Con l’ambizione di vedere applicato su scala industriale quanto provato in laboratorio e spinta da una ‘vocazione’ per l’ambiente, Cristina Cavinato è partita da una laurea in biotecnologie industriali per arrivare da ricercatrice al laboratorio cafoscarino di Treviso, nel mezzo di un impianto di trattamento di acque reflue e rifiuto organico.
“Arrivai a Treviso per la mia tesi, lavorando ad ottimizzare il processo di produzione di biogas a partire dall’umido che si raccoglie a casa. E da lì ho continuato con Master e dottorato”, racconta con la consapevolezza di aver scelto una frontiera della ricerca scientifica e tecnologica che ha un grande legame con la vita di tutti: trasformare i rifiuti in risorse.
Cosa succede a Treviso?
“La tecnologia della digestione anaerobica ha preso molto piede in ambito agro-zootecnico, ma l’impianto di Treviso è stato tra i primi a dimostrare, fin dalla seconda metà degli anni Ottanta, che si poteva lavorare su piena scala e sul trattamento dei rifiuti. Il grande vantaggio di fare ricerca di questo genere in un centro di depurazione e raccolta dell’umido è avere a disposizione le matrici con le quali sperimentare. La collaborazione con l’amministrazione comunale, i gestori dell’impianto e l’azienda dei rifiuti ha permesso di crescere e migliorare il trattamento integrato di rifiuti e acque reflue (nella foto sotto un impianto pilota e sullo sfondo il depuratore di Treviso, ndr)”.
Ha fatto scuola anche a livello internazionale?
“Il professor Franco Cecchi, pioniere in questo campo, ama ricordare sempre che la prima conferenza internazionale sulla digestione anaerobica venne organizzata proprio a Venezia e diventò un punto di riferimento. Fu l’inizio di un percorso di ricerca sul trattamento dei rifiuti solidi per trarre energia, un’attività che oggi è molto diffusa in tutto il mondo. Scienziati e aziende sono interessati a trarre tutto il possibile dal rifiuto”.
Oltre all’energia, dagli scarti della nostra vita quotidiana si possono trarre nuovi materiali…
“Bioplastiche, per esempio. Con il progetto europeo Res Urbis stiamo ottimizzando un processo biologico in grado di selezionare specifici microorganismi in grado di accumulare polidrossialcanoati, dei polimeri poliesteri, aprendo un ampio ventaglio di possibilità applicative. L’unico limite è l’applicazione al settore alimentare, ma soltanto perché l’idea di una confezione che deriva dal trattamento dei rifiuti potrebbe far storcere il naso a qualche consumatore…”
Attualmente qual è la sua sfida personale?
“Sto studiando l’applicazione di microalghe per il trattamento dello scarto liquido della digestione anaerobica. Si tratta di liquidi ad alto contenuto di azoto. Ci sto coltivando microalghe, che rimuovono i nutrienti e contemporaneamente accumulano altri materiali. Ad esempio lipidi, precursori di un biodiesel di terza generazione. Il processo avrà un suo ulteriore scarto, che cercheremo di far tornare nella digestione anaerobica, chiudendo il cerchio. Ci stiamo lavorando nell’ambito di un progetto di ateneo”.
Quali altri elementi preziosi possiamo ricavare dai nostri scarti?
“Abbiamo visto che è possibile recuperare idrogeno dalla digestione anaerobica e che può essere utilizzato per migliorare le prestazioni di un motore a metano. Stiamo brevettando il sistema di controllo che abbiamo ideato per rendere stabile la digestione anche in un grande impianto, regolando il pH con un ricircolo del digestato”.
Insomma, siete i nutrizionisti di uno stomaco gigantesco…
“Esattamente. Un ruolo che diventerà ancora più importante quando a livello nazionale si diffonderà in modo massiccio la digestione di rifiuti e, di conseguenza, aumenterà la produzione di digestato, che oggi è a sua volta considerato un rifiuto. Mancano ancora linee guida sulla sua valorizzazione. Il nostro obiettivo quindi è dare significato al rifiuto, recuperando energia e materiali ad alto valore aggiunto. Con la collaborazione del gruppo di ricerca di ecotossicologia presente in Ateneo, cercherò anche di capire quale sia l’impatto ambientale del digestato, mettendo nel conto effetti sulle piante ma anche lo stoccaggio di anidride carbonica”.
Perché i vostri risultati trovino applicazione, conta molto il comportamento dei cittadini...
“La gente ormai è dentro la mentalità della differenziazione, almeno nelle aree dove è attiva da quasi vent’anni. Inizialmente è difficile far accettare l’avvio del porta a porta, ma è la modalità che garantisce una maggiore qualità. Serve sensibilizzare. E’ importante che la cittadinanza conosca le attività che vengono fatte”.
Qual è la sua esperienza riguardo alle differenze di genere nel mondo accademico?
“Mi sono inserita come biotecnologa in un contesto di ingegneri e chimici industriali. Potrei dire che all’inizio questo mi ha fatto sentire in minoranza, ma la voglia di fare c’è sempre stata e col tempo sono arrivati risultati e soddisfazioni”.
Vede cambiamenti in corso nell’ambito scientifico?
“Vedo che in un ambito come quello dell’ingegneria, storicamente maschile, le cose stanno cambiando. E anche nel nostro settore, in cui trattiamo i processi di depurazione delle acque, e trattamenti di scarti organici e fanghi, non mancano dottorande e assegniste che si avvicinano. Lavorando su impianti pilota la fisicità conta, ma questo non esclude le donne. Inoltre, c’è molta richiesta di figure esperte in questo settore. Le opportunità non mancano”.