India, il lockdown più grande del mondo non è per tutti

condividi
condividi
Photo by Prashanth Pinha on Unsplash

All’indomani del lockdown nazionale di 3 settimane decretato dal premier indiano Narendra Modi, il 25 marzo, la scrittrice, saggista e attivista indiana Arundhati Roy si è recata al confine tra Delhi e l’Uttar Pradesh. In questo articolo scritto per il Financial Times racconta di essersi trovata davanti a una scena capace di superare i numeri degli esodi biblici: centinaia di migliaia di lavoratori pendolari, con bagagli ed effetti personali, lasciavano Delhi, a piedi, per raggiungere le loro case a 100 km di distanza.

In India il primo caso Covid-19 risale al 30 gennaio. I dati ufficiali di morti e contagi registrano cifre molto basse in rapporto alla popolazione (Dati OMS al 5 aprile: 3.577 contagi e 83 morti. L’India ha una popolazione di circa 1 miliardo e 300 milioni di abitanti). Da quel primo caso Covid 19 il Governo non prese pressochè alcun provvedimento fino, appunto, alla decisione di chiudere il Paese. Ma come funziona la quarantena e il distanziamento sociale in uno dei Paesi più popolosi del mondo? Ne abbiamo parlato con il prof. Stefano Beggiora, docente di Storia e Letteratura dell’India al dipartimento di Studi sull'Asia e sull'Africa Mediterranea di Ca’ Foscari.

Come dobbiamo leggere i numeri ufficiali dei contagi da nuovo coronavirus in India?

Quelle poche migliaia di contagi registrati sono numeri molto lontani dalla realtà, dovuti a test eseguiti in numero insufficiente. Derivano soprattutto da un monitoraggio effettuato nelle zone urbane, dove ci sono gli aeroporti, perché inizialmente si pensava che il virus non circolasse in India ma arrivasse dall’estero, attraverso chi aveva avuto contatti con stranieri. Le popolosissime zone rurali indiane non hanno strutture ospedaliere in grado di eseguire test diagnostici accurati, né di erogare cure di un certo livello.

Secondo le analisi condotte da centri di ricerca locali e riportati dai media indiani, se si confermano i trend che si registrano in altri paesi, il virus veramente potrebbe arrivare a coinvolgere centinaia di milioni di persone, forse 3-400 milioni, tenendo conto anche della macro operazione di contenimento invocata dal Governo. La maggioranza potrebbero essere casi lievi, di conseguenza i casi più seri potrebbero ammontare a 10milioni e la metà di questi potrebbero essere casi gravi.

Nonostante i numeri, comunque, il 25 marzo il premier Modi ha chiuso tutto il Paese per 21 giorni 

Modi si è adeguato ai provvedimenti presi dagli altri Paesi, dichiarando il lockdown per 1miliardo e 300 milioni di persone, chiudendo tutte le attività economiche non essenziali e in un primo momento fermando anche le attività rurali che danno sostentamento a gran parte della popolazione indiana. 

Sono emerse fin dalle prime ore le caratteristiche di una quarantena che non ha una reale applicazione sul territorio e che quindi è di fatto è una misura inefficace e di facciata

L’India è un paese sovrappopolato, la capitale Nuova Delhi conta 20 milioni di abitanti, più o meno l’intera popolazione della Lombardia in una superficie che è 5 volte Milano. 

La prima conseguenza della chiusura sono le centinaia di migliaia di persone rimaste senza reddito, gran parte delle quali si trovano escluse dal ‘salvagente’ economico di 23 miliardi di euro annunciato dal Governo Modi. La forza lavoro indiana è stimata in 460 milioni di persone, per la maggior parte lavoratori irregolari. Si tratta soprattutto di pendolari, che migrano dalle campagne nelle grandi città, ogni giorno o periodicamente, per guadagnare e poter mandare le ‘rimesse’ a casa. 

Li abbiamo visti, poche ore dopo l’annuncio della chiusura del Paese, quando a decine di migliaia si incamminavano verso l’uscita di Nuova Delhi, per tornare – a piedi - alle loro case anche a più di 100 km di distanza. L’esodo è proseguito per alcuni giorni fino a che lo stato dell’Uttar Pradesh ha messo a disposizione 1000 autobus per sbloccare la situazione. Alla stazione degli autobus di Delhi in migliaia si contendevano il posto sui mezzi, in una situazione ben lontana dall’auspicato ‘distanziamento sociale’. Quando il Governo si è reso conto della situazione, per evitare l’effetto ‘volano’ di un possibile contagio di massa, ha ‘dirottato’ parte degli autobus già partiti verso zone create ad hoc per mantenere i passeggeri in quarantena.

