N. 13-14, 07/2010 - La violenza sugli inermi

Il numero doppio della rivista raccoglie gli interventi presentati al convegno internazionale “La violenza sugli inermi. La trasformazione dei conflitti dalla Grande guerra ad oggi”, organizzato dal Dipartimento di Studi storici e dalla rivista DEP a Venezia il 22 maggio 2009.

Mentre la prima sezione ricostruisce il cambiamento della natura della guerra nel corso del Novecento e l’impatto della violenza bellica sui civili attraverso una serie di casi di studio, la seconda sezione, partendo dalle riflessioni di Simone Weil e Karl Polany sulla guerra civile spagnola, delinea la natura ideologica delle guerre, il dispiegarsi della “cultura della forza” e il carattere asimmetrico dei conflitti più recenti, condotti all’insegna dell’intervento umanitario o della guerra al terrore.

Numero completo

Contributi singoli

file pdfIntroduzione
di Bruna Bianchi, Michele Cangiani, Francesca Coin
217 K

Ricerche

I casi

file pdfBruna Bianchi, L'arma della fame. Il blocco navale e le sue conseguenze sui civili (1915-1919)
Il saggio affronta il tema del blocco navale attuato dalla Gran Bretagna nel corso del Primo conflitto mondiale, una strategia che causò migliaia di decessi per fame in Germania, in Austria e nei territori occupati. Tuttavia, molti furono coloro – in particolare le pacifiste britanniche – che considerarono il blocco un crimine contro l’umanità e un crimine di stato e che posero al centro del proprio impegno politico la sua condanna.
680 K
file pdfClaudia Baldoli, I bombardamenti sull’Italia nella Seconda guerra mondiale.
Il saggio analizza le incursioni aeree sull’Italia tra il 1940 e il 1945 dal punto di vista degli aggressori. Gli obiettivi dei bombardamenti erano le strutture industriali e i trasporti, ma ci si attendeva anche che le incursioni avrebbero avuto conseguenze importanti sul morale della popolazione. La reazione dei civili, infatti, fu oggetto della valutazione attenta da parte degli Alleati che decisero di bombardare i quartieri vicini alle zone industriali.
404 K
file pdfPaolo Giovannini, Psichiatria e popolazione civile nel secondo conflitto mondiale
Il secondo conflitto mondiale investì i civili in maniera violenta e pervasiva. Essi dovettero affrontare i bombardamenti, lo sfollamento, la fame, le sistematiche violenze che segnarono il periodo della “guerra civile” e dell’occupazione tedesca. Questi aspetti della guerra che non potevano non avere gravi e profonde ripercussioni a livello di salute psichica e nervosa, aprendo alla scienza psichiatrica un campo d’osservazione e di pratica clinica in parte nuovo.
438 K
file pdfGianni Dore, La parabola delle donne guerrigliere smobilitate in Eritrea
Il saggio tratta delle donne guerrigliere che presero parte alla lotta di liberazione contro il regime Dergue in Etiopia. Le loro biografie ci consentono di ricostruire il processo di apprendimento del combattere, le esperienze che in parte mutarono i tradizionali rapporti di subordinazione e il modo in cui esse oggi ricordano quel periodo della loro vita.
433 K
file pdfKathryn Farr, Sexual Violence against Women and Girls in Central and Eastern African Armed Conflicts
Il saggio affronta il tema degli stupri di guerra attraverso l’analisi dei conflitti armati in corso nella Repubblica democratica del Congo e in altri paesi dell’Africa centrale e orientale. Questi conflitti, infatti, sono significativi esempi delle condizioni che nelle guerre contemporanee provocano e acuiscono la violenza alle donne.
1.24 M
file pdfOsamu Nishitani, “War on Terror”: les implications d’un terme pervers
Nel mondo dei mezzi di comunicazione di massa globali, la guerra comincia con il linguaggio. L’espressione War on Terror è un caso esemplare. In questo tipo di guerra ci sono due tipi di vittime: da una parte, quelle chiamate “danni collaterali” delle quali non ci si preoccupa neppure di contare il numero; dall’altra parte, i cittadini accecati dei paesi “civili”, i quali affidano i loro diritti a un’autorità che brandisce la minaccia del Terrore.
294 K
file pdfFrancesca Coin, Combattendo (nel)l’esercito: la lunga lotta dei veterani americani
Sulla base delle deposizioni e delle interviste dei reduci raccolte nell’ambito della Winter Soldier Investigation il saggio traccia un quadro delle conseguenze della guerra in Iraq sulla popolazione civile, sui soldati e sulle loro famiglie. Il saggio inoltre discute il significato di Post-Traumatic Stress disorder e affronta il tema dell’alto tasso di suicidi tra i reduci.
652 K
file pdfRaya Cohen, Israele: la difesa del corpo della nazione
Nel gennaio 2009 furono pubblicate in Israele – e ben presto si diffusero in tutto il mondo – le immagini che i soldati israeliani impressero sulle proprie magliette e che ritraevano donne e bambini palestinesi usati come bersagli. Il saggio ricostruisce l’intenso e breve dibattito che la questione sollevò in Israele e si interroga sulle ragioni della pubblicazione delle immagini nel periodo immediatamente successivo all’attacco della striscia di Gaza.
417 K
file pdfAlessandra Annoni, L’applicazione del regime giuridico dell’occupazione nei Territori occupati
Dopo una breve ricostruzione dei principi fondamentali del diritto di occupazione, il saggio analizza le obiezioni normalmente sollevate per negare l’applicazione di un tale regime giuridico in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e che minacciano di compromettere il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione.
422 K

