LeTs-Care: Italia e ‘best practice’ UE nell'assistenza a persone anziane

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Foto di CDC su Unsplash

Nel 2023 l’Unione Europea ha lanciato la ‘Care Strategy’, invitando i Paesi a raggiungere obiettivi comuni nel settore della cura di lunga durata (traduzione dell’inglese long-term care), che deve essere accessibile, di qualità – anche rispetto alle condizioni di lavoro, - equa e sostenibile.

Per cure di lunga durata si intendono le pratiche di cui necessitano le persone che non sono totalmente autosufficienti per periodi prolungati, come persone anziane o persone con malattie croniche o con disabilità. Non si tratta solo di cure di carattere sanitario, ma anche di una fitta rete di servizi, come l’aiuto nella cura personale, il sostegno nelle faccende quotidiane, l’accompagnamento e la vicinanza.

Durante la pandemia di Covid 19, sono emerse in maniera particolarmente evidente le carenze e gli squilibri territoriali in questo ambito, sia tra i Paesi dell'UE, sia - come nel caso italiano - all’interno degli stessi. Lo scenario attuale presenta in posizione privilegiata i Paesi del nord, dove gli investimenti pubblici sulla cura sono tradizionalmente importanti e in linea con gli obiettivi dell’Europa.

LeTs-Care è un progetto di ricerca comparata finanziato da Horizon Europe in ambito "Cultura, Creatività e società inclusiva". Avviato il 1° aprile 2024, punta a individuare e studiare soluzioni efficaci e replicabili nell’ambito della ‘long term care’. L’Università Ca’ Foscari Venezia è capofila del progetto, che coinvolge sette participant partner in Italia, Olanda, Spagna, Lituania, Danimarca, Portogallo, Austria, e Belgio. Per Ca’ Foscari è al lavoro un team di sociologi e sociologhe - Barbara Da Roit, Maurizio Busacca e Francesco Iannuzzi - esperti in welfare, pratiche di cura, lavoro e processi di innovazione. 

La Care strategy e l’investimento sociale

La Care strategy promossa dall’Unione Europea riprende le politiche di investimento sociale, nate alla fine degli anni ‘90 e inizio ‘00 sul modello dei Paesi del nord. La logica era quella di aumentare l’investimento pubblico, in particolare nei servizi per la prima infanzia, rendendoli accessibili e di buona qualità. L’idea di fondo consiste nel migliorare le condizioni sociali sia di chi offre i servizi, sia di chi ne usufruisce. Il sistema è sostenibile perché favorendo l’occupazione, soprattutto femminile, aumenta il benessere socioeconomico delle famiglie e le entrate contributive statali. 

Ma è una logica applicabile ‘tout court' a Paesi, come il nostro, dove il contesto sociale, economico e istituzionale è diverso? Ne abbiamo parlato con la prof.ssa Barbara Da Roit, docente di sociologia e coordinatrice di LeTs-Care:

“Questa strategia ha avuto maggiore successo dove ce n’era meno bisogno, nei Paesi nordici, mentre in altre realtà ha trovato ostacoli strutturali (come in Italia, ad esempio: Paese di grandi dimensioni, poco omogeneo, e con un sistema istituzionale e di gestione dei servizi molto frammentato tra Stato, Comuni e Regioni) ed economici - spiega la prof.ssa Da Roit. - La risposta dell'Italia è un caso emblematico: dagli anni 2000 sono cresciuti i servizi per la prima infanzia, ma soprattutto nel settore privato, dove, in assenza di ingenti finanziamenti pubblici, i servizi hanno tariffe elevate e sono accessibili a pochi, oppure hanno costi più contenuti grazie a personale mal retribuito e poco protetto e sono quindi di bassa qualità.

