Ritvik Ghatak (1925-76): Il fuoco che ardeva troppo luminoso

Oscurato in vita da Satyajit Ray e riscoperto con il Nuovo Cinema, Ritvik Ghatak è figura straordinaria e unica del cinema bengalese e indiano. Segnato dalla Partizione, guida intellettuale, professionale e umana di molti cineasti, ha lasciato otto grandi film e un'impronta ineguagliata.

RITVIK GHATAK (1925-76): Il fuoco che ardeva troppo luminoso

 

Courtesy National Film Archive of India

Inizialmente oscurato dall'alone lucente che circondava Satyajit Rāy (1921-92) e riscoperto solo più tardi, grazie al movimento del Nuovo Cinema (fine anni Sessanta), Ritvik Kumār Ghatak è considerato da molti la figura più straordinaria della cinematografia indiana. Nato nel 1925 a Dacca - allora città del Bengala indiviso, dal 1947 capitale del Pakistan Orientale e dal 1971 capitale del Bangladesh - si trasferisce con la famiglia a Calcutta, dove si iscrive all'università per seguire i corsi di letteratura inglese. Nel 1946 comincia ad occuparsi attivamente di politica: legato al CPI (Communist Pary of India), entra a far parte dell'IPTA (Indian Peoples' Theatre Association), movimento teatrale sorto a Bombay nel 1943, ad opera di artisti ed intellettuali di sinistra, per cui scrive, dirige e recita in diverse opere, portandole anche nei villaggi. In seguito, differenze ideologiche con il gruppo lo portano a staccarsene nel 1954. Per gli stessi motivi, l'anno dopo viene espulso anche dal CPI. Aveva già cominciato a lavorare nel cinema intorno al 1950 come assistente nel film Tathāpi (Tuttavia) di Manoj Bhattāchārya e poi per Chhinnamūl (Gli sradicati, 1950), di Nimay Ghosh, prima opera bengalese sulla Partizione dell'India del 1947. Due anni dopo, nel 1952, con un budget molto limitato, realizza il primo film, Nāgrik (Cittadino). La vicenda è quella di una famiglia della bassa borghesia, emigrata a Calcutta durante la Partizione e trascinata verso il fondo della scala sociale dalla dura situazione economica e umana seguita al tragico e cruciale evento. In questo passaggio, i personaggi abbandonano a poco a poco le loro iniziali aspirazioni individualistiche, mentre aumenta nella stessa misura il loro impegno politico. Pur non perfetto tecnicamente, come rileverà più tardi lo stesso regista, il film rivela le tracce di uno stile e una sensibilità unica. Ritvik Ghatak scrive nei suoi pensieri sul cinema di aver cominciato a pensare a quel medium all'epoca dei contrasti con l'IPTA: "Pensavo ai milioni di menti che avrei poturo raggiungere contemporaneamente. Ecco come sono arrivato al cinema. Non perché volevo fare dei film. Se domani trovassi un mezzo migliore, lo lascerei perdere subito... Ho voluto usare il cinema come un'arma, come un mezzo per esprimere le mie idee... e per educare la gente". Ma il suo primo film non ha fortuna in questo senso: scomparirà misteriosamente per riapparire vent'anni dopo; uscirà solo nel 1977. Nel 1955 lavora per la compagnia cinematografica Filmistan di Bombay (nata nel 1942), per cui scrive le sceneggiature di film come Madhumati (1958, regia di Bimal Rāy) e collabora a quella di Musāfir (Viaggiatori, 1957, re. Rishikesh Mukharjī). Nel 1957 porta a compimento il suo secondo film, Ajāntrik (Non meccanico; o Pathetic Fallacy), per lungo tempo la sua opera più nota fuori dall'India, anche per l'insolito tema: il rapporto tra il tassista Bimal e la sua vecchia Chevrolet, che egli considera un essere vivente e chiama affettuosamente Jagadal. Con lei, Bimal vive tangenzialmente le vite dei clienti che trasporta ed entra in contatto un gruppo di aborigeni. Ma Jagadal, ormai troppo vecchia e malandata, si guasta definitivamente e nessuna "cura" riesce a restituirle il movimento. In questi primi film hanno già preso forma compiuta i temi e i motivi che intessono l'intera opera del grande regista: il senso di perdita e di sradicamento sociale e culturale prodotto in Bengala dalla Partizione; la drammatica situazione di miseria in cui i profughi vivranno per anni; lo scontro di un'era di industrializzazione e meccanizzazione indiscriminata con una cultura precedente, che affonda le radici nel mito e nella mitologia e si incarna spesso nella figura della donna; e il cosmo primitivo e primigenio dei tribali, con la loro percezione "altra" della vita e del mondo. Il difficile cammino di reinserimento sociale dei profughi della Partizione, già aspramente presente in Nāgrik, torna in Meghe dhākā tārā (Una stella coperta da una nube, 1960), considerato il capolavoro del regista: Nītā, con il suo modesto impiego, è il solo sostegno economico di una famiglia di profughi che vive alla periferia di Calcutta. Dopo aver sacrificato la sua giovinezza per i familiari e gravemente malata di tisi, Nītā viene portata in un sanatorio dal fratello maggiore, ora un cantante affermato. Ma è tardi: Nītā grida disperata il suo desiderio di vivere al silenzio della montagna. È un'opera complessa in cui si intrecciano il piano realistico delle situazioni storiche e sociali e il piano del mito (Nītā come simbolo della Dea Madre) per raggiungere una dimensione epica. I film di Ritvik Ghatak "possiedono diversi livelli di esistenza; e presentano diversi livelli possibili d'interpretazione... l'aspetto aneddotico, descrittivo, che attraverso il racconto traccia la cronaca del Bengala dopo l'indipendenza, l'aspetto soggettivo, che rende partecipi dei sentimenti e dell'evoluzione intima dei personaggi e del regista: a poco a poco il discorso si interiorizza, si fa elegia e requisitoria; l'aspetto sociale infine, con cui, direttamente o in modo simbolico, Ghatak analizza la situazione socio-culturale dell'odierno Bengala" (Parrain 1983). Questi diversi livelli vengono in chiara luce in Komal gāndhār (Mi bemolle, 1961), in cui la rivalità tra due gruppi teatrali, un tempo un'unica compagnia, allude alla separazione dei due Bengala. Il motivo che attraversa il film, anche in senso musicale, è il senso struggente di unione e separazione, che si fa concreto nei personaggi di Bhrigu e Ansuya, profughi dalla parte orientale, mentre si fa simbolo nella nota armonizzatrice che dà il titolo al film.

