PĀKĪZĀ (1971)
IndiaPakiza, diretto da Kamal Amrohi, è il film-culto del kotha movie o "cinema del bordello", termine con cui sono definite le opere che hanno come centro motore la figura di una cortigiana, una delle fisionomie più affascinanti e singolari dello schermo indiano. Questo film, di straordinario successo, è stato anche il canto del cigno della protagonista, Mina Kumari, considerata la più grande interprete drammatica del cinema hindi e morta l'anno successivo.
Regia, soggetto, versi, produzione: Kamāl Amrohī; compagnia di produzione: Mahal Pictures; fotografia: Josef Wirsching; montaggio: D.N. Pāī; musica: Ghulām Muhammad, Naushād; versi: Kaif Bhopālī, Majrūh Sultānpurī, Kaifī Āzmī; scenografia: N.B. Kulkarnī; costumi: Mīnā Kumārī; interpreti: Mīnā Kumārī (Nargis, Sāhabjān); Rāj Kumār (Salīm); Ashok Kumār (Shahabuddīn); Navābjān (Vīnā).Urdu/colore/175'(125'). Nargis, bellissima cortigiana, ama riamata un aristocratico, Shahābuddīn, ma la famiglia di lui si oppone all'unione. Separata da Shahābuddīn, Nargis – incinta – trova rifugio in un cimitero. Qui muore dopo aver dato alla luce una bambina, che Navābjān, sorella di Nargis, porta con sé al kothā (bordello). La bambina, chiamata Sāhabjān, crescendo diventa una bellissima donna e la sua fama come danzatrice e cantante richiama molti facoltosi clienti. S'innamora, riamata, di Salīm, che ignora tutto di lei. Ma anche quando Sāhabjān gli rivela la verità, Salīm insiste per sposarla, strappandola così al mondo del kothā. Sāhabjān, tuttavia, rifiuta un'unione che sarebbe socialmente abbietta per il giovane e decide di lasciarlo. Vengono stabilite le nozze di Salīm, il quale invita Sāhabjān - nella sua veste di famosa artista - a cantare e danzare alla festa nella sua casa. Qui finalmente il segreto si svela: Shahābuddīn, il padre di Sāhabjān, è lo zio paterno di Salīm. Un colpo di fucile sparato dal nonno, l'austero patriarca della famiglia che ancora una volta vorrebbe salvare l'onore del casato, colpisce a morte Shahābuddīn che prima di morire affida la figlia a Salīm. Il feretro di Shahābuddīn accompagna il corteo nuziale di Salīm al kothā di Navābjān. Il kothā movie o "cinema del bordello", che ha come centro motore la figura di una cortigiana, costituisce una delle fisionomie più affascinanti e singolari dello schermo indiano. Presente fin dalla nascita del cinema, questo vero e proprio 'genere' ha dato vita a innumerevoli opere, alcune delle quali tra le più rappresentative di questa cinematografia. Pākīzā ne è il film-culto. Concepito fin dal 1958 dalla stessa protagonista, Minā Kumārī, e dal marito, Kamāl Amrohi, regista, produttore, scrittore e poeta di lingua hindi e urdu, questo film prende avvio nel 1964, mentre Mīnā Kumārī è impegnata nelle riprese di Chitralekhā (uno dei più noti kothā movies e rifacimento di una precedente opera omonima, ambedue con la regia di Kedār Sharmā), ma viene portato a termine solo sette anni dopo. È stato anche il canto del cigno dell'attrice, considerata la più grande interprete drammatica del cinema hindi: morirà infatti l'anno successivo, nel 1972, a 39 anni, per problemi connessi con l'alcolismo.
Apparentemente, Pākīzā è un film a lieto fine: la nobile origine di Sāhabjān, il desiderio espresso dal padre morente e l'amore di Salīm trionfano sulla consuetudine sociale che confina la cortigiana nel kothā. Non si può dimenticare, tuttavia, la reazione di Sāhabjān quando Salīm la porta davanti alla moschea per sposarla. L'officiante le chiede il nome, Salīm risponde per lei: "Il suo nome è Pākīzā (colei che ha il cuore puro)"; ma alla domanda di rito, "Donna dal cuore puro, vuoi sposare Salīm Ahmad Khān accettando 101 rupie a titolo di mahr?", Sāhabjān fugge inorridita, per un atto che le appare sacrilego. Il mahr - la somma di denaro che nel matrimonio musulmano lo sposo offre per la sposa, garantendosene in pratica l'esclusiva sessuale - la pone di fronte alla realtà di un'esistenza trascorsa accettando 'doni' e concedendo altrettante brevi 'esclusive'. Se la donna hindu che ha avuto rapporti con altro uomo è jūthan (avanzo di cibo, contaminato e contaminante), per la tradizione musulmana ogni rapporto sessuale al di fuori del matrimonio o del concubinato è riprovevole, è zinā (fornicazione), è "turpitudine e via del male" (Corano: XVII, 34). Certo l'islam prevede il matrimonio per vedove e divorziate, ma la sposa che non rientra in queste due categorie dovrebbe essere vergine e non esposta allo sguardo di estranei. La tava'if (cortigiana) - dice amaramente Sāhabjān a una compagna - è invece una donna la cui anima è morta e il corpo rimane vivo, un cadavere imbellettato, adagiato nella tomba variopinta del kothā, cimitero dello spirito: una tomba lasciata scoperta ed esposta allo sguardo di tutti. Mentre, infatti, l'eroe cinematografico può avere una temporanea caduta nel 'male' per poi riscattarsi ed essere riammesso nei ranghi del 'bene', per la controparte femminile la strada ha in genere un'unica direzione, anche se la 'caduta' avviene per motivi drammatici e non dipendenti dalla sua volontà.
Bibliografia |
Cecilia Cossio
liberamente adattato da L'amor profano ovvero la cortigiana nel cinema hindi
in Scarcia, G. (a cura di), 1999, Bipolarità imperfette, Cafoscarina, Venezia, pp.61-97