'This is not a story to pass on'. Toni Morrison secondo Pia Masiero

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Toni Morrison - Ph. ALA The American Library Association
Toni Morrison - Ph. ALA The American Library Association

Il 5 agosto scorso, è morta Toni Morrison. Il profluvio di articoli che hanno inondato i giornali, i media e la rete ci danno la misura della sua fama conquistata libro dopo libro, pagina memorabile dopo pagina memorabile.

Ricordo distintamente l’annuncio del premio Nobel per la letteratura assegnatole nel 1993 perché stavo timidamente aspettando il mio turno per presentarmi al professore di cui avrei presto seguito il corso grazie ad un programma di scambio con l’università della California a Irvine, con in mano la mia tesi di laurea. L’idea della tesi era nata proprio da un libro della Morrison – Song of Solomon, 1973 (Canto di Salomone, Frassinelli) – ed era stata costruita, in un certo senso, in risposta a quanto avevo acerbamente intuito nel leggere quello straordinario romanzo: storia, invenzione, folklore si possono intrecciare in maniera così fertile da amplificare il significato profondo di tutti e tre gli elementi. Il ricordare la propria genealogia all’interno della propria comunità di appartenenza è un passo fondamentale per diventare adulti a tutto tondo – è questo che ci insegna il giovane protagonista del romanzo, Macom “Milkman” Dead.

La storia e il folklore a cui Toni Morrison ha dedicato tutta la sua esistenza di donna e di scrittrice e che ha impollinato attraverso la sua invenzione generatrice riguarda i neri d’America da quando sono stati forzatamente portati oltreoceano in catene, agli albori dell’esperimento americano, ad adesso – una contemporaneità in cui è ancora dolorosamente necessario fare i conti con sacche endemiche di razzismo e di discriminazione.

L’annuncio mi ha fatto stringere con orgoglio la mia tesi, primo momento in cui mi sono dedicata alla grande autrice, che riceveva – prima donna nera nella storia del Nobel – l’ambitissimo premio.
Toni Morrison è da ricordare non solo come scrittrice, ma senz’altro anche come madrina della letteratura afro-americana negli Stati Uniti, per il suo decennale lavoro come editor alla Random House che inizia nel 1965 e fa conoscere al pubblico americano importanti nomi della tradizione letteraria afroamericana da Gayl Jones a Angela Davis passando per Mohammed Ali.

E’ senza dubbio grazie al suo lavoro appassionato e certosino che scrittori e scrittici afroamericani contemporanei entrano nel cosiddetto canone e trovano spazio nelle antologie scolastiche. E’ emblematica in questo senso la pubblicazione del Black Book (1974) che documenta la presenza degli afroamericani negli Stati Uniti nell’arco di ben trecento anni. Il libro non vende molto, ma attesta l’assoluta centralità del tema dell’identità afroamericana per la Morrison.

Nei suoi romanzi, a partire dal primo, scioccante, The Bluest Eye nel 1970, e via via con i romanzi che si susseguono da Sula (1973) a Mercy (2008) passando per Tar Baby (1981) e Jazz (1992), la Morrison mette sempre al centro la negoziazione, individuale, comunitaria, sociale, dell’identità razzialmente definita.

Nel suo primo romanzo tutto è contenuto nel sogno ossessivo di una bambina nera che desidera avere gli occhi azzurri perché ha sentito nella comunità in cui vive una opinione ripetuta e condivisa secondo la quale il blu è il colore più bello. Qui la Morrison comincia a tessere una tela che si dipanerà lungo tutta la sua produzione: qual è la strada dell’accettazione orgogliosa della propria identità quando si è circondati da un senso gerarchico di ciò che è bello e buono e ciò che è brutto e cattivo basato sul colore della pelle? La dinamica della negoziazione dell’identità passa attraverso la definizione di come mi definisco e come mi definiscono gli altri: il nome proprio, individuato e individuale, contrapposto agli epiteti di razza, tra cui, su tutti, quel “nigger” che è la quintessenza del dispregio e il sigillo dell’odio.

