Utsav, diretto da Girish Karnad, è l'ultima proposizione cinematografica, in ordine di tempo, di Mrichchhkatik (Il carretto d'argilla), il dramma sanscrito di Shūdrak che racconta di Vasantsenā, bellissima cortigiana di Ujjain, trionfante di gioiosa sensualità, dispensatrice di piaceri carnali e capace di soggiogare lo spirito e l'intelletto di uomini e donne con la conoscenza delle "sessantaquattro arti". Con un finale inquietante.

 

UTSAV

 

Regia: Girīsh Karnād; produzione: Shashi Kapūr e Dharmpriya Dās; compagnia di produzione: Filmvalas; soggetto: dai drammi Mrichchhkatik di Shūdrak e Daridrachārudatt di Bhās; sceneggiatura: Girīsh Karnād e Krishna Basrur; dialoghi: Sharad Joshī; fotografia: Ashok Mehtā; scenografia: Jāyū e Chinū Patvardhān; musica: Lakshmīkānt-Pyārelāl; versi: Vasant Dev; interpreti: Rekhā (Vasantsenā); Shekhar Suman (Chārūdatt); Shashi Kapūr (Sansthānak); Shankar Nāg (Sajjal); Nīnā Guptā (Madānikā); Anurādhā (Āditi); Kunāl Kapūr (Aryak); Annū Kapūr (il massaggiatore)

Per sfuggire alle brame di Sansthānak, cognato del re, la bellissima cortigiana Vasantsenā si rifugia in casa di Chārudatt , un brahmano povero. Divampa a prima vista la passione. Prima di andarsene, Vasantsenā gli affida i suoi gioielli, per timore dei ladri. Ma il ladro Sajjal li ruba per regalarli a Madānikā, schiava di Vasantsenā. I gioielli vengono poi restituiti alla cortigiana, che torna da Chārudatt per passare la notte con lui, sapendolo solo. La mattina dopo viene dolcemente svegliata dalla moglie di lui, Aditi, molto amichevole e niente affatto gelosa. Arriva piangendo Rohit, il figlioletto di Chārudatt: tutti i bambini hanno bellissmi carrettini d'oro, mentre il suo è d'argilla. Vasantsenā allora glielo adorna con i gioielli e il bambino corre via felice. La città è in fermento per la festa della primavera e Vasantsenā attende il carro che la porterà a un appuntamento con Chārudatt. Ma anche Sansthānak le manda un carro per incontrarla. Il ribelle Aryak, fuggito dalla prigione, sale sul carro destinato a Vasantsenā, mentre quest'ultima sale su quello di Sansthānak. Quando lo sfortunato corteggiatore si avvede che la donna è interessata solo a Chārudatt, la stringe alla gola lasciandola per morta e accusa Chārudatt dell'assassinio. Mentre il giovane sta per essere decapitato, Vasantsenā - salvata da un "massaggiatore" - arriva in suo soccorso. Nel frattempo, Aryak uccide il re tiranno e sale al trono. Chārudatt torna a casa con la moglie e Vasantsenā finalmente accoglie tra le braccia Sansthānak.

 

