Emilia Terragni: la 'regina cookbooks' è cafoscarina

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Emilia Terragni

Se pensate che i libri di cucina siano di serie B, non avete mai tenuto tra le mani un volume di Phaidon Press. La casa editrice più raffinata al mondo, famosa per le arti visive, ha aperto le porte al Food da oltre 10 anni grazie all’intuito di un’italiana e il successo è stato ‘stellare’. Comasca, cosmopolita e laureata a Ca’ Foscari in Storia dell’Arte a fine anni ’80, Emilia Terragni è stata consacrata già nel 2014 dal Wall Street Journal come la ‘regina dei libri di cucina’ e recentemente è apparsa tra le 50 donne del cibo nella classifica de Il Corriere della Sera. È lei che, da direttrice editoriale, ha pubblicato i migliori chef del mondo come Adrià, Bottura e Redzepi. E tutto è cominciato con la traduzione inglese de ‘il Cucchiaio d’Argento’

Laurea in Storia dell’Arte (a Ca’ Foscari), cosmopolita e appassionata di viaggi. Questi – e sicuramente molti altri – sembrano essere ingredienti fondamentali per la sua carriera. Ci racconta il suo percorso, da Como a Londra, passando per Venezia? 

Per me è sempre stato importantissimo viaggiare e abitare in posti diversi. Venezia in questo senso è stato il grande passo. Ci ho vissuto quasi dieci anni, a partire dai tempi dell’università. Vivere da sola, incontrare nuovi amici, apprezzare il nuovo e il diverso è stata un’esperienza interessante. Mi sono specializzata come curatore di Arte contemporanea a Siena e poi a Prato, sempre vivendo di base a Venezia. Mi sono poi trasferita in Germania, a Kassel, per lavorare a Documenta, una delle più importanti manifestazioni internazionali d'arte contemporanea in Europa. La dimensione estremamente internazionale di quella situazione mi ha fatto capire che volevo lavorare in ambito internazionale, con tutte le difficoltà – anche linguistiche – che comportava. Da lì ho continuato con molta applicazione e molto lavoro. Ho lavorato alla Triennale di Milano, a Venezia, tra Iuav e Biennale, in Germania e in Svizzera, all’Archivio Barragàn e al Vitra Design Museum di Basilea. Anche questa è stata una tappa fondamentale, che mi ha fatto riavvicinare alla mia grande passione, il design. In Svizzera sono stati 5 anni di lavoro duro, ma ho imparato 4 lingue, ho organizzato una mostra e pubblicato un libro. A Basilea ho conosciuto i proprietari di Phaidon, una delle principali editrici di arti visive, architettura, fotografia e design. Mi hanno chiamata a Londra per lavorare come editor per il design. Per la prima volta ho visto i libri dall’altra parte. Pubblicarli è una vera e propria arte, che ho imparato, e da qui è partita l’avventura con i libri di cucina. Iniziata in modo casuale, ci è ‘scoppiata’ tra le mani e funziona moltissimo.

Lei ha curato per Phaidon l’edizione inglese di quello che è considerato il manuale di cucina italiana per eccellenza, ‘Il cucchiaio d’argento’. Ci racconta l’intuizione e lo sviluppo della sua linea editoriale?

È stato un puro caso. ‘Il cucchiaio d’argento’ è pubblicato in Italia da Domus. Avevamo saputo che nel 2004 Domus stava firmando un accordo con nostri competitors. Siamo andati a Milano per fermare l’accordo, ma era già firmato. Gli editori erano comunque interessati a collaborare con Phaidon e, quasi per scherzo, ci hanno proposto ‘il Cucchiaio d’Argento’. Io mi sono subito entusiasmata. Stavamo parlando della ‘bibbia’ della cucina italiana, un libro che ho visto da sempre a casa e che conoscevo bene…ci siamo lanciati. L’editing di un libro di cucina si è rivelato molto più complicato di quanto ci aspettavamo. La cucina rappresenta la cultura. Nella cultura anglosassone gli ingredienti vengono elencati come appaiono nella ricetta, in quella italiana sono in ordine di importanza. In Italia molti passaggi di cucina si danno per scontati, nel resto del mondo no. Abbiamo dovuto riscrivere tutto, lavorando su una incredibile quantità di testo. È stato un trampolino ma anche una palestra. Il successo è stato incredibile, l’abbiamo ristampato dopo un mese. È stata una sorpresa anche per noi e così abbiamo continuato.