La riflessione

file pdfAdriana Lotto, Dal diario di Käthe Kollwitz 1914-1922
Sulla base del diario e della corrispondenza di Käthe Kollwitz, il saggio ricostruisce il mutamento delle convinzioni dell’artista sulla guerra. Di fronte alla morte al fronte di tanti giovani così come delle donne, dei bambini e degli anziani all’interno del paese a causa della fame, Kollwitz divenne consapevole che la guerra è solo morte. Per il resto della vita ne rappresentò le sofferenze attraverso l’arte.
321 K
file pdfDomenico Canciani, Pensare la forza. Simone Weil dalla guerra di Spagna alla Resistenza
Nella vicenda di Simone Weil pensiero e azione non sono mai disgiunti, ma procedono di pari passo. Questa dialettica tra impegno e riflessione appare esemplare nella sua breve partecipazione alla guerra di Spagna e poi soprattutto nel suo coinvolgimento durante la Resistenza. Nell’articolo si prendono in considerazione questi due momenti allo scopo di ricostruire l’emergere della nozione di forza nel pensiero dell’autrice.
176 K
file pdfMichele Cangiani, Democrazia o guerra
Le guerre che si sono succedute nell’ultimo ventennio richiedono una riflessione sulle loro cause e sulle loro caratteristiche. Il saggio, sulla base della convinzione che le guerre siano istituzioni congruenti con una determinata organizzazione sociale e un determinato periodo storico, solleva alcune questioni sulla trasformazione delle istituzioni della nostra società nel XX secolo. A questo scopo il saggio prende in considerazione le riflessioni di Karl Polanyi.
417 K
file pdfLauso Zagato, La protezione dei civili nei conflitti armati
Il saggio si apre con la presentazione del quadro delle fonti di diritto umanitario rilevanti ai fini del trattamento della popolazione civile in occasione dei conflitti armati. Si sofferma poi sui problemi che l’attuale ripresa dei conflitti asimmetrici pone allo sviluppo del diritto internazionale umanitario e da ultimo, prende in esame i recenti contributi di due Corti regionali: la Corte Europea e la Corte interamericana dei diritti dell’uomo.
257 K

Documenti

file pdfLondra, 1943. La propaganda pacifista contro i bombardamenti di massa
B. Bianchi. Gli opuscoli che proponiamo in tradizione italiana, Cosa è accaduto ad Amburgo e “Bombarda, brucia e distruggi senza pietà”, furono pubblicati a Londra nel 1943 dal Comitato per la limitazione dei bombardamenti, sorto nel 1942. Questi scritti di propaganda avevano lo scopo di documentare le conseguenze sulla popolazione civile dei bombardamenti sulla Germania e di chiedere al governo di porre fine ai bombardamenti delle città.
278 K
file pdfThe Siege of Sarajevo (Women in Black – Belgrade)
Le pagine che seguono, dedicate all’assedio di Sarajevo, fanno parte del volume Women’s Side of War, pubblicato in lingua inglese a Belgrado nel 2008 (e in lingua serbo-croata nel 1997 col titolo Ženska strana rata) a cura dell’ associazione pacifista Donne in nero di Belgrado. Il volume è una raccolta di testimonianze femminili sulle esperienze vissute durante la guerra.
607 K
file pdfIl rapporto Goldstone: l’accertamento dei fatti relativi al conflitto di Gaza
L. Salvadego. Nelle pagine che seguono proponiamo in traduzione italiana le parti cruciali del Rapporto Goldstone (Report of the United Nations Fact Finding Mission on the Gaza Conflict). Il capo della Missione, Richard Goldstone, presentò il suo rapporto al Consiglio per i diritti umani a Ginevra il 29 settembre 2009 sollecitandolo a porre fine all’impunità per le violazioni del diritto internazionale in Israele e nei Territori occupati.
627 K