Utsav è l'ultima, in ordine di tempo, proposizione cinematografica di Mrichchhkatik (Il carretto d'argilla), dramma sanscrito attribuito a Shūdrak, di cui si sa molto poco, vissuto forse tra il II o III sec. Il dramma sembrerebbe la rielaborazione di un'opera precedente, il Daridrachārudatt (Chārudatt povero) di Bhas (date incerte anche in questo caso), di cui rimangono solo pochi brani. La vicenda racconta di Vasantsenā, bellissima cortigiana di Ujjain, e del suo amore per Chārudatt, un giovane brahmano povero. Utsav è anche l'ultimo grande kothā movie, un film cioè ambientato nel kothā, il bordello o piuttosto la 'casa di piacere', in cui il personaggio centrale è una cortigiana: l'ultimo, se non consideriamo il Devdās (2002) di Sanjay Līlā Bhansālī, che è piuttosto una citazione dei kothā movies. Se Utsav è l'ultimo kothā movie in ordine di tempo, Mrichchhkatik, realizzato nel 1920 da Suchet Sinh (morto nello stesso anno), è probabilmente il primo, ma la storia è tra le più frequentata: ha avuto, infatti, una decina di versioni cinematografiche (in diverse lingue indiane, in edizioni mute e sonore). Rispetto all'ambientazione musulmana di films come Pākīzā (o Pure Heart, 1971, re. Kamāl Amrohī) e Umrāo Jān (1981, re. Muzaffar Alī), ci troviamo ora di fronte a un'altra immagine di cortigiana: quella trionfante di gioiosa sensualità della tradizione letteraria dell'India antica, dispensatrice di piaceri carnali e capace di soggiogare lo spirito e l'intelletto di uomini e donne con la conoscenza delle "sessantaquattro arti", per una dettagliata descrizione delle quali rimandiamo al libro di Moti Chandra (1973).

Utsav sembrava avere molte carte dalla sua: una storia ben nota, attori molto popolari, una protagonista in stato di grazia, magnifiche scenografie, canzoni non malvage. Non celava nemmeno reconditi messaggi; voleva solo - a detta del regista - ripristinare due tratti della letteratura classica che sembravano ormai appannati: sensualità e humour (shringār ras e hāsya ras, rispettivamente). Quando è passato nelle sale, invece, è stato accolto piuttosto freddamente. E ci sono buoni motivi.

 

Per alcuni aspetti, il film si avvicina a Mandī (o The Market Place, 1983) di Shyām Benegal: anche le cortigiane di Utsav, certo ben diverse dalle sboccate prostitute di Mandī e più simili ad allieve di un'accademia d'arte, svolgono la loro attività con rigorosa etica professionale, secondo gli insegnamenti della direttrice, la 'mamma' (si rivolgono a lei proprio con questo appellativo) della loro 'casa' (ghar: così definiscono e considerano il veshyālay, il termine sanscrito per kothā). Sanno che il compito sociale - e quindi etico, da quelle parti - della cortigiana non è di dare l'amore del cuore, bensì il piacere dei sensi: ma non si limitano a darlo con entusiasmo, ne traggono pure un evidente godimento. Oltre alla giusta mercede. Coerentemente, Utsav non racconta una storia d'amore, volta al sublime, ma un'intensa ed esaltante passione sensuale. Non a caso, si assiste a una scena d'amore tra le più erotiche (fino ad allora) dello schermo indiano: un eros limpido e felice, emancipato dalla gravità sociale caricata sul sesso, in cui non c'è traccia di peccato - e dunque nemmeno di colpa e di pentimento.

In ossequio al comune senso del pudore, il regista si era premurato di dare al film un finale diverso: nell'opera sanscrita, infatti, il nuovo re scioglie Vasantsenā dall'obbligo che la lega alla sua professione, così che Chārudatt possa sposarla. Ma sposare una donna che ha avuto rapporti con altri e per di più con diversi altri - e per denaro: hāthon kā mail ("lo sporco delle mani"), certamente, ma anche strumento di potere - non poteva essere accettato dallo spettatore indiano medio. Il finale di Utsav restituisce allora a ciascuno il proprio posto: il marito a casa, con la devota sposa, e la cortigiana nel veshyālay, a deliziare i clienti. Anche in questo caso è un finale ingannatore: le cose saranno anche tornate a posto, ma nessuno si è pentito di nulla, nessuno ha perdonato nessuno e anzi si sono tutti sollazzati a dismisura, in barba alla morale. E non solo Vasantsenā e il suo drudo: si è divertito anche Vātsyāyan, l'autore del Kāmsūtr, il più famoso testo sanscrito di precettistica erotica, che soggiorna al veshyālay per completare la sua opera con osservazioni sul campo (è una licenza del regista; nel ruolo, un eccellente Amjad Khān, il 'cattivo' più cattivo del cinema indiano). E si è divertita perfino la dolce mogliettina.

