A cura di VSM Alumni, aprile 2025
Andrea Zanon è un giovane imprenditore veneziano che ha già lasciato il segno nel panorama dell’innovazione. Co-fondatore di Prospinity, una startup fintech basata nella Silicon Valley che ha recentemente chiuso un round di investimento da 2 milioni di dollari, Andrea ha costruito un percorso accademico e professionale d’eccellenza. Valedictorian del corso di Economia e Management a Venezia, ha proseguito la sua formazione in istituzioni prestigiose come l’Università di San Gallo e la Chicago Booth School of Business, arricchendola con esperienze in aziende globali come Google. Parallelamente, ha fondato un canale YouTube con oltre 16.000 iscritti e la piattaforma Polo, dedicata all’orientamento di carriera per studenti universitari. In questa intervista, Andrea racconta la genesi di Prospinity, il suo approccio all’imprenditorialità e il ruolo cruciale che l’università può giocare nel coltivare il talento e la visione delle nuove generazioni.
Andrea, com’è nata l’idea di Prospinity e quando hai capito che poteva trasformarsi in una vera startup?
L’idea di Prospinity nasce da un patto informale tra Sam e Aarya, due dei miei co-fondatori, quando condividevano la stanza a Yale. Una sera, parlando del loro futuro, Aarya guarda Sam e gli dice: “Se un giorno farò un miliardo di dollari, ti darò il 10%. E se tu lo farai, farai lo stesso con me. Così basta che uno dei due ce la faccia.”
Da lì è nata l’intuizione: estendere quel patto ad altri studenti di talento, creando un modo per investire nel capitale umano delle persone in cui credi. È a quel punto che sono entrato anch’io, e abbiamo iniziato a costruire qualcosa di più strutturato.
Ci siamo presto resi conto che il concetto aveva fondamenta economiche solide. La carriera è probabilmente l’asset più importante che ciascuno di noi possiede, ma non esiste un modo per diversificarlo. In un’epoca in cui l’incertezza nel mondo del lavoro è crescente – complice anche
l’avanzata dell’intelligenza artificiale – scommettere sul successo collettivo di un gruppo selezionato di persone ha un senso profondo, sia umano che strategico.
I primi a cui abbiamo parlato dell’idea sono stati alcuni professori di grande prestigio, tra cui il recente premio Nobel Daron Acemoglu e Steven Levitt. Sono stati i nostri primi advisor. Poi è arrivato il primo investimento: $100.000 da Patrick Chung, che ci ha permesso di costruire l’infrastruttura legale e tecnologica necessaria per formare i primi success pools.
Oggi, con un round da $2 milioni chiuso di recente, siamo pronti a portare Prospinity nelle migliori università d’America.
Cosa ti ha insegnato il tuo percorso di studi in Management a Venezia, e in che modo ha influenzato la tua esperienza imprenditoriale?
Come dissi nel mio discorso da valedictorian il giorno della laurea, credo che l’università sia come un grande buffet: ti mette a disposizione molteplice risorse ed esperienze, ma sei tu che devi andare a servirti e dipende unicamente da te quanto sazio sarai alla fine del percorso.
Il percorso in Management a Ca’ Foscari è andato ben oltre i confini del piano di studi. Mi ha permesso di vivere un’esperienza internazionale in una delle migliori business school al mondo, di partecipare attivamente alla vita universitaria, fino a fondare una mia associazione, e di affiancare
all’apprendimento in aula esperienze pratiche in azienda.
Questa ricchezza e varietà di stimoli mi ha aiutato prima di tutto a conoscermi meglio: ho potuto esplorare diverse strade, testarmi in contesti diversi e capire cosa mi appassiona davvero e in cosa riesco meglio. Ma soprattutto, è stato il contesto ideale per far emergere la mia vocazione imprenditoriale.
In un ambiente così dinamico e aperto, ho imparato a costruire progetti, a collaborare e a mettermi in gioco — tutte qualità che oggi porto con me ogni giorno come founder.
Prospinity ha attirato l’attenzione di media nazionali e internazionali. Quale è il motivo, secondo te, per cui la vostra idea sta generando così tanto interesse?
Con Prospinity non stiamo semplicemente cercando di entrare in un mercato esistente con un vantaggio di prezzo o una proposta di differenziazione. Stiamo creando un mercato completamente nuovo. L’idea di poter investire direttamente nelle persone ha sempre affascinato, ma fino ad oggi mancavano le condizioni giuste per realizzarla davvero. Alcuni modelli come gli ISA hanno fallito, spesso per limiti strutturali o di adverse selection bias. Noi arriviamo in un momento storico in cui l’incertezza sul futuro del lavoro, la concentrazione del talento in network pre-esistenti e i recenti progressi nel fintech rendono possibile ciò che prima non lo era: investire nel capitale umano come nuova asset class, grazie ai nostri success pools.