Da storica dell’arte a ‘regina dei cookbooks’. C’è un legame tra arte, cibo ed editoria nella sua carriera?

, questo è stato proprio il mio percorso, ed è stato il successo della nostra linea editoriale. Affrontiamo i libri di cucina esattamente come quelli di arte e design. In questi ambiti la qualità del libro –scelta delle foto, della grafica, della carta, per esempio – è importante quanto il contenuto. All’epoca c’era invece la tendenza a fare libri di cucina meno curati. Anche nella scelta dei contenuti e degli chef da pubblicare ci regoliamo come per architetti e designer. Sì alla qualità del lavoro ma la parola chiave deve essere innovazione.

Grazie a progetti come ‘A day at El Bulli’ e ‘Where chef eat’ ci fa in qualche modo entrare dove probabilmente non metteremo mai piede: nelle cucine più esclusive e nei ristoranti scelti dagli chef migliori del mondo. Come sono nate queste idee?

‘A day at El Bulli’ è stata un’altra scommessa nata nel 2007, quando il mondo degli chef ha cominciato ad assumere importanza diventando mainstream. Abbiamo cercato su Google chi erano gli chef migliori del mondo. Non sapevo nemmeno chi era il numero uno, Ferran Adrià, ma l’abbiamo chiamato al telefono. Lui era divertito, ha capito che non eravamo del mestiere e che ci stavamo muovendo in un territorio nuovo. Ha accettato di incontrarci e siamo volati a Barcellona, nel suo laboratorio. Gli abbiamo fatto due domande: Avrebbe gestito un ristorante in Giappone? Voleva pubblicare un libro con noi? Ci ha risposto che non cucinava mai fuori dalla sua cucina e che si faceva i libri da solo.

Mesi dopo, a settembre, ci ha invitato a cenare a El Bulli, in Costa Brava. Con soli 15 tavoli e 50 posti, prenotare un tavolo a El Bulli era come vincere una lotteria. Accettammo subito. Ci ha voluto incontrare nel pomeriggio per dirci che aveva cambiato idea, avrebbe pubblicato un libro con noi. Così è nato ‘Un giorno a El Bulli’. Anche con lui il rapporto dura da molti anni. Ci piace stabilire relazioni con i nostri autori. Le conversazioni con loro sono importanti.

‘Where chef eat’ è nato perché all’epoca viaggiavo molto con gli chef con cui collaboriamo, ed è molto divertente ma dal punto di vista del cibo è un incubo: o mangiano bene o non mangiano. Così ho cominciato a contattare gli chef del posto per chiedere consigli. Ho iniziato a fare liste per gli amici e così è iniziato il progetto. Un’idea semplice ma molto curata nell’esecuzione e nel grande lavoro di network che sta dietro. Naturalmente abbiamo dovuto stimolare gli chef con richieste particolari, per esempio ‘Qual è il ristorante per cui vale la pena mangiare’ o ‘quale quello che avresti voluto aprire’. La loro comunità è molto stretta e solidale. Una volta ricevuti i consigli, iniziava tutto il nostro lavoro di ricerca sul campo, fondamentale per la riuscita del libro. Ne è nata una serie, che abbiamo replicato che con gli hotel preferiti dagli architetti.  

Ci fa entrare ‘virtualmente’ nel suo ufficio? Qual è il suo metodo di lavoro? quali caratteristiche apprezza nei suoi collaboratori e cosa viene richiesto, a Phaidon, ai giovani e alle giovani interessate al mondo dell’editoria?  

Lavoro a stretto contatto con il mio team, diviso tra Londra e New York, e con l’altro publisher che si occupa di Arte e moda. Ho un team diretto di 8 editor, con i quali mi confronto continuamente e discuto idee e progetti. Da poco, nella sede di Londra ci siamo trasferiti in un open space. Per come lavoriamo, l’isolamento causato dal Covid-19 è stato duro. Generalmente dedico la mattina a meeting e mailing e sfrutto il pomeriggio per leggere e sviluppare idee. 