Nell'opera successiva, Subarnarekhā (Il fiume Subarnarekhā, 1962; uscito nel 1965), la situazione del Bengala dopo la Partizione si rivela nella sua veste più cupa e brutale, anche se Ritvik Ghatak non si chiude mai totalmente alla possibilità della speranza: Ishvar, il protagonista, arrivato profugo a Calcutta, dopo aver perduto anche la nuova esistenza che aveva tentato di ricostruire, con il peso del suicidio della sorella Sita, riprende con il nipote la strada verso un nuovo inizio. Questo lieve raggio di speranza si ritrova anche in Titās ektī nadīr nām (Un fiume di nome Titās, 1973), che ruota intorno alla vita di una comunità di pescatori. Il fiume, che un tempo era fonte di vita, si va prosciugando, mentre i pescatori vengono allontanati dal loro insediamento da avidi imprenditori urbani. Ma Basantī, che si era presa cura di un bambino rimasto orfano, pur morente per la sete, sogna la possibilità di una nuova vita. Considerato da alcuni superiore a Meghe dhākā tārā, è stato prodotto in Bangladesh, mentre erano ancora vive le speranze per una rinnovata unità culturale tra i due Bengala, poi andate deluse: "Mentre giravo il film, mi sono reso conto che niente del passato sopravvive oggi... La storia è spietata. No, tutto è perduto. Non rimane nulla". Queste amare parole sembrano preludere all'ultimo film, Jukti takko ār gappo (Ragionare, discutere e chiacchierare, o Argument and a Story, 1974), in cui mette in scena se stesso nel ruolo dello stanco ed alcolizzato intellettuale Nīlkanth, che attraversa il Bengala per riconciliarsi con la moglie Durgā. In questo viaggio, lo accompagnano alcuni personaggi che compendiano tutti i motivi e i temi della sua opera: Nachiket, giovane ingegnere disoccupato; Bangobālā, profuga dal Bangladesh; e Jagannāth uno squattrinato maestro di sanscrito. Lungo la strada incontrano Shatrujī, un tempo scrittore impegnato, che ora si guadagna da vivere con la pornografia; un vociante sindacalista che arringa gli operai; e Panchānan Ustād, che crea maschere per le danze Chhau (forma di rappresentazione teatrale tradizionale dell'India nordorientale). In una foresta incontrano anche un gruppo di studenti naksaliti: così erano chiamati i comunisti militanti alla guida una rivolta in un primo tempo contadina, scoppiata e repressa nel 1967, in seguito continuata con caratteristiche urbane per essere schiacciata durante la guerra per l'indipendenza del Bangladesh (1971) e poi con l'Emergenza del 1975. Con loro Nīlkanth cerca di stabilire un difficile dialogo politico, ma arriva anche la polizia, che apre il fuoco: Nīlkanth è colpito a morte. Percorso simbolico nella storia contemporanea del Bengala, alla ricerca di radici e risposte in un'epoca che ha finito per diventargli estranea, anche questo film - che è il suo testamento politico e cinematografico, redatto con indomito humour - Ritvik Ghatak non rinuncia alla possibilità di uno spiraglio: "Qualcosa bisogna pur fare. Bisogna fare qualcosa", sono le ultime parole di Nīlkanth, prima di morire.