Pensiamo poi all’indicazione di restare a casa ed evitare contatti ravvicinati: in India 100 milioni di persone vivono negli ‘slum’, le bidonville, dove intere famiglie convivono in alloggi di circa 6 mq, sprovvisti di rete idrica e sistema fognario. La vita si svolge necessariamente all’esterno, e la vita sociale per centinaia di milioni di indiani presuppone il contatto costante.

La quarantena è quindi possibile solo per i più ricchi, o per classe media, ovvero per persone che vivono in spazi sufficientemente ampi e in quartieri dove ci sono servizi efficienti, dove per esempio è possibile farsi domiciliare la spesa.

Un’altra indicazione, difficilmente applicabile alla realtà indiana, è quella di lavarsi spesso le mani. Una delle cause principali di mortalità – parliamo di oltre 200 mila vittime all’anno -sono le malattie dovute alla scarsa qualità dell’acqua che è insalubre o avvelenata. Le aree rurali, le più povere dell’India, sono quelle che soffrono la crisi idrica in maniera più pesante, con l’80% delle famiglie che non ha accesso garantito all’acqua corrente e salubre. 

Qual è lo stato del sistema sanitario nazionale indiano, e come reagisce alla minaccia sanitaria del Covid-19?

Sulla carta la Costituzione indiana conferisce la responsabilità dell’assistenza sanitaria ai governi statali, piuttosto che al governo federale centrale, i quali dovrebbero farsi garanti di un progressivo miglioramento delle generali condizioni di salute dei cittadini. L'assistenza sanitaria pubblica sarebbe in teoria gratuita e sovvenzionata per coloro che si trovino al di sotto della soglia di povertà.

Ma nonostante i buoni propositi, l’India ha generalmente sempre fallito il raggiungimento delle condizioni di sviluppo auspicate per la sanità pubblica. Per ovviare a questo problema dal 2005, la maggior parte del settore ha subito un processo di privatizzazione o è passato sotto una formula di collaborazione mista. Questo significa che oggi le cure sanitarie sono diventate un business che ha inglobato circa il 60% degli ospedali del paese, un terzo dei posti letto e oltre l'80% dei medici specializzati.

È dunque chiaro che solo la classe medio-alta indiana può di fatto permettersi una assistenza sanitaria adeguata un po’ come accade negli Stati Uniti. Il contesto generale è comunque d’una situazione prossima al collasso già in situazioni di normalità, che non potrà che peggiorare nelle prossime settimane. Mentre anche il semplice accesso a un presidio medico in zone rurali o periferiche è ancora oggi spesso un’utopia.

Interessante notare alcune iniziative dell’ultima settimana. Una serie di aziende di IT e produzione di macchinari hanno convertito la loro produzioni in ventilatori per la respirazione. Contemporaneamente le Ferrovie hanno deciso di riconvertire carrozze e interi treni in reparti d’isolamento e terapia intensiva. La questione è interessante perché dimostra come il settore pubblico e il privato stiano in qualche modo reagendo nel tentativo di supportare gli sforzi tesi ad arginare l’emergenza.

Gli equilibri sociali sono a rischio?

È difficile parlare di equilibri sociali, perché pur essendo la più grande democrazia del mondo è dal giorno della sua nascita che l’India si profila come un paese di tensioni che affondano le loro radici nel comunitarismo, nelle ineguaglianze sociali, in forze centrifughe o opposti estremismi, anche religiosi (vedi l'articolo L’India nel 21esimo secolo: secolarismo al capolinea?). Qui ci troviamo di fronte a un’emergenza che è come una lama a ‘doppio taglio’: mentre l’emergenza sanitaria approfondisce le disuguaglianze sociali proprio a partire da quanto indicato più sopra (accesso alle cure e alla possibilità di misure precauzionali, lavoro e ammortizzatori sociali), la disuguaglianza, allargandosi, a sua volta può far precipitare sempre più la diffusione del virus. In altre parole la pandemia sta allargando le divisioni sociali ed economiche che rendono anche il virus più letale, un ciclo di auto-rafforzamento che gli esperti avvertono potrebbe avere conseguenze per gli anni a venire. Già infatti da un lato alcuni accusano Modi di usare l’emergenza pandemica per coprire gli errori del passato. Ma d’altro canto, qua e là si scatena la caccia all’untore, come la notizia recente che una grande manifestazione musulmana a Delhi avrebbe contribuito al diffondersi del contagio. 

Federica SCOTELLARO