Nel lavoro per me il punto di forza principale è il pensiero laterale, che rende aperti a trovare quello che non si cerca. Questo è quello che è successo a me per esempio con la cucina. Consiglio e chiedo ai miei collaboratori: pensate che tutto sia possibile. Molti dei nostri libri sono nati dall’impossibilità. Naturalmente si deve essere anche in grado di capire se e quando le cose non funzionano. Io apprezzo soprattutto la capacità di fare squadra, di condividere, di tessere relazioni. Ai giovani, in particolare, dico: osate, 'sparate' in alto. Bisogna essere coraggiosi, mettersi in gioco, essere pronti a lasciare la propria comfort zone. Ho lavorato con gli studenti della scuola di gastronomia di Pollenzo, ai quali ho chiesto di progettare libri in gruppo. Le idee più belle e più folli sono arrivate dai gruppi che partivano con le visioni più ampie. 

Editoria cartacea e web. Dal suo punto di vista è una lotta o esistono due strade parallele da percorrere? Se esistono, cosa fa la differenza?

Non direi che c’è competizione. Bisogna ridefinire i ruoli. Il libro è ancora la maniera migliore per divulgare alcune informazioni. Il formato pdf non ha la stessa qualità e spesso non è il modo migliore per diffondere contenuti sul digitale. Nei nostri libri facciamo un editing molto preciso, importante sia a livello estetico che per il piacere della lettura. La scelta del font, la disposizione del testo…la tipografia è un’arte complessa con dietro un mondo e molti studi. Nel digitale tutto questo salta completamente. Il web può però essere molto efficace per offrire una panoramica completa dei lavori, per esempio, di un architetto. Forse è anche lo strumento più versatile per un catalogo didascalico, anche se non garantisce la sequenza e l’accostamento delle immagini. Per valorizzare entrambi gli strumenti bisogna puntare sulle loro caratteristiche, una su tutte: il libro è statico, il web no.

Quale è per lei il fallimento che ancora ricorda e quale il suo più grande successo professionale?

Non sono brava a scrivere. Avevo iniziato scrivendo di arte contemporanea, ma per scrivere bene ci vuole esperienza ma anche il dono. Ancora mi dispiace, ma scrivo pochissimo. Ho scelto una carriera più organizzativa cha autoriale, e quando mi capita di scrivere faccio sempre rivedere i miei testi. Il successo credo sia quello di riuscire a mettere insieme persone e idee su qualunque fronte e riuscire a captare il meglio. 

Questa estate in Italia è scoppiata una polemica per le parole del Viceministro dell’Economia e delle Finanze, Laura Castelli, al Tg2.  All’opinione pubblica è sembrato che invitasse i ristoratori di cambiare lavoro. Non ha detto esattamente questo, ma ha rilevato come il Covid abbia cambiato le nostre abitudini, mettendo in difficoltà l’attuale mondo della ristorazione. Secondo lei come dovrà modificarsi il modello di business che ha funzionato fino a oggi?

Non è un problema solo della ristorazione, che comunque è stata molto colpita e ha pagato un prezzo altissimo. Il proliferare di attività senza qualità mostra un’industria che si basa su regole che non funzionano più. La qualità porterà ad eccellere solo certi tipi di offerta, e nella ristorazione intendo la qualità non solo del cibo ma qualità nei rapporti con il cliente e nell’amore per il proprio lavoro. Chi ha queste caratteristiche sta riaprendo, e ha il supporto della comunità.

Venezia è indicativa. Non serviva una pandemia per capire come attenzione, cura e arte troppo spesso mancano nelle attività commerciali del tessuto cittadino. Eppure è anche una città piena di posti meravigliosi dove si mangia bene. La pressione alta del turismo rischia di uniformare tutto e danneggiare anche chi fa un buon lavoro. Spero che la qualità emerga.

Chiudo con due curiosità: nella sua cena ideale cosa c’è in tavola e chi è il ‘dinner guest’?

Amo le cose fatte in casa, con passione per la cucina e per il gusto di far stare bene gli ospiti. Ospiti ideali? Gli amici, come quelli che avrò al dinner party che sto preparando per stasera.

Federica SCOTELLARO