Interviste

Strumenti di ricerca

Recensioni

Gallerie fotografiche

Territori molto occupati

Foto di A. Balzan - Didascalie di A. Carraro
Nel 2008 abbiamo avuto la fortuna di partecipare ad un viaggio organizzato da Pax Christi in Israele e Palestina. Lo scopo era raccogliere testimonianze, documenti, foto che raccontassero ciò che sta succedendo oggi in queste terre. Vi proponiamo qui le immagini raccolte.

I palestinesi, per indicare il 1948, si servono del  termine Nakba (Catastrofe). A seguito della decisione, presa nel marzo dello stesso anno, di sradicare sistematicamente i palestinesi da quelle aree, furono distrutti 541 villaggi, 11 cittadine, 20 quartieri arabi in città a popolazione mista (come Tiberiade ed Haifa). 750.000 palestinesi, l’80 % dei residenti della Palestina storica, diventarono profughi. Le foto 1 e 2 rappresentano, in un macabro prima/dopo, che cosa è rimasto di un villaggio nei pressi di Nazareth dopo la Nakba. Oggi i profughi palestinesi sono quattro milioni. Hanno scarsissima libertà di movimento come si deduce dalla foto 3 laddove, a destra, la bellissima strada asfaltata per Ramallah è solo per auto con targa israeliana (per israeliani, “internazionali” o per qualche palestinese che ha ottenuto uno speciale permesso); a sinistra, invece, si vede la “strada palestinese”, ovvero quella che possono percorrere i palestinesi. È una strada sassosa, tortuosa e, soprattutto, bloccata da rocce, che formano un road block. Sono state collocate dall’esercito israeliano per impedire il passaggio dei palestinesi anche nelle strade loro riservate dalle politiche israeliane di apartheid che impongono che il sistema infrastrutturale nei TOp sia un sistema diviso per appartenenza nazionale, dove agli israeliani spettano le condizioni di movimento migliori, mentre ai palestinesi, molto spesso, non spetta neppure il movimento.Un altro dei dispositivi di apartheid nei TOp è il Muro. Il Muro è sia opera coloniale, che ha lo scopo di rendere irreparabile l’annessione al territorio israeliano del 46% della superficie territoriale cisgiordana con le sue terre più fertili e le risorse d’acqua più abbondanti, sia opera di apartheid, nel senso che esso divide in modo quasi definitivo gli israeliani dai palestinesi.

Il Muro rende spesso inaccessibili, per interi quartieri e villaggi palestinesi, servizi quali la scuola, gli ospedali, o i luoghi di lavoro. Esso, come mostra la prima foto, non è composto di lastroni di cemento armato lungo tutto il suo percorso, ma, in alcuni punti del tracciato, è costituito di reti elettrificate, fil di ferro e trincee. Nel villaggio di Aboud è visibilissimo l’aspetto coloniale di quest’opera: il tracciato, infatti, ha privato il villaggio di buona parte delle sue terre sulle quali si coltivavano soprattutto ulivi.  
Per entrare a Nablus bisogna attraversare il Check point di Huwwara. Dall’altra parte della rete, uomini e donne palestinesi fanno la fila per uscire da Nablus. L’entrata a Nablus è semplice se si è a piedi. È sufficiente passare un tornello non sorvegliato (che ovviamente camion, ambulanze, taxi, automobili non riescono a passare). Si può passare in auto, se palestinesi, solo se in possesso di permessi complicati da ottenere. All’uscita, invece, chiunque deve sottostare ai controlli dei soldati. La foto 7 ritrae uno degli ultimi tornelli di uscita. Prima di questo i soldati hanno controllato i documenti, hanno perquisito ciascuno e passato il metal-detector su ciascun bagaglio. I palestinesi possono stare in fila anche per ore e vedersi negare il permesso di uscire dalla città.

Ancora un check point. Esso si trova all’entrata del campo profughi di Shu’fat, vicinissimo alla città vecchia di Gerusalemme est. Si tratta di un check point semi-mobile. È incredibile la coda di auto che attende di entrare nel campo profughi. Il check point semi-mobile si sta in verità trasformando in check point fisso. Tutto fa parte della politica israeliana di colonizzazione di Gerusalemme. Gerusalemme è, infatti, uno dei più concreti punti di contatto tra israeliani e palestinesi, o meglio un punto di frattura, e molto spesso un fronte nelle politiche di occupazione israeliane, anche se la costruzione del Muro, le politiche di occupazione, colonizzazione e dearabizzazione di Gerusalemme sono un paradigma di ciò che accade in tutta la Cisgiordania. In pieno quartiere palestinese, a Gerusalemme Est, spicca il candelabro ebraico e la bandiera israeliana sulla casa di proprietà di Sharon, simboli a sostegno delle politiche di occupazione, colonizzazione e dearabizzazione di Gerusalemme Est. Politiche che continuano imperterrite e impunite dal 1967.
Al piano terra degli edifici si trova il Suq, al primo piano coloni israeliani. Mentre coloni israeliani occupano le case dei palestinesi, i palestinesi sono costretti in abitazioni estremamente povere e in cattivo stato, poco arieggiate e umide. La media di persone per stanza  risulta essere di 2,45.

Ancora posti di blocco. Ad At-Tuwani quel giorno stavano festeggiando la fine dei centri estivi per i bambini. Il villaggio è posto nelle vicinanze di una colonia e in area C (quindi sotto la giurisdizione civile e militare israeliana). Così anche una normale festa per bambini diventa un pericolo per la giurisdizione militare. Abbiamo tentato, infatti, quel giorno, di raggiungere il villaggio per partecipare alla festa. I soldati israeliani non ce l’hanno permesso. La strada palestinese è stata bloccata da un road block, come si vede nella foto. Decidiamo di raggiungere il villaggio a piedi, attraversiamo le rocce e ci troviamo di fronte a un check point mobile, mentre la zona di At-Tuwani era stata dichiarata zona militare fino all’ora della fine della festa dei bambini (tre del pomeriggio). Per Israele una festa per bambini palestinesi è una minaccia grave alla sicurezza, e così tutta la zona di At-Tuwani diventa irraggiungibile. Non abbiamo forzato. Ci siamo riparati dal sole cocente sotto gli ulivi e abbiamo aspettato. Alla fine, mancava solo mezz’ora allo scadere del divieto di entrata nella zona di At-Tuwani, ci siamo mossi. Abbiamo raggiunto il giardino di ulivi in fondo al sentiero, e poi, nascosti tra gli alberi, ci siamo divisi a piccoli gruppi e ci siamo incamminati (dieci minuti di strada a piedi; grazie all’intervento dei soldati ci abbiamo messo tre ore) verso At-Tuwani.

Ad At-Tuwani ci aspettava il pane e la sua bella gente. “At-Tuwani è un villaggio di 150 abitanti, adagiato nelle South Hebron Hills, ultime terre fertili palestinesi prima dei deserti del Negev e di Giuda, occupate da quattro colonie israeliane, da quattro avamposti e dall’area di esercitazione militare n. 918. […] At-Tuwani è il più grosso dei dieci villaggi palestinesi qui intorno, che insieme contano una popolazione di circa 1000 abitanti […]; Qui i palestinesi coltivano olive, frutta (soprattutto mandorle e fichi), grano e legumi, pascolano capre, pecore e talvolta cammelli. Tutto avviene però sotto un’occupazione militare che strangola i contadini e impedisce anche una minima economia di sussistenza consona ai bisogni, ai ritmi e ai costumi della popolazione locale. […]  Quando Israele nel ‘67 ha occupato questa terra, ha definito molte colline “terra di nessuno” e successivamente le ha requisite, trasformandole in terra di Stato. Dello Stato occupante però. Sulle colline di fronte ad At-Tuwani, come su altre decine di colline palestinesi, Israele ha permesso che venissero costruiti degli avamposti, poi delle vere e proprie colonie, collegate da by-pass road. […] Gli abitanti di questi villaggi non possono migliorare le loro infrastrutture perché, come in gran parte dei Territori Occupati  […], non viene concesso loro il permesso di costruire strade, case, scuole o moschee, o scavare pozzi. Non possono irrigare a sufficienza i loro campi, perché l’acqua scarseggia  e perché, come in tante altre località, è colonizzata dai coloni.”(N. CAPOVILLA–B. TUSSET, Bocche scucite. Voci dai Territori Occupati, Paoline, Milano 2007, pp. 81-83). 