Buona parte delle politiche europee si fonda sul trasferimento di “best practice”. Nell’ambito della Care strategy, ad esempio, si studiano modelli di “cura integrata” da diffondere, che combinano risorse formali e informali, sociali e sanitarie. Ma l’esperienza dell’investimento sociale ci ha insegnato che non si può fare a meno di partire dalla situazione esistente, dalle risorse e capacità disponibili. In Olanda, ad esempio, esistono team interprofessionali di quartiere, che comprendono infermieri, assistenti domiciliari, persone che si occupano delle pulizie in casa e che interagiscono con i caregiver informali. Queste persone lavorano insieme, per offrire un servizio integrato. In Danimarca si sperimenta un sistema di ‘riabilitazione’ sociale, per favorire l’autonomia. Un esempio: se in una coppia di anziani viene a mancare la persona che si occupava di cucinare, si attiva un servizio specifico che non solo porta i pasti alla persona sola, ma le insegna a cucinare. In tutti questi casi si tratta di servizi pubblici o comunque con un elevato finanziamento pubblico. Allo stato attuale, da noi, una persona anziana viene curata soprattutto con risorse private: i familiari e le assistenti familiari, le cosiddette “badanti”. Ci sono poi figure che appartengono ai sistemi sanitario e sociale, ma che svolgono un ruolo complementare. Le politiche e gli interventi di “integrazione” applicati qui hanno un significato completamente diverso. Abbiamo in Italia molte sperimentazioni “integrate”, che però faticano ad estendersi, a fare massa critica e a consolidarsi”.

In Italia le ‘badanti’ sono un pilastro della ‘Long-term Care’. Come si inseriscono queste figure nella strategia europea?

“L’Italia è il paese Europeo dove il fenomeno delle ‘assistenti familiari’ (‘badanti’) è più diffuso in assoluto, con un numero stimato tra 800.000 e 1 milione. Sarebbero invece inaccettabili in Paesi dove la cura è considerata un’attività professionale. In Olanda, per esempio, chi non ha una formazione specifica, non parla la lingua, non ha una supervisione a garanzia della qualità e della sicurezza, non potrebbe prestare questo servizio. Si tratta di una logica profondamente diversa: l’assistente domiciliare che si occupa di una persona anziana in Olanda, deve prevedere tra le sue mansioni anche di preparare il tè e di chiacchierare, oltre ad occuparsi dei bisogni fisici, sanitari, e della casa.”. 

Esiste una stima di quante sono - a livello di UE - le persone coinvolte dai servizi di cura, o che ne avrebbero bisogno?

“È difficile sapere esattamente quante sono le persone anziane che necessitano di cure di lunga durata, che le ricevono, le persone che lavorano in questo settore o che prestano cure informali. La difficoltà è legata sia alla mancanza di definizioni condivise tra paesi (e talvolta all’interno di ciascun paese) sia alla difficoltà di raccogliere dati attendibili.

Tuttavia, sappiamo che i fenomeni studiati da LeTs-Care hanno un impatto importante sulla vita e sul lavoro di milioni di persone in Italia e in Europa. I dati che seguono sono tratti da letteratura scientifica recente e si riferiscono a stime relative all’Italia.”

  • Persone anziane con bisogni di cura e servizi di cura

Ci sono diversi modi per rilevare e misurare la presenza di bisogni di cura tra le persone anziane. Uno di questi è la difficoltà a svolgere alcune attività fondamentali della vita quotidiana (mangiare, vestirsi e svestirsi, camminare all’interno di una stanza, lavarsi, coricarsi e alzarsi, usare i servizi igienici). In Italia si stima che poco meno del 20% delle persone di 65 anni e più abbia almeno una limitazione nello svolgimento delle attività della vita quotidiana: si tratta di oltre 2 milioni 500 mila persone. Di queste circa un milione e mezzo ha difficoltà in almeno 3 attività della vita quotidiana (quindi limitazioni molto importanti). Inoltre, si calcola che in Italia le persone con demenza siano oltre 1 milione (di queste 600.000 con demenza di Alzheimer), in larghissima parte persone anziane. Solo una parte di queste è ricompresa nel numero complessivo sopra indicato.