Guardando al tuo percorso, qual è stata finora la sfida più grande come giovane founder e come sei riuscito a superarla?
La sfida più grande è stata sicuramente riuscire a conciliare il percorso accademico con quello lavorativo. Ho avuto la fortuna di studiare in ottime università, ma allo stesso tempo sentivo il bisogno di mettermi alla prova anche sul campo, portando avanti progetti come un canale YouTube con oltre 16mila iscritti, una piattaforma digitale per l’orientamento di carriera e diversi stage in realtà molto formative tra cui quello in Google.
Non è stato sempre facile trovare un equilibrio, ma questo percorso parallelo mi ha permesso di finire gli studi con già un paio di “anni” di esperienza.
Credo che, soprattutto alla mia età, costruire una credibilità professionale richieda un impegno extra — e probabilmente senza questo sforzo oggi non avrei avuto l’opportunità di raccogliere investimenti importanti insieme ai miei soci e di costruire un’azienda in un contesto così competitivo come quello della Silicon Valley.
In base alla tua esperienza, in che modo le università potrebbero supportare meglio gli studenti che vogliono avviare un progetto imprenditoriale?
Gli studenti devono comprendere che fare impresa è una carriera a tutti gli effetti: richiede competenze specifiche, e prima si iniziano a sviluppare, meglio è. Il mondo del lavoro sta cambiando rapidamente, e anche il modo di fare azienda. A mio parere, percorsi tradizionali come dieci anni in consulenza o in grandi multinazionali non sono più necessariamente il primo passo ideale per chi vuole costruire qualcosa di proprio.
L’università dovrebbe presentare l’imprenditorialità come un’opzione concreta e accessibile, non come un’eccezione riservata a pochi. È importante normalizzare l’idea che chi intraprende questo percorso dovrà, con probabilità, ripartire più volte da zero. Ma lo farà per inseguire una soddisfazione e un impatto personale molto più profondi nel lungo termine.
Servono più role model: portare in aula persone che hanno seguito questo cammino, per mostrare agli studenti orme reali da seguire. Vivendo oggi nella Silicon Valley, ho la possibilità di osservare in anticipo i trend che ridisegneranno il nostro sistema economico nei prossimi anni. Stiamo
assistendo a una democratizzazione delle competenze: tecnologie sempre più accessibili permettono a un numero crescente di persone di costruire aziende con meno risorse, mentre le carriere tradizionali diventano sempre più incerte.
Le università devono preparare gli studenti a un mondo del lavoro radicalmente diverso: con meno dipendenti, aziende di dimensioni più contenute, più self-employed e cicli di vita imprenditoriali più brevi. Per farlo servono laboratori pratici, concreti, aggiornati con le tecnologie emergenti e nuove logiche di leggere i mercati. È fondamentale dare spazio per insegnare anche ai più giovani, spesso massimi esperti in nuovi settori nati da pochi anni ma in rapidissima evoluzione.
Che consiglio daresti oggi a uno studente o una studentessa di Management che sogna di fondare una startup?
Partite da ciò che vi appassiona davvero: individuate un campo in cui avete qualcosa da dire, qualcosa da cambiare, o in cui fareste le cose in modo diverso. Ma ancora prima di pensare al prodotto o al servizio, concentratevi sul costruire il vostro canale di distribuzione. Oggi, avere un’audience — che sia sui social, nella vostra università o nel vostro settore — è un asset fondamentale.
Costruite relazioni, partecipate ad eventi, lanciate progetti, fatevi conoscere. La tecnologia è sempre più accessibile e spesso non è più il vero vantaggio competitivo. Ciò che fa davvero la differenza è la vostra capacità di cogliere problemi nuovi e rilevanti, e di avere un modo per portare le vostre soluzioni alle persone giuste. In un mondo dove tutti possono costruire, vincerà chi saprà distribuire.
A valle di ciò è importante scegliere bene il contesto. Io penso che fare startup in Italia sia fattibile a patto che risolviate un problema prettamente italiano o il vostro prodotto/servizio abbia un vantaggio competitivo nell’essere Made in Italy. Il modello “americano” di fare startup non funziona sempre altrettanto bene altrove.