 

Altro che la casta e spirituale sposa-modello: Aditi trova in Vasantsenā un'affettuosissima amica e un'alleata che determina la felice svolta della sua vita coniugale: "Sai... non che lui fosse malaccio, così e così, insomma. Pensavo di non potermi aspettare altro... La cosa aveva cominciato a venirmi un po' a noia, ecco. Ma dopo essere stato con te, lui... lui...", in quel momento cominciano a rullare con fragore i tamburi della festa di primavera, "... ecco, così, adesso è proprio così!" e scoppiano entrambe in un'irrefrenabile risata. Un riso imperdonabile, come sentenzia il venerabile Jorge nel film Il nome della rosa: "Il riso uccide la paura. Senza la paura del demonio non c'è più necessità del timor di Dio... Possiamo ridere di Dio? Il mondo precipiterebbe nel caos".

Parlando dei kothā movies, si era osservato come la cortigiana non fosse che l'alter ego sessuato della sposa/madre e come le due immagini venissero mantenute ben separate. Questa netta divisione dei ruoli, affermatasi già nel Devdās del 1935 di P.C. Baruā e poi 'codificata' con l'immagine materna di Aurat (Donna, 1940) / Mother India (1957), entrambi diretti da Mahbūb Khān) e con quella della cortigiana di Chitralekhā (1941/1964), di. Kedār Sharmā), rimanda alla concezione indiana della donna quale si trova in testi antichi, come la Manusmriti (Bühler 1970): infida, lasciva, trascinata da un'insaziabile brama sessuale che la spingerebbe ad accoppiarsi con tutti gli uomini, giovani o vecchi, belli o brutti.

Per questo motivo, la donna deve essere sempre soggetta a un'Autorità (maschile): nell'infanzia al padre, nella giovinezza al marito e alla morte di questi ai figli. E deve essere sposata impubere, per poter essere meglio domata. Una sposa fedele, comunque, è tale solo perché non ha avuto la possibilità di tradire il marito. L'unico modo per temperare la sua sessualità animalesca e onnivora è di tenerla occupata con le faccende domestiche e farla figliare, indirizzando verso l'alto ciò che la spinge e la trascina verso il basso. La condizione di madre, unita all'adorazione dello sposo, è per la donna la via eletta per superare la propria natura nefanda. Questa immagine femminile si sviluppa in un mondo dove la donna è l'oppressa tra gli oppressi; in una società in cui accade ancora che due sposi, hindu o musulmani che siano (sulla carta ci sono notevoli diversità, ma la sostanza cambia di poco), si vedano per la prima volta in occasione del matrimonio, magari proprio sul letto nuziale. Mentre l'uomo, tuttavia, ha sempre avuto la possibilità di cercare soddisfazione altrove, per la donna non c'è (o non c'era: le cose cominciano a cambiare) altra chance, se non il dovere di servire con devozione assoluta il patidev, il marito-padrone/dio, fosse pure una sentina di vizi. La condizione di una giovane sposa, non sempre delle più felici, può cambiare radicalmente con la nascita di un figlio, maschio però (le femmine vanno allevate per un'altra famiglia e sono ancor'oggi fonte di dissanguamento economico per la dote). Generando un figlio maschio - che garantisce la continuità del nome e del seme paterno - una moglie può acquisire uno status onorevole: non desta meraviglia che l'attaccamento della madre indiana verso la prole maschile appaia più marcato di quello delle madri occidentali: un figlio è socialmente il 'salvatore' della propria madre. In effetti, il rapporto - la diade - tra madre e figlio in India è più stretto e più prolungato che in occidente, e anche più 'sensuale' (giacchè la cura assidua del bambino compensa in parte la donna di una sessualità coniugale spesso negata). Ma neanche la Mamma è una figura rassicurante. Proprio da questo rapporto esclusivo si origina l'ambigua percezione della figura materna nella psiche infantile. A queste conclusioni arriva lo psicanalista Sudhir Kakar (1978) nella sua indagine che riguarda sia la condizione femminile prima e dopo il matrimonio, sia i modi in cui il bambino indiano percepisce l'inconscio erotismo materno; e il percorso attraverso il quale la 'buona' madre che nutre e consola diventa la 'cattiva' madre che distrugge e che divora, che perseguita il figlio con la propria nefasta e insoddisfatta sessualità, a cui egli non è in grado di rispondere adeguatamente. Secondo lo psicanalista, quest'ambivalente immagine materna - presente in tutte le culture - rimane come impronta indelebile nell'inconscio dell'indiano adulto ed è cruciale per capirne la psiche. Diverse referenze mitologiche illuminano questo antico ed onnipresente dilemma e le possibili difese: la perdita (temporanea) della virilità; le fantasie di auto-castrazione (simbolica) come l'auto-decapitazione sacrificale alla madre Kālī; fino al matricidio, seguito da resurrezione e sacralizzazione (perché l'uccisione della madre 'sessuale' comporterebbe anche l'eliminazione della madre benevola (Cossio 1999).