Tra le persone anziane con disabilità, le donne sono fortemente sovra rappresentate (perché le difficoltà e le malattie croniche sono più frequenti all’aumentare dell’età e nelle fasce di età più avanzate la popolazione è decisamente femminilizzata, e perché le donne godono di salute peggiore rispetto agli uomini). Inoltre, sono sovra rappresentate le persone con una situazione socioeconomica peggiore, che hanno maggiori rischi di ammalarsi di vivere condizioni di malattia cronica.

Le persone anziane che vivono in una struttura residenziale di tipo sociosanitario (RSA e simili) sono meno di 300.000 (2,2% della popolazione 65+). Si tratta di una percentuale molto bassa rispetto a quella degli altri paesi europei (in molti paesi si raggiunge il 6% della popolazione 65+ dopo un periodo di riduzione dei posti letto…). Anche nelle regioni italiane con dotazione maggiore la percentuale non supera il 3%; in Veneto e in Lombardia, ad esempio, si tratta del 2,8%; la sola eccezione è rappresentata dalla Provincia di Trento dove si sfiora il 4%). Questo significa che, complessivamente in Italia, oltre due milioni di persone con bisogni di cura da moderati a molto gravi vivono a casa. I servizi domiciliari di sostegno per le persone con bisogni di cura di lunga durata sono poco diffusi e non garantiscono un’assistenza continuativa.

  • Il lavoro nei servizi di cura

Poiché i servizi di cura (residenziali e domiciliari) sono scarsamente sviluppati, il numero stimato delle persone che lavorano nei servizi di cura è comparativamente limitato. Esso raggiunge tuttavia i 400.000 operatori/operatrici (rielaborazione a partire da Brugiavini et al. 2023). La grande maggioranza è costituita da donne. In questo ambito le condizioni lavorative sono spesso problematiche, come testimoniato da elevati livelli di turnover, carenza di personale, rischi per la salute fisica e psicologica (burnout ecc.). Agli occupati formali nel settore vanno aggiunte le “assistenti familiari” (o “badanti”), delle quali abbiamo già parlato prima.

  • Caregiver informali

In Italia, tra il 15% e il 20% delle persone con 50 anni o più offre cure informali (in questa fascia di età si trovano più i caregiver informali delle persone anziane) (Tur-Sinai et al 2020). Si tratterebbe, quindi, di almeno 4-5 milioni di persone. L’aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro e il prolungamento delle carriere lavorative fanno sì che per un numero crescente di persone i compiti di cura nei confronti dei genitori anziani si sommino al lavoro retribuito e alle altre responsabilità familiari.

Ma se la logica delle ‘best practice’ non funziona, e il modello europeo non è trasferibile in Paesi con strutture e approcci molto diversi (come l’Italia) come possiamo raggiungere i risultati richiesti dalla UE? 

“La ‘Care strategy’ prevede lo sviluppo di modelli applicabili su larga scala per le cure integrate, utilizzando nuovi modelli organizzativi, anche utilizzando nuove tecnologie. Il primo passo è quello di considerare i contesti dei diversi Paesi, capire i bisogni specifici e le soluzioni messe in atto, capire come si risolvono eventuali ostacoli. Serve analizzare quindi gli esempi virtuosi in maniera integrata, tra bisogni, soluzioni, tensioni e contesti. Studiare i modelli di altri paesi, quindi, non significa esportarne le pratiche ‘tout court’, ma capire quali scelte sono disponibili, quali tensioni bisogna risolvere, quali elementi di contesto vanno cambiati. Solo questo potrà consentire lo sviluppo di pratiche che non sono “best” ma sono ragionevoli e sensate per il contesto in cui si inseriscono. La ricerca può aiutare ad analizzare i trade-off e le alternative possibili mettendo i risultati a disposizione dei decisori e dei portatori di interessi”.

Federica Scotellaro