La Morrison mette a nudo la verità scomoda e innegabile che la società americana è fondata sulla fantomatica linea del colore e il nero è il luogo principe della definizione – per differenza – del bianco. Sono soprattutto i personaggi femminili a portare il peso di questa definizione, spesso segnata dal compromesso e da un attacco serrato all’integrità etica. La grandezza della Morrison sta proprio nella sua capacità di riuscire ad illuminare tematiche socialmente ed emozionalmente cruciali senza scadere nel strettoie del romanzo sociale impegnato.

Oltre che nei suoi romanzi, la Morrison scandaglia questa verità in un esile libricino dal titolo significativo, Playing in the Dark (1992), in cui dimostra inequivocabilmente che tanti (per non dire tutti) i grandi romanzi del canone americano, costituito dai vari Hemingway e Fitzgerald, cioè maschi bianchi, nascondono tra le pieghe delle loro pagine la presenza innominabile ma fondamentale del nero, elemento loro necessario per la definizione di sé basata sulla linea del colore. A proposito di canone WASP è innegabile il debito della Morrison nei confronti di William Faulkner: sin dai tempi della sua tesi di dottorato incentrata sul grande scrittore di Oxford, Mississippi, la Morrison si è nutrita del suo periodare massimalista e incrementale che ritroviamo al suo culmine nel romanzo che l’ha consacrata definitivamente - Beloved premio Pulitzer nel 1988, (Amatissima, Frassinelli) e migliore libro dell’ultimo quarto di novecento, secondo un sondaggio del New York Times Book Review  – come scrittrice di altissima caratura.

Questo romanzo che rileggo ogni anno per il mio corso di letteratura americana per la specialistica e che mantiene per me un legame con quel primo acerbo capitolo di una vita accademica fa, dimostra in maniera lampante il genio immaginativo della Morrison che ha voluto esplicitamente “costruire un monumento” per tutti i neri che sono stati torturati, schiavizzati, violentati e uccisi a causa della schiavitù. Un frammento di una storia vera nel quale la Morrison si imbatte mentre lavora al Black Book di cui abbiamo già detto, diventa per la scrittrice un seme su cui provare una rielaborazione finzionale sulla scelta di una madre, Sethe, che preferisce per i suoi figli la morte al ritorno alla schiavitù e arriva ad uccidere per questo motivo sua figlia.

La Morrison qui ci incastra in una narrazione che gioca in apertura la carta del realismo magico evocando la scena di una casa abitata dal fantasma dispettoso di una bambina; entriamo quindi nel romanzo a cuor leggero perché la Morrison attiva in noi lettori l’aspettativa di una storia di fantasmi che non ha quindi nulla a che fare con la realtà: possiamo stare tranquilli, questa storia non riguarda il mondo come noi lo conosciamo. Ed invece ci ritroviamo ben presto catapultati nel bel mezzo di un romanzo storico sulla schiavitù che non ci risparmia nessuno degli orrori che hanno segnato l’odiosa istituzione al centro della storia americana. Il fantasma che poi arriva ad incarnarsi – Beloved, appunto – diventa la sineddoche del trauma dei neri d’America con cui è necessario venire a patti e che attiva una riflessione sul significato profondo di parole come libertà, maternità, amore, scelta, che va ben al di là di facili stereotipi: nessuno, né bianco, né nero, viene qui risparmiato da uno scandaglio psicologico che non indietreggia neanche di fronte alla (possibile) giustificazione di un omicidio.

La schiavitù emerge in tutta la sua velenosa realtà che sfigura tutti, sia schiavi che padroni. Una riflessione su questa pietra di inciampo attraversa tutta la produzione della Morrison spesso a partire da memorabili personaggi femminili. La scrittura è magistrale epica e poetica allo stesso tempo, sempre ingaggiata nell’articolare un presente che non può che essere abitato (à la Faulkner) dal passato.
 

“This is not a story to pass on” recita in conclusione Beloved: nella sua ambigua duplicità – questa è una storia su cui non si può soprassedere/questa è una storia che non si può tramandare – sta tutta la grandezza di Toni Morrison che ha fatto del raccontare storie piene di una storia dolorosa il suo modo privilegiato per dire alla sua America che il passato oscuro del razzismo non è purtroppo passato.


Pia Masiero

Docente di Letteratura Americana a Ca' Foscari e Direttrice del Festival internazionale di letteratura Incroci di Civiltà