Taiwan: le recenti elezioni e lo status quo che fa comodo a tutti

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Photo by cegoh from Freerange Stock

Le elezioni dello scorso 13 gennaio hanno acceso i riflettori su Taiwan e sulla sua delicata situazione geopolitica che richiama a sé l'attenzione di tutto il mondo. Il Partito democratico progressista (Dpp) si è aggiudicato un terzo mandato consecutivo. Lai Ching-te, il vicepresidente uscente noto anche come William Lai, è stato eletto presidente; è stato in passato un forte sostenitore dell’indipendenza dalla Cina, ma nel suo discorso da vincitore ha utilizzato toni moderati, in linea con l’atteggiamento prudente che connota Taiwan negli ultimi anni. 

Per conoscere meglio la situazione di Taiwan ne abbiamo parlato con il professore Renzo Cavalieri, docente di Diritto dell’Asia Orientale presso il Dipartimento di Studi sull'Asia e sull'Africa Mediterranea di Ca’ Foscari.

Professore, perché Taiwan non si può considerare uno stato?

La situazione di Taiwan si può comprendere solo in una prospettiva storica, altrimenti, secondo il nostro modo di considerare le relazioni internazionali, non sarebbe comprensibile. Il tutto nasce con la Rivoluzione cinese e la separazione fra la Repubblica Popolare Cinese, nata il 1° ottobre del 1949, e il governo della precedente Repubblica Cinese del partito Kuomintang (Guomindang), con alla guida Chiang Kai-shek che, già qualche anno prima del 1949, va in esilio nell’isola di Formosa, ossia Taiwan, con 3 milioni di persone. Un vero e proprio esodo.

Siamo negli anni ‘50, è il periodo della guerra fredda, Taiwan gode del supporto degli Stati Uniti e diventa l’avamposto dell’Occidente contro il blocco comunista e acquisisce una natura differente dal punto di vista politico rispetto alla Cina continentale. Bisogna ricordare anche che, precedentemente, da fine Ottocento fino alla fine della seconda guerra mondiale, Taiwan era stata occupata dal Giappone: l’impronta nipponica ha modificato profondamente l’assetto socio economico e ha dato all’isola un indirizzo parzialmente diverso rispetto a quello cinese. Per un lungo periodo il governo della Repubblica Cinese a Taiwan venne riconosciuto a livello internazionale come legittimo governo della Cina, al posto di quella che inizialmente era definita una ‘ribellione comunista che occupava provvisoriamente il resto del Paese’, poi man mano che passavano gli anni e il potere del Partito comunista si stabilizzava sul territorio cinese, divenne sempre più chiaro che quello di Taiwan non era più il governo della Cina. Negli anni Settanta gran parte dei paesi del mondo decisero di abbandonare le relazioni diplomatiche con Taipei, rappresentante della Cina nazionalista prerivoluzionaria, e di allacciarle con Pechino, non essendo possibile mantenere relazioni con due governi che pretendevano di rappresentare lo stesso stato sovrano. Nel 1971 anche il seggio cinese alle Nazioni Unite passò a Pechino. Pechino ha sempre considerato Taiwan una provincia che prima o poi deve essere riannessa alla Repubblica Popolare, ma sino a Xi Jinping l’atteggiamento verso l’isola è sempre stato molto pragmatico e collaborativo, tant’è che i rapporti economici e gli investimenti diretti sono cresciuti a dismisura. La situazione è molto cambiata con la presidenza di Xi, soprattutto negli ultimi anni, anche a causa del deterioramento geopolitico globale. 

Taiwan si trova quindi in una posizione anomala dal punto di vista internazionale: è sì uno stato, ma la Repubblica Cinese non può essere riconosciuta come tale. In effetti è riconosciuta solo da 12 piccoli stati, che dunque non hanno rapporti diplomatici con Pechino. D’altra parte, recidere questo cordone ombelicale che la lega alla Cina non sembra essere un'opzione praticabile, innanzitutto perché non sembra trovare un forte consenso interno, ma anche e soprattutto perché vorrebbe dire scatenare la reazione di Pechino, con conseguenze imprevedibili. Comunque, nella ‘coscienza’ dei cittadini taiwanesi, la sovranità e la statualità non sono in discussione, mentre è sempre più chiara la differenza che si è creata tra l’isola e il continente. 