Ad At-Tuwani, “ogni volta che gli abitanti del villaggio cercano di migliorare la qualità della loro vita e di dotare la comunità di qualche servizio, il governo israeliano interviene bloccando qualsiasi iniziativa.” (N. CAPOVILLA–B. TUSSET, op. cit., p.83). 
La scuola di tutti i villaggi della zona è ad At-Tuwani e i bambini devono percorrere una stradina che passa proprio sotto la colonia per arrivarci. Spesso i coloni hanno aggredito, minacciato, picchiato i bambini, nonostante la scorta militare loro concessa recentemente dalle IDF (Forze di Difesa Israeliane). Nella foto 21 : una colonia israeliana nei pressi di At-Tuwani. Nella successiva si vede un avamposto israeliano, ovvero il primo passo per la costruzione di una colonia israeliana in Cisgiordania. I coloni, infatti, si stabiliscono nei Territori Occupati con roulotte e containers per poi incominciare a costruire in modo definitivo.I coloni nazional-religiosi di Gush Emunim, dopo l’occupazione israeliana della Cisgiordania, sono arrivati ad Hebron (Al-Khalil in arabo). Oggi ad Hebron non ci sono solo due colonie alle porte della città, composte di settemila coloni, ma anche un avamposto all’interno della città vecchia, tra le case dei palestinesi. I coloni bruciano e rapinano i negozi palestinesi, lanciano pietre, spazzatura e olio bollente addosso ai palestinesi dai piani superiori delle loro case (i palestinesi cercano di arginare il problema collocando delle reti di protezione, come si vede dalla foto), aggrediscono uomini, donne e bambini. L’esercito non interviene se non per proteggere i coloni e, quando i palestinesi si ribellano, usano le maniere forti.

La terra dove sorgono questi moderni palazzi, abitati per lo più da ebrei russi, era terra palestinese. Dal 1948 Israele colonizza la terra dei palestinesi, anche di quelli che sono riusciti a rimanere in Israele in seguito alla Nakba (oggi i palestinesi in Israele sono circa il 20% della popolazione); l’intento è quello di controllare le due questioni più importanti per la riuscita del progetto sionista: il mercato del lavoro e la terra. Nazareth Illit è la Nazareth ebrea, che sovrasta dall’alto la Nazareth araba-palestinese. È molto significativa la posizione di Nazareth Illit rispetto a quella araba, simbolo della situazione di apartheid in cui i palestinesi in Israele vivono.Essi sono circa un milione e sono stati concentrati fin dal ‘48 in tre zone di Israele: la Galilea, il “Triangolo” e il Negev. I villaggi palestinesi al di fuori di queste tre zone geografiche non hanno il permesso di restare, né di espandersi. E così il villaggio è costituito da baracche abusive, che possono essere demolite da un giorno all’altro, privo di servizi, di possibilità di lavoro, di investimenti esterni. Chi ne paga le conseguenze? Senz’altro i bambini. Non hanno asili, né scuole, né dottori. Le difficoltà che i palestinesi in Israele incontrano nella vita quotidiana in Israele riflettono la “questione demografica” (ovvero il desiderio dell’establishment israeliano di avere il minor numero possibile di palestinesi residenti in Israele e di concentrarli in ben determinate zone decise dallo stesso establishment). Questa foto è potentemente simbolica proprio di questo. Questo cartello indica la presenza di un cimitero, “dimenticando” che proprio a fianco del cimitero esiste anche un villaggio palestinese.

Visitare il cimitero di Balata Camp, uno dei campi profughi di Nablus (il più grande in Cisgiordania), è  stata una delle esperienze più sconvolgenti del viaggio. Una foto ne rappresenta l’entrata, sovrastata da poster raffiguranti le immagini oramai scolorite di nuovi o vecchi Martiri. I palestinesi considerano Martire qualsiasi uomo, donna o bambino ucciso dagli israeliani, che sia combattente o civile. Ogni Martire ha “diritto” ad una lapide dai colori bianco/verde/rosso/nero, i colori della bandiera palestinese. Se si entra nel cimitero di Balata, si rimane colpiti dalla quantità di lapidi che hanno i colori della Palestina. “Tra le mura tappezzate di manifesti con le foto dei morti ammazzati, membri della resistenza con mitra in mano […]o bambini dal volto spento[…] gli isolati sventrati dagli Apache[…] “ (G. SOLERA, Muri, lacrime e za’ tar. Storie di vita e voci dalla Palestina, Nuovadimensione, Portogruaro 2007, p. 52).

