C'era una volta in Cina

Ang Lee, cineasta ibrido per scelta, incontra il wuxiapian (arti marziali in costume, il genere per eccellenza del cinema hongkonghese) e ne mostra la modernità in forme disincarnate: l'ultimo hurrah per una mitologia destinata allo spettacolo globale?

 

Fra tutti i cineasti attualmente in attività a Hollywood, Ang Lee è quello che più consapevolmente di altri ha perseguito la propria occidentalizzazione con tutti i mezzi possibili. Cineasta dalla vocazione sostanzialmente accademica tesa a un'illustrazione tutta di superficie ma in grado, a tratti, di offrire dei lancinanti squarci di vero (valga come esempio la scena in cui Kevin Kline prende in braccio Christina Ricci in Tempesta di ghiaccio), oscilla tra una pulsione a lacerare la superficie dell'immagine (i momenti di forza del suo cinema) e una volontà che lo spinge a smussare angoli e asperità nel segno di una compostezza veterohollywoodiana. In questo senso Lee è un autentico professional dei bei tempi andati. Il suo muoversi agevolmente a cavallo dei generi, se denota da un lato una grande duttilità (cosa che permette ai suoi film di essere fruiti sempre con una notevole facilità), evidenzia anche una preoccupante assenza di conflittualità. Nel cinema di Ang Lee il mondo si ritrova e si salda all'interno di un accademismo formale le cui uniche asperità derivano dai testi di volta in volta adattati e dalla sceneggiatura. Cineasta ibrido il cui interesse risiede da sempre nelle forme e nella misura in cui la tensione Occidente-Oriente si articola come discorso sull'esilio da se stessi, Lee mette mano all'agognato progetto di La tigre e il dragone dopo lo scottante insuccesso di Cavalcando con il diavolo.

Fallito il tentativo di laurearsi cineasta americano realizzando un western ambientato durante la Guerra di secessione, Lee, rovesciando la prospettiva, si rivolge alla tradizione nobilissima del wuxiapian con uno sguardo completamente occidentalizzato. Ossia, se al cinese Lee viene di fatto impedito di confrontarsi con la storia americana, al Lee che tenta di farsi riconoscere come cineasta statunitense è invece concesso di importare e di presentare al pubblico occidentale la tradizione delle arti marziali non come elemento di confronto e discontinuità con la cultura che lo ospita ma come mero prolungamento spettacolare di una Hollywood che ha finalmente assorbito e fatta propria la lezione sul tempo e la velocità del cinema di Hong Kong. Ang Lee infatti non affronta il genere per fare i conti con la tradizione testuale di questo e di conseguenza con la propria vocazione cinematografica. Il wuxiapian sembra piuttosto essere il luogo narrazione nel quale innestare la propria metamorfosi di cineasta americano in divenire, rifiutata, invece, a contatto con una delle pagine più drammatiche della Guerra di secessione.

Non meraviglia quindi che il successo de La tigre e il dragone sia limitato (si fa per dire) agli Stati Uniti e all'Europa, mentre Cina, Hong Kong e Corea si sono dimostrate piuttosto freddine nei confronti del film (ad eccezione di Taiwan, terra natia di Lee, e di Singapore). Se infatti M:I-2: Mission Impossible 2 di John Woo viene vissuto e accettato entusiasticamente da parte della popolazione cinese come specchio nel quale riflettere il proprio desiderio di occidentalizzazione e come riscatto (tanto più dolce perché vissuto sul piano della produzione spettacolare) nei confronti degli Usa, La tigre e il dragone, che restituisce della Cina un'immagine esotica e cristallizzata, fatica ovviamente a farsi vettore di quell'ansia di modernizzazione del pubblico cinese che intende, invece, essere partecipe delle mutazioni del consumo e dell'immaginario collettivo.

