L’India nel 21esimo secolo: secolarismo al capolinea?

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Le origini dei disordini di Delhi, definiti dalla stampa come i più violenti dall’assassinio di Indira Gandhi (1984), affondano le radici nella crescente politicizzazione dei rapporti fra hindu e musulmani, le due principali comunità religiose del Subcontinente. In particolare il nuovo Citizenship Amendment Bill, la legge sulla cittadinanza approvata dal Parlamento indiano nel dicembre scorso, esclude decine di migliaia di rifugiati musulmani che da tempo vivono in India dal diritto di cittadinanza e sancisce una discriminazione in base all’appartenenza religiosa, in aperta contraddizione con i principi della Costituzione. A questa controversa legge si aggiungano altri importanti provvedimenti discriminatori messi in atto nei mesi passati dal premier Narendra Modi.

Ma cosa sta succedendo esattamente a Nuova Delhi? Sono dunque in pericolo i principi secolari della ‘più grande democrazia del mondo’? Ce lo spiega il professor Thomas Dahnhardt, docente di lingue Hindi e Urdu al dipartimento di Studi sull'Asia e sull'Africa Mediterranea di Ca' Foscari.


"Anche se da qualche giorno sembra essere tornata un’apparente calma nella capitale Nuova Delhi, i violenti disordini che hanno colpito alcune zone della città nei giorni fra il 24 e il 28 febbraio hanno lasciato il loro segno. O forse meglio dire, fanno dolorosamente il punto di una situazione sempre più grave, senza via di ritorno per l’India.
Non soltanto per i 42 morti e più di 200 feriti appartenenti a entrambe le comunità, hindu e musulmana; per le devastazioni di case, negozi, veicoli e luoghi di preghiera nei quartieri popolari di Ashok Nagar, Bhajanpura, Chand Bagh, Jafrabad e Maujpur, nella parte nord-occidentale della città da parte di una folla inferocita; oppure per l’invio di 7000 unità paramilitari in zone della stessa capitale federale non troppo distante dalle sedi delle istituzioni governative della più popolosa democrazia del mondo, a seguito del fallimento delle forze di polizia locali di controllare la situazione.

È possibile che lo scoppio della violenza proprio nei giorni della visita di stato del Presidente americano Donald Trump non sia una mera coincidenza, scaturita da un tentativo di captare l’attenzione mondiale del momento. Ma dietro a queste improvvise manifestazioni di intolleranza vi è ben altro!

Sebbene l’India non sia aliena a questo tipo di modalità per scaricare le occasionali tensioni fra diversi gruppi sociali, etnici e religiosi (che in Sudasia assume spesso specifiche connotazioni castali assai complesse, difficili da comprendere per chi ne è estraneo), gli scontri violenti fra hindu e musulmani della settimana scorsa sono sintomo di una tensione che lacera e minaccia alle basi la coesione sociale di una nazione in cui se non la secolare convivenza e una cultura comune era la Costituzione, in vigore dal 26 gennaio del 1950, a garantire uguali diritti per tutti i cittadini indiani, indipendente dalla loro specifica identità sociale e appartenenza religiosa.

Ed è proprio qui che sta il problema cruciale che rischia di creare delle fenditure molto più facili da creare che da risanare. Le origini dei disordini di Delhi (ma in misura minore presenti da alcuni mesi anche in altre parti del paese) sono da ricercarsi nella crescente politicizzazione dei rapporti fra le due principali comunità religiose e nella contemporanea insicurezza che contraddistingue un ampio segmento della società indiana in questi tempi, in primis la consistente minoranza di musulmani (secondo il censimento del 2011 si tratta di 172.2 milioni di individui, il 14.2% della popolazione).

Con il varo del Citizenship Amendment Bill (CAB) in entrambe le camere del Parlamento a metà dicembre dell’anno scorso, atto ad ammendare una pre-esistente legge che impediva a tutti gli immigrati clandestini di acquisire la cittadinanza indiana, il governo apparentemente garantisce ai rifugiati dalle circondanti nazioni dell’Afghanistan, del Bangladesh e del Pakistan appartenenti alle minoranze religiose cristiane, buddhiste, hindu, jaina e sikh, di diventare cittadini indiani naturalizzati se possono provare di aver vissuto e lavorato per almeno 6 anni nel paese.

La legge così ammendata pertanto esclude decine di migliaia di rifugiati musulmani che da tempo vivono in India dal diritto di cittadinanza e in principio sancisce una discriminazione in base all’appartenenza religiosa, in aperta contraddizione con i principi della Costituzione. L’istituzionalizzazione della sovversione del diritto di cittadinanza a individui di fede musulmana (come i Rohingya, un gruppo etnico espulso dal Myanmar proprio in difetto del suo non essere buddhista, cioè musulmano) costituisce una novità per l’India e rompe con una tradizione di rispetto ed accoglienza molto più antica della sua Costituzione e crea un pericoloso precedente. Il pericolo denunciato da molti musulmani in India, intellettuali e non, è quello di mettere in serio dubbio i principi secolari di questa nazione così contribuendo a creare un’atmosfera di discriminazione e di paura unicamente in base all’appartenenza religiosa.

A questa controversa nuova legge si aggiungano altre decisioni prese a seguito delle elezioni del Maggio 2019, in cui il governo del BJP di Narendra Modi riuscì a vincere una schiacciante vittoria elettorale che gli permette di governare senza dover scendere a compromesso con altre formazioni politiche. In agosto 2019 la revoca dello status speciale di autonomia dello stato federale del Jammu & Kashmir, regione da secoli contraddistinta da una forte presenza di musulmani e regione dal 1947 ad oggi conteso fra India e Pakistan, a un territorio governato direttamente da Delhi. E la decisione della Corte Suprema di permettere la costruzione di un tempio hindu sul sito disputato della Rām Janmbhūmī (il leggendario luogo di nascita del dio-eroe Ramcandra) ad Ayodhya, nella parte centro-orientale della pianura gangetica, Babri Masjid demolita da attivisti pro-hindu nel 1992 e da allora oggetto di una disputa legale perdurata per decenni.

Diventa quindi palese che, secondo le parole dello storico e saggista politico Mukul Kesavan, docente di Social History presso la rinomata università Jamiya Milliya Islamiya di Delhi, questa concertata azione costituisce una ‘minaccia esistenziale sia al diritto di cittadinanza per i musulmani sia alla pretesa oramai logora dell’India di essere uno stato secolare e pluralista’. (The Guardian, 26 Febbraio 2020)

Nonostante questi segnali infausti, per molti indiani reminiscenti dello spirito di reciproca comprensione e convivenza che per secoli aveva caratterizzato questa millenaria cultura, rimane la speranza che possano prevalere le forze dell’intelletto e del buon senso. A livello politico, è possibile che il sistema democratico indiano, che concede una buona misura di autonomia agli stati federali dell’Unione, sia in grado di reggere e frenare le tendenze monopolistiche sotto lo stendardo di quello che nel Subcontinente è descritto con il termine 'comunalism', ovvero il favoreggiamento di una comunità (religiosa) a esclusione di altre. La recente sconfitta del governo al potere nelle elezioni amministrative proprio a Delhi per mano del carismatico Arvind Kejrival, leader del Aam Aadmi Party (Partito dell’Uomo comune), un partito politico secolare nato dal movimento anti-corruzione guidato fra gli anni 2011 e 2012 dall’attivista Anna Hazare, lasciano pensare che l’unificazione del pensiero sociale e politico in nome del principio di esclusione non costituisca il testo di una regia già scritta.

Federica SCOTELLARO