Sovranità e industria mediatica: fra identità e politica nel cinema di Hong Kong post-1997

Il primo luglio 1997 Hong Kong “ritorna” alla Repubblica Popolare Cinese. Il porto profumato[1] è stato possedimento d’oltremare britannico per oltre 156 anni, esclusa la parentesi bellica di occupazione giapponese (1941-45), tuttora è regione amministrativa speciale formalmente stabilita fino al 2047.

Il mito del “1997” è elemento ricorrente nella narrazione politica cinese. Per la Repubblica Popolare Cinese, il 1997 rappresenta un anno di transizione e cambiamento. Fra i vari eventi, oltre il ritorno della sovranità territoriale come rivalsa per l’umiliazione subita fra il XIX e XX secolo[2],  troviamo infatti la morte del Presidente Deng Xiaoping, l’inizio di una nuova stratificazione di potere con la salita dei dirigenti comunisti della “Terza Generazione” con Jiang Zemin che, nell’ottobre dello stesso anno, visita ufficialmente gli Stati Uniti come Presidente della RPC segnando una nuova fase di sviluppo negli affari internazionali cinesi. Contestualmente, il 1997 rappresenta anche l’anno della crisi finanziaria asiatica, che però non ebbe ripercussioni concrete nel Paese seppur indubbiamente determinò scenari di incertezza e agitazione economica[3].

 Mentre per la Cina come Stato si determinano quindi i passi che poi porteranno al presente status internazionale, anche per Hong Kong il passaggio della sovranità rappresenta una forte transizione su vari livelli di analisi, come quelli esecutivo, giuridico, legislativo, economico, sociale, ecc. Da questa prospettiva, nasce una riflessione che può però essere spunto di comprensione del valore socio-culturale della produzione cinematografica dell’ora regione amministrativa speciale. In primo luogo, ci si può chiedere quali ripercussioni abbia avuto il passaggio di sovranità nella produzione; in secondo luogo, un’analisi del processo identitario di Hong Kong potrebbe trovare nel medium cinematografico un forte mezzo di espressione di autonomia e identità culturale e, infine, l’evoluzione delle relazioni cinematografiche fra Cina e Hong Kong negli ultimi decenni.

 Il post-1997
Nel suo saggio Art and Culture: Hong Kong or the Creation of Collective Memory, Gérard Henry dà una chiara lettura dell’evoluzione della produzione cinematