schiavitù, in un sistema gerarchico e opprimente. Il fatto che il Principe non riesca ad avere un erede dalla regina è il motivo che innesca un intreccio di relazioni misteriose e oscure che si sviluppa in un'ambientazione chiusa, claustrofobica,  in cui prendono vita allucinazioni visive e uditive, forme di violenza e di puro sadismo, restituite nella loro crudezza non necessariamente spettacolare.

I topoi del genere horror si coniugano con il giallo e con il film storico e si disseminano in un tessuto narrativo complesso in cui i vari elementi sono abilmente dosati e definiti: il mistero, lo shock, il soprannaturale, l'investigazione, la tradizione, le scenografie ed i costumi.

La damigella prediletta della concubina del principe viene trovata impiccata, ma la dottoressa del palazzo capisce che non si tratta di suicidio, ma di omicidio e scopre inoltre che la ragazza  ha già avuto figli. Fatto che trasgredisce le severe regole del palazzo in cui le donne sono costrette al nubilato e alla completa dedizione al benessere del principe e del suo erede.

Prendono avvio le indagini che procedono a spese della damigella che ha trovato il cadavere della compagna. Si impossessa di una pietra che la ragazza teneva al collo, ma questa, come vuole la tradizione del genere, si rivela fonte di un potere maligno e demoniaco. Le forze del male la fanno da padrone e si manifestano sotto forma di allucinazioni improvvise, preparate ed accompagnate da effetti sonori e musicali dirompenti, striduli. Rumori notturni e ombre pericolose contribuiscono a caricare quest' atmosfera di ansia e terrore.

La segregazione della ragazza fra i topi e le sue urla non sono altro che il simbolo di una più generale prigionia a cui è soggetta la vita nel microcosmo sociale costruito dal film.

Il senso di chiusura spaziale è restituito negli interni, nella funzione di limite divisorio che svolgono le grandi porte e nella stessa organizzazione gerarchica degli spazi. Le sale adibite ai lavori delle damigelle, la stanza della concubina, i locali del principe dove la protagonista si intrufola travestita da uomo, le varie prigioni, il nascondiglio in cui viene riposta la damigella muta sottoposta a tortura. Quest' ultimo personaggio rappresenta sin da subito la figura della vittima per eccellenza, in un contesto in cui, a causa del suo handicap, le possibilità di difendersi sono nulle. I dettagli non rinunciano di mostrare scrupolosamente gli aghi che si infilano sotto le sue unghie, fra il sangue delle sue dita e il volto in sofferente silenzio. Ma gli strumenti di tortura sono numerosi e la pellicola ne esibisce una varia rassegna: dalle unghie strappate alle mani mozzate della cerimonia conclusiva.

Tipico dell' horror è l' effetto di sorpresa con cui appare improvvisamente dall'alto, il cadavere appeso, non solo nel momento della sua scoperta, ma anche nella fuga notturna nel bosco dove è prevista anche l'inaspettata comparsa del fantasma, o dove ci si inciampa in un corpo disteso senza vita. Questi aspetti apparentemente ossessivi si fanno strada gradualmente lungo le maglie della narrazione e trovano il loro corrispettivo in una fotografia curata per le ricche ed eleganti componenti iconografiche del costume, o per l'ironia secondaria, ma presente, incarnata dalla figura della bimba che, qua e la, si accende una sigaretta in relax al di fuori dell'affanno degli adulti, fino all'intermezzo in cui fuma la pipa rituale della nonna.

Un mondo a se stante che prescinde ovviamente dalla documentata veridicità storica e che si rende autonomo e soggiogato dalle leggi che lo governano. Questa caratteristica di isolamento è resa manifesta dalle sequenze che incorniciano la storia.  Punti di vista insoliti ed estremi introducono la narrazione: dallo sguardo sotterraneo e liquefatto dal profondo di un pozzo a cui segue un' inquadratura dall'alto nella stanza in cui si trovano sdraiati il principe e la concubina. Sguardi onniscenti che riconducono ad una forza demiurgica sovrannaturale. L'ultima inquadratura è un carrello che retrocede attraverso una serie di portoni piantonati da guardie in divisa, che si chiudono gradualmente, uno ad uno, non appena li si oltrepassa a ritroso. L'impressione è quella di un sistema a scatole cinesi in cui l'uscita viene continuamente dilatata e rimandata come a confermare la stratificata complessità dell'universo in cui lo spettatore è rimasto rinchiuso.

L'aspetto stilistico di rilevante importanza è sperimentato nel gioco di relazioni prospettiche e di profondità messa in atto in una molteplicità di piani, attraverso la ricerca costante di un effetto flou, che funziona come criterio selettivo sui dettagli delle inquadrature e come principio di astrazione. 

L'originalità del film, il suo slancio narrativo, l'intraprendente iniziativa della regista che lo realizza con un basso budget, sono gli elementi chiave che lo rendono indubbiamente interessante nel panorama dell'attuale produzione coreana. Ha venduto 1,4 milioni di biglietti alla sua uscita nell'ottobre del 2007 e Kim Mi-jeong ha ricevuto il premio come Miglior Regista Esordiente alla sesta edizione dei Korean Film Awards.

Davide Morello