Taiwan è una realtà fondamentale a livello economico e commerciale, come si relaziona, quindi, a livello internazionale?

Per consentire di intrattenere rapporti politici, economici e culturali con Taiwan vengono utilizzati una serie di accordi bilaterali e multilaterali sui più svariati argomenti. Sotto il profilo bilaterale, diversi paesi, tra cui l’Italia e gran parte dei paesi europei, intrattengono rapporti non diplomatici attraverso ambasciate di fatto, chiamate Economic, Trade and Cultural Offices o Representative Offices.  Taiwan aderisce anche a diverse organizzazioni internazionali, nelle quali generalmente è presente anche la Repubblica Popolare Cinese, come il Comitato Olimpico o la World Trade Organization, con la denominazione di ‘Chinese Taipei’, in modo da restare in questa ambiguità.

Come mai questi 12 piccoli stati, tra cui Città del Vaticano, riconoscono Taiwan come stato? Che vantaggio ne traggono?

Sono pochi stati del centro-sud America (Guatemala, Paraguay, Belize) e delle piccole isole caraibiche o del Pacifico, abbastanza irrilevanti a livello mondiale. La Città del Vaticano è fra questi stati per motivi di tipo storico e ideologico: è in conflitto con Pechino sulla libertà di culto e sulla consacrazione dei vescovi, mentre Pechino non accetta la sovranità del Papa sulla propria Chiesa nazionale. Per gli altri stati invece è stata prevalentemente una motivazione economica. Taiwan ha investito in infrastrutture nelle isole e in centro- sud America; negli ultimi anni però anche la Cina ha iniziato ad investire in questi piccoli stati e il numero dei sostenitori dello stato taiwanese si è andato man mano riducendo: anche recentemente, nel 2021, il Nicaragua ha abbandonato Taipei per Pechino.

Cosa pensa che prevarrà nel prossimo futuro: la riunificazione voluta dalla Repubblica Popolare Cinese o Taiwan diventerà uno stato indipendente riconosciuto a livello internazionale?

Per l'attuale governo di Xi Jinping, Taiwan è parte integrante del territorio cinese. Vi è in Cina una fortissima retorica della riunificazione inevitabile, che è diventata ormai uno slogan: ‘la riunificazione è il glorioso destino nazionale’.

Ma non è così semplice riunificare Taiwan, innanzitutto perché i taiwanesi non sembrano affatto attratti - come rivelano anche gli esiti delle elezioni- dall’idea di far parte dell’impero cinese. Taiwan ha intrapreso dal 1987 un percorso di democratizzazione che ha reso la sua posizione sempre più problematica per Pechino. Se prima c’era al potere il Kuomintang, che era sì il partito rivale di quello comunista, ma che almeno non metteva in discussione il fatto che la Cina fosse una sola, l’ascesa del partito democratico-progressista ha aumentato i timori di una svolta verso l’indipendenza formale. 

Agli inizi degli anni ‘90, Cina e Taiwan erano arrivate a un compromesso di fatto: i taiwanesi avrebbero accettato lo status quo senza mettere in discussione il principio per cui la Cina è formalmente una sola. Tale compromesso per il momento rimane in essere. La principale necessità del governo cinese, che per ora non pare avere un concreto programma o una tempistica per l’unificazione, è che questa situazione non venga minacciata da derive indipendentistiche. La Cina attua dunque una costante pressione militare e anche economica - penso ai recenti casi di indagini fiscali di investimenti in Cina di aziende taiwanesi - al fine di indirizzare le scelte politiche dell’isola. L’esito delle elezioni ha confermato il consenso prevalente sul preservare questa ambiguità. Secondo il neo-presidente Lai, non c’è bisogno di dichiarare l’indipendenza o cambiare nome, perché di fatto Taiwan è già uno stato sovrano. Un atteggiamento pragmatico, senza soffermarsi sulla questione ideologica formale.

Come reputa il comportamento del Giappone, degli Usa o dell'Unione europea? Il governo cinese ha criticato i leader per essersi congratulati con Lai, chiedendo di stare fuori dagli “affari interni” della Cina.

Direi che il loro è un atteggiamento che potremmo definire ambiguo, che mira a conservare questo equilibrio pacifico, che sinora è convenuto a tutti: Taiwan è un luogo strategico sia dal punto di vista politico che economico. Ma anche avere buone relazioni con la Cina popolare è indispensabile.

