Col cuore nel passato e la testa nel futuro: l’Iran di Nasim Marashi

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Le vicende di Leila, Roja e Shabane, tre donne “intorno ai trent’anni” le cui vite si intrecciano in una Teheran divisa tra passato e futuro, costituiscono la trama corale di Payiz fasl-e akhar-e sal ast (L’autunno è l’ultima stagione dell’anno) romanzo di Nasim Marashi tradotto nel 2021 da Parisa Nazari per la casa editrice fiorentina Ponte33. 

Nasim Marashi, classe 1984, una formazione prima come Ingegnere meccanico e poi come giornalista, scrittrice e sceneggiatrice, mette un po’ di sé stessa in ciascuna delle protagoniste. La vicenda si svolge in una Teheran verso cui Marashi nutre sentimenti contrastanti, teatro di possibilità infinite, dove “le montagne pesano sul cuore degli abitanti”.

Marashi è stata una degli ospiti dell’ultima edizione del Festival Internazionale di Letteratura a Venezia - Incroci di Civiltà, che dal 29 marzo al 1 aprile ha fatto incontrare a Venezia, in diverse sedi prestigiose, ben 26 autori e autrici da più di 15 Paesi, in dialogo con docenti di Ca’ Foscari ed altri esperti. Fil rouge di quest’anno i temi dell'identità, del razzismo, il rapporto tra l’individuo e gli altri, la sostenibilità ambientale.

A parlarne con l’autrice sul palco dell’Auditorium Santa Margherita, il 30 marzo scorso, c’era Daniela Meneghini, docente di Lingua e Letteratura Persiana a Ca’ Foscari. Traduttore dal persiano l’ex cafoscarino Giacomo Longhi. Marashi è stata intervistata anche ai microfoni di Radio Ca’ Foscari dalle studentesse Virginia Burdese e Matilde Spagnolo. Nei prossimi giorni l’intervista uscirà in forma integrale sulle frequenze di RCF.

Nasim Marashi ha condiviso con il pubblico di Incroci il rapporto con la letteratura classica, che “abita dentro di noi”. E la letteratura è entrata nella sua vita, racconta l’autrice, lo ha fatto senza essere invitata, e questo è stato possibile proprio per quel substrato fertile di letterature classiche a lungo frequentate come lettrice. Nel 2009, all’epoca della stagione di proteste in Iran nota come onda verde o Green movement, Marashi lavorava come giornalista, e avrebbe voluto scrivere un lungo reportage per documentare la cronaca in corso. Ad un certo momento, però, capì che solo la letteratura avrebbe costruito la realtà sfaccettata che aveva preso forma nella sua mente: la scelta delle tre protagoniste era un modo per rappresentare una intera generazione di donne, e il lavoro per completare questo “puzzle i cui pezzi si incastrano perfettamente” (come lo ha descritto Meneghini) ha richiesto tre anni di lavoro. 

Scrivere non serve solo a ricordare ciò che accade e a perpetuare il ricordo delle lotte del passato, serve anche a dare voce a chi non ce l’ha. Quando le protagoniste parlano, sempre in prima persona, ti invitano nella loro testa, a scoprire pensieri e speranze. 

Di sé dice di essere una “very slow writer”, scrivendo in media un paragrafo al giorno. Lavora tutti i giorni, racconta, ma lavorare non significa sempre scrivere. A volte vuole dire solo aspettare, guardarsi dentro. La prima volta che si è trovata davanti a una pagina bianca ha provato un senso di terrore e ha pianto disperata. Ora sa che è una parte del lavoro di scrittrice: capita, e basta. 

La ricerca di una vita nuova e di un nuovo inizio accomuna le tre protagoniste, ma in un regime totalitario la decisione di andarsene è particolarmente difficile: l’emigrazione lascia intravedere un mondo di possibilità, ma implica anche la perdite di amicizie, legami familiari, una cesura dalle radici e dalla lingua madre. In tanti e tante finiscono dunque per incepparsi in un eterno tentennamento: incapace di investire sul presente (“che senso ha cambiare i mobili o il guardaroba se forse domani deciderò di andarmene?”) si arriva a sentirsi ospiti nel proprio paese, come sospesi a mezz’aria. 

Dalle donne ci si aspetta che occupino il ruolo classico delle casalinghe a tempo pieno, ma con la pressione di dover e voler lavorare. Decisioni personali e pressioni sociali: la nuova generazione della classe media riesce meglio a mediare (“conciliare”, diremmo noi) tra queste tensioni. C’è la speranza che il pensiero femminista riesca ad aiutare in questo percorso, ma intanto con il cuore nel passato e la testa nel futuro si vive una tensione che ti tira fino a spezzarti. 

Dopo ogni crisi politica c’è una nuova ondata di migrazione, e il dubbio su cosa sia meglio fare si insinua in ogni minimo dettaglio - tante piccole cose che, insieme, finiscono per condizionare totalmente. La vita da esuli, del resto, è una vita anche di umiliazione e di rimpianti: ma è proprio così, si chiede Marashi, oppure è uno stereotipo? La vocazione giornalistica l’ha per ora indotta a rimanere e trovare quel legame con le radici che reputa essenziale, per non parlare della necessità di essere là dove c’è la tua lingua. Ma nemmeno per lei è una decisione definitiva: se le pressioni del governo e della censura dovessero aumentare, non esclude la possibilità di emigrare. La censura si è già fatta sentire: in Iran Marashi non ha il permesso di pubblicare libri da più di cinque anni. 

Anche per questo, confessa, si è dedicata anche alle sceneggiature: quello del cinema è un mondo più rapido e remunerativo, e la diverte vedere sullo schermo personaggi che aveva immaginato con fattezze diverse. La sua scrittura del resto è stata più volte definita “cinematografica”, con frasi brevi e un susseguirsi di immagini visive che ricordano fotografie o inquadrature, e altrettanto spesso si è sentita dire che i suoi film “assomigliano ai suoi libri”.

Guarda l'incontro integrale al Festival Incroci di Civiltà, a Venezia:

A cura di Barbara Del Mercato