Anche il cinema – con Aurat e Chitralekhā, come con le figure di Pāro e Chandramukhī in Devdās – offre un'espressione preclara del simbolico atto di matricidio-con-deificazione: su una sponda la madre/donna 'buona', sull'altra la madre/donna 'cattiva'.

 

Ma il riso di Aditi e di Vasantsenā unisce le due immagini in un'unica espressione e rivela qualcosa di più di una catarsi negata, di diverso da un sovvertimento di codici e valori, come avviene in Mandī. Testimonia l'affrancamento dalla paura e dalla vergogna dell'immonda natura femminile e lascia presagire la possibile caduta di un dio. Qualche scena prima, in effetti, si assiste ad un altra - memorabile - ricomposizione, quando il piccolo Rohit chiede alla madre chi sia quella figura risplendente di seta, di oro e di gioielli, Vasantsenā, insomma. " E' anche lei tua madre", risponde Aditi; ma la risposta non convince il bambino, perché non ha mai visto sua madre così 'luccicante'. Vasantsenā allora adorna Aditi con tutti i suoi gioielli e indossa una delle semplicissime vesti di lei: in tal modo Rohit la accetta come 'madre' e corre ad abbracciarla, mentre Aditi si nasconde alla vista del figlio, che non potrebbe riconoscerla sotto le altre spoglie. Davanti allo spettatore ha luogo il temuto interscambio di ruoli tra la madre sessuale e la madre nutrice, che ripropone la realtà di un'unica natura. L'ultima scena rafforza e conferma il fatale sospetto: Sansthānak, afflitto e malconcio, trova rifugio tra le braccia della cortigiana, come un bimbo spaventato trova rifugio nel grembo materno.

Note
Lett. "nera", uno degli aspetti terribili di Devī ("dea") o Mahādevī ("grande dea"), consorte del dio Shiv, principio distruttore nella Triade o Trimūrti (con Brahmā, il creatore, e Vishnu, il preservatore).

Bibliografia
Chakravarty, S., 1996, National Identity in Indian Popular Cinema 1947-1987, Oxford University Press, Delhi.
Chandra, M., 1973, The World of Courtesans, Vikas Publishing House, Delhi, I ed. 1971.
Kakar, S., 1978, The Inner World, A Psycho-analitic Study of Childhood and Society in India, OUP, Delhi.
Bühler, G. (ed.), 1970, The Laws of Manu (Manusmiti), Motilal Banarsidas, Delhi, III ed.
Rajadhyaksha, A., - Willemen, P., 1995, Encyclopaedia of Indian Cinema, OUP-British Film Institute, New Delhi-London, p. 435.

 

Cecilia Cossio
liberamente adattato da L'amor profano ovvero la cortigiana nel cinema hindi
in Scarcia, G. (a cura di), 1999, Bipolarità imperfette, Cafoscarina, Venezia, pp.61-97