Con La tigre e il dragone Ang Lee non affronta il wuxiapian animato da una sorta di rivendicazionismo nei confronti delle proprie radici (nonostante Lee abbia più volte affermato che confrontarsi con il genere rappresenti una sorta di passaggio obbligato per qualsiasi cineasta cinese). Il suo approccio, perversamente teorico, consiste sostanzialmente nel depurarlo della sua specificità segnica conservandone solo la forma più immediatamente riconoscibile (lo stesso Lee a questo proposi-to ha dichiarato a Variety: «È come aprire un ristorante cinese in occidente. All'inizio offri il solito chop suey. Poi, poco alla volta, passi alle pietanze più prelibate»). È evidente che Lee è mosso dal desiderio, caratteristica degli aspiranti accademici, di "nobilitare" il genere, di imprimervi il proprio segno. A differenza però del Wong Kar-wai di Ashes of Time (che nel wuxiapian ricercava consapevolmente gli echi e i fantasmi di una parte della sua formazione culturale) questa volontà non si offre come uno scontro tra mondi antinomici e reinvenzione delle forme del genere. Lee non ripensa la sua cinesità in rapporto al wuxiapian ma verifica il conseguimento della sua americanità come una complessa operazione di transcodifica culturale. L'essere finalmente riconosciuto come director hollywoodiano passa necessariamente attraverso la messa in discussione della propria storia culturale, saggiando i modi e le forme in cui questa può essere detta (messa in scena) da un'altra tradizione testuale: quella da quale si spera di essere accolti. Non è un caso che la comprensione de La tigre e il dragone da parte del pubblico che ignora le meraviglie del cinema di Hong Kong dei primi anni Ottanta (e non solo) passi attraverso la mediazione del futuribile Matrix. Ossessionato dalla verosimiglianza (ostacolo con il quale si è scontrato pure John Woo: basti pensare alla faccenda dei caricatori delle pistole) il pubblico statunitense (e non solo) riesce ad accettare (finalmente) le evoluzioni acrobatiche dei protagonisti del film come emanazione visiva di una trovata proveniente da un film chiaramente "non realistico" (ma comunque occidentale). Il set cyberpunk di Matrix contribuisce così a rendere riconoscibile uno degli stilemi più amati e riconoscibili della tradizione del wuxiapian. Il passato della tradizione cinese s'interfaccia dunque con i consumi del pubblico cinematografico contemporaneo attraverso la mediazione di una situazione canonica (l'esperto di kung fu che lib[e]ra nell'aria) decontestualizzata e rifunzionalizzata.

In questo snodo, in sé non particolarmente entusiasmante (e che Jackie Chan in Pallottole cinesi ha tematizzato con lo scandaloso taglio del codino ombelicale), risiede paradossalmente l'interesse di La tigre e il dragone. Se tentare infatti di competere con Tsui Hark, Ching Siu-tung, Wong Kar-wai e Yuen Woo-ping è un'impresa destinata inevitabilmente al fallimento (senza contare l'onere del confronto con maestri del genere come King Hu e Zhang Che), Lee utilizza dunque il genere come luogo nel quale mettere in scena il crash culturale che vede Hollywood tentare di impadronirsi con vent'anni di ritardo della magia del cinema di Hong Kong. Nell'articolarsi infatti di un'estetica che deve tanto sia all'Opera cinese tradizionale che a una sensibilità di montaggio intimamente ipertestuale, il cinema di Hong Kong ha infatti realizzato e praticato con larghissimo anticipo tutto ciò che di nuovo e spettacolare viene realizzato oggi a Hollywood (non è un caso che David Wu, il montatore di The Killer e altri classici di John Woo, divida equamente il suo tempo tra videogiochi e cinema). A ben vedere, ciò che ha sconcertato gli spettatori occidentali è stata la diversa organizzazione strategica dei materiali dell'azione (gesti smontati e riorganizzati in sequenze non lineari) e l'attenzione maniacale dedicata all'organizzazione di microtempi particolari. I ralenti di Woo, gli inserti musical dei wuxiapian, la verticalizzazione del lavoro del montaggio, contribuiscono infatti non solo a sfondare il muro della verosimiglianza prospettica ma soprattutto a ipotizzare delle forme di temporalità che di fatto già viviamo ma di cui il cinema fatica ancora a prendere atto e a rendere conto (ma intanto Tsui Hark con il geniale Time and Tide già è andato oltre).