Solo raramente Ritvik Ghatak è riuscito ad entrare in sintonia con il pubblico al quale si rivolgeva allora, un pubblico specificamente indiano, che in teoria possedeva la chiave culturale per accedere ai suoi film. Né ha avuto migliore fortuna con la platea occidentale: quando i suoi film erano stati dati a Parigi, alla Cinémateque Française, nel 1969, lo stesso pubblico che aveva accolto con tanto entusiasmo l'umanesimo universale di Satyajit Rāy non aveva potuto comprendere quelle opere così profondamente radicate in un mondo culturale distante e diverso. Ma per qualche tempo, tra il 1966 e il 1967, Ritvik Ghatak insegna regia al Film and Television Institute di Puna, fondato nel 1960, e quell'esperienza segna radicalmente i suoi allievi, che poi porteranno avanti il movimento del Nuovo Cinema. Per loro Ritvik Ghatak è il Maestro indiscusso; anche grazie a loro è stato finalmente riconosciuto nella sua travagliata grandezza, dalla critica e dal pubblico. Minato nel fisico dalla tubercolosi e dall'alcol, a cinquant'anni Ritvik Ghatak muore - come scrive Aruna Vasudev (1986) - "di frustrazione, di rabbia, di alcol, di un fuoco che ardeva troppo luminoso".

Filmografia essenziale

film:
Nāgrik (Cittadino, 1952)
Bārī teke pāliye (Il fuggitivo, 1959)
Ajāntrik (Non meccanico, 1959)
Meghe dhākā tārā (Una stella coperta da una nube, 1960)
Komal gāndhār (Mi bemolle, 1961)
Subarnarekhā (Il fiume Subarnarekhā, 1962)
Titās ektī nadīr nām (Un fiume di nome Titās, 1973)
Jukti takko ār gappo (Ragionare discutere e chiacchierare, 1974)

documentari:
Ādivāsiyon kā jīvan srot (La sorgente vitale degli aborigeni, 1955)
Bihār ke darshanīya sthān (Località interessanti del Bihar)
Puruliyār Chhau nritya (Danze Chau di Puruliyā, 1970)
Scissors (1962)
Amar Lenin (L'immortale Lenin, 1970)
Indira Gandhi (incompleto, 1972)

Bibliografia
Banerjee, H., 1985, Ritwik Kumar Ghatak. A Monograph, National Film Archive of India, Pune.
Chaddhā, M., 1990, Hindī sinemā kā itihās, Sachin Prakāshan, Nayī Dillī, pp.372-384.
Ghatak, R., 1987, Cinema and I, Ritwik Memorial Trust, Calcutta.
Joseph, J. (ed.), 1990, Ritwik Ghatak, Chennai Film Society, Madras.
Parrain, P., 1983, La réunification de l'être (présentation de Ritwik Ghatak), in J.-L. Passek (dir.), 1983, Le cinéma indien, L'Equerre - Centre Georges Pompidou, Paris, 103-111.
Rajadhyaksha, A., - Gangar, A., (eds.), 1987, Ghatak: Arguments/Stories, Screen Unit - Research Centre for Cinema Studies, Bombay
Rajadhyaksha, A., - Willemen, P., 1995, Encyclopaedia of Indian Cinema, Oxford University Press-British Film Institute, New Delhi-London, pp. 95-96.
Vasudev, A., 1986, The New Indian Cinema, Macmillan, Delhi, pp. 22-27.

Cecilia Cossio