[…]la fabbrica di sapone e i bagni turchi demoliti dai bulldozer, che frantumano pietre secolari come noccioline americane”.
Nablus è stretta in una valle e i suoi duecentomila abitanti si stringono per colpa delle colline, ma soprattutto per colpa dell’assedio israeliano a cui è costretta fin dall’inizio della seconda Intifada (tre posti di blocco permanenti strangolano l’economia della città). Esiste un accordo tra l’Anp e Israele. Ogni notte, a mezzanotte, i poliziotti e le forze di difesa palestinesi devono lasciare la città (in area A, quindi, in teoria, totalmente sotto il controllo palestinese) per lasciare libero il passaggio ai soldati israeliani che scendono dalle due basi militari che sovrastano la città, che sparano, sequestrano, giustiziano, demoliscono, danneggiano. Nel conflitto visto dalla parte palestinese, la maggior parte degli israelo-ebrei giocano il ruolo o di soldati o di coloni. La maggior parte dei palestinesi ha a che fare solo con queste figure di israelo-ebrei. D’altra parte non potrebbe essere che così, viste le infrastrutture divise per appartenenza nazionale, visti i divieti per gli israelo-ebrei di entrare in aree A (se non come soldati o come coloni), vista la potente propaganda di demonizzazione dei palestinesi a cui Israele è sottoposta. Chi ne paga le conseguenze? Sicuramente anche buona parte dei cittadini israeliani.

Il conflitto coloniale contro i palestinesi sta di fatto erodendo la qualità della vita degli israeliani (insieme a tutte le politiche di privatizzazione che hanno coinvolto Israele da metà anni ‘80). Che fare, allora? Bello è il graffito sul Muro. “Voglio indietro la mia palla!” recita la scritta. Che cos’è la palla per i palestinesi?  Rivendicare la “mia palla” è rivendicare molto di più che una proprietà: è rivendicare il diritto al gioco, alla bellezza, alla speranza, che la tua recinzione non può togliermi. La Palestina è fatta anche di resistenze intense, a tratti violente e disperate, ma soprattutto di piccole, grandi resistenze, come questo graffito, come coltivare i campi nonostante i coloni lo impediscano, come costruire scuole o cliniche nonostante le autorità israeliane non lo permettano, come sposarsi e fare all’amore, anche se stretti in un campo profughi, come recuperare l’arte palestinese, come vestirsi nel modo antico e colorato, come cantare per un ospite italiano le vecchie canzoni ed offrirgli amicizia. Contro la disumanizzazione dell’occupazione ogni azione umana qui ha il sapore della resistenza. Visitiamo l’Ajeec, associazione di beduini palestinesi in Israele, nel Negev. Il suo obiettivo è l’empowerment della minoranza palestinese in Israele,  e vi scopriamo un gruppo di giovani donne beduine dalla forza straordinaria, consapevoli che molto dipenderà da loro per liberarsi dall’apartheid a cui sono state costrette.. Incontriamo in un check point una ragazza israeliana di un’organizzazione, Machsom Watch, che si occupa di aiutare i palestinesi a passare i posti di blocco e di monitorare il comportamento dei soldati.

E chi si sarebbe aspettato di trovare a Nablus, la città della resistenza, una delle città palestinesi che più sta pagando il prezzo della seconda Intifada, questo ballo di ragazze? Tra l’altro, al contrario delle immagini con cui i media tenderebbero a descrivere la Palestina, queste ragazze non hanno veli. Non ho nulla contro i veli, sia chiaro. Ma la Palestina, come ogni cosa composta di uomini e donne, è molto più complicata e ricca di quanto ci vorrebbero far credere. Nablus è famosa per le fabbriche di sapone; ed è bello visitare Nablus e lasciare che i tuoi ospiti ti accompagnino sì a vedere i poster dei martiri, sì a vedere le case abbattute o i crateri delle bombe o il cimitero di Balata, ma anche le fabbriche di sapone che in qualche modo continuano a funzionare, nonostante l’assedio (con molta molta fatica), o i laboratori di dolciumi, o il Suq, strapieno, perché è giorno di paga e a Nablus erano tre mesi che non si riceveva lo stipendio. E noi? A noi spetta il compito, probabilmente, di recuperare la consapevolezza che la Storia appartiene alle Vittime, proprio perché non sono tali.

Last update: 14/02/2024