Lee di tutto ciò (tranne forse nel finale del duello sugli alberi) non conserva nulla. L'azione si sviluppa fluida grazie anche al partito preso di Yuen Woo-ping che, a differenza di Ching Siu-tung, sceglie di utilizzare il wire work in una prospettiva tutto sommato realista (tentando cioè di trovare sempre per i corpi una corretta distanza dal suolo e limitando all'essenzialità la frenesia del montaggio). Il problema è che l'interazione tra fili, corpi e computer grafica, se da un lato offre dei risultati visivamente straordinari, priva il film di una sua elementare verità: lo sforzo fisico degli attori che pur sospesi ai fili debbono mettere in scena le evoluzioni acrobatiche progettate dal coreografo. In forme abbastanza inquietanti, Lee è come se depurasse il genere della presenza del corpo (non vi è infatti alcuna traccia di sangue), motivo per cui il lunghissimo flashback tra Jen e Lo nel deserto risulta essere di gran lunga l'aspetto più interessante della pellicola (il ritorno di una conflittualità fisica assoluta). Non meraviglia quindi che La tigre e il dragone risulti visivamente ammirevole ma privo di qualsiasi afflato tragico. Il peculiare conflitto tra carne e perfezione formale dell'esecuzione dei combattimenti è infatti uno dei caposaldi estetici del wuxiapian. Basti pensare a un film come La mano sinistra della violenza di Zhang Che (coreografato dall'immenso Lau Kar-leung), nel quale l'eleganza di David Chiang vive in rapporto e in opposizione alla violenza che reca sempre con sé la lacerazione di quella carne che permette all'eroe marziale di trionfare sui propri nemici. E se sull'omosessualità di Zhang è stato detto molto (particolarmente illuminanti le considerazioni di Stanley Kwan), non si può fare a meno di notare come questa fosse in parte anche il risultato di uno sguardo ammirato e compassionevole che osservava il soccombere della bellezza dell'eroe di fronte al dilagare della violenza. Il sangue, verifica negativa dell'esserci dell'eroe, è indispensabile al genere. Ne La tigre e il dragone invece è come se i corpi fossero delle pure rappresentazioni fantasmatiche. La loro capacità di sfidare le leggi di gravità sembra essere non il frutto di un addestramento sovrumano quanto l'inevitabile conseguenza dell'essersi liberati dalle angustie della carne.

Sorprende quindi la misvalutazione critica di Olivier Père sul numero 244 di Les Inrockuptibles, il quale afferma che la riuscita del film sia da ricercarsi nel tentativo di Lee di rifarsi a King Hu (cosa che permette al suo film di essere aperto al mondo) piuttosto che allo Tsui Hark di The Blade, il quale, guardando al "sadico" Zhang Che, chiude il suo film in una sorta di perimetro autoreferenziale. Ora, se è vero che nell'ultima fase della sua carriera King Hu ha praticato con grande efficacia una rarefazione del tratto, è pur vero che i suoi primi film (basti pensare a Dragon Inn) contenevano già tutte le future violenze di un Zhang Che. Semmai The Blade (film che Tsui Hark, retrospettivamente, ritiene essere troppo crudo e disperato) si pone rispetto al genere in una posizione violentemente critica (basti pensare alla centralità dello sguardo femminile) che impedisce allo spettatore qualsiasi tentazione idealizzante. Lee, invece,tenta consapevolmente di celebrare un'arcadia marziale fuori dal tempo e dalla storia come se il film fosse il commiato definitivo dalle sue radici. Probabilmente è questa l'origine dell'insostenibile malinconia del film: teatro di una drammatica apostasia culturale, La tigre e il dragone, pur collocandosi nel cuore stesso del contemporaneo rinnovamento spettacolare hollywoodiano e a dispetto della sua voluta e dichiarata modernità, ci dice della definitiva (speriamo di no!) scomparsa di un intero genere e di un mondo.

Giona A. Nazzaro