Il Giappone è territorialmente vicino e conserva ancora un rapporto molto stretto con Taiwan, anche a livello culturale. Mi viene in mente la squisita cucina taiwanese, sicuramente di stampo cinese, ma che ha forti influssi nipponici.

Il presidente statunitense Joe Biden ha ribadito che Washington non sostiene l’indipendenza dell’isola, ma tratta con Taipei, a tutti gli effetti, come con uno stato sovrano. Inoltre, in questo momento di tensione geopolitica, per gli Stati Uniti Taiwan è il quadratino della scacchiera più importante di tutti nelle questioni di sicurezza con la Cina

Anche l’Unione Europea ha tutto l’interesse a mantenere lo status quo. La posizione di tutti è abbastanza omogenea: preservare il diritto di Taiwan di vivere come una realtà indipendente da Pechino, pur rispettando la One China policy negoziata dagli anni ‘70 da USA e Pechino.

Si parla di uno ‘scudo di silicio’ che protegge l’isola. Quando e come Taiwan è diventata la più grande produttrice mondiale di semiconduttori, ossia dei componenti essenziali di tutti prodotti, dispositivi e infrastrutture digitali? 

Taiwan è una delle cosiddette ‘tigri asiatiche’, come Singapore o la Malesia, che già negli anni 80 avevano mostrato una grande vocazione industriale. Hanno sicuramente contribuito il mix ‘genetico’ sino-giapponese estremamente produttivo, la tradizione confuciana di impegno nel lavoro, un governo efficiente e anche il rapporto privilegiato con gli Stati Uniti: molti tecnici taiwanesi hanno studiato negli USA e gli americani hanno sostenuto strategicamente, anche con investimenti massicci, la capacità del governo di Taipei e delle aziende private taiwanesi di investire in tecnologia. Negli anni sono anche state adottate diverse politiche industriali mirate ad accrescere la competitività nazionale, come ad esempio i parchi industriali, che hanno favorito moltissimo lo sviluppo proprio del settore dei semiconduttori. 

Il successo è stato straordinario e oggi Taiwan produce quasi il 60% dei chip a livello globale. Questo quasi-monopolio su uno dei beni di maggior valore al mondo rende Taiwan un luogo ancora più appetibile ma ancora più delicato.

Torniamo agli esiti di queste elezioni. Come mai William Lai ha vinto le elezioni, ma non ha la maggioranza in parlamento?

William Lai, vicepresidente uscente, ha vinto le elezioni presidenziali con il 40% dei voti, ma il suo partito democratico progressista non ha avuto la maggioranza nelle elezioni legislative, quindi Lai dovrà fare accordi e trovare punti di incontro con gli altri due partiti in parlamento: il Kuomintang, che ha ottenuto la maggioranza dei seggi, e il Partito popolare, che farà un po’ da ago della bilancia. Si vedrà. Si tenga conto che noi qui parliamo della politica di Taiwan solo alla luce dei rapporti con Pechino, ma la campagna elettorale si è svolta, come in ogni altro paese democratico, su molteplici temi: nei programmi c’erano anche questioni come quella energetica, il lavoro, o il salario minimo. E sarà anche su queste questioni che si formeranno le alleanze parlamentari. 

Quanto alla strategia estera di Lai, sarà comunque quella di mantenere lo status quo, il ‘non svegliare il can che dorme’, e tale posizione è condivisa anche dalle altre forze politiche.

Vede potenziali rischi al mantenimento di questo status quo?

C’è un consenso generale su questa ambiguità, da parte di tutti, incluso il governo cinese, come emerge dalle blande dichiarazioni rilasciate da Pechino dopo le elezioni. In teoria, far prevalere una logica pragmatica conviene a tutti, l’unico rischio che vedo è che, in questa epoca di grande tensione internazionale, il pragmatismo possa essere superato dall’ideologia, soprattutto nel caso in cui il governo della Repubblica popolare decidesse di agire concretamente per realizzare quella che considera il compito storico della riunificazione nazionale. È comunque evidente che il mantenimento dell’equilibrio raggiunto sulla questione di Taiwan dipenderà anche e soprattutto da come si evolveranno nei prossimi tempi le relazioni globali.

 

 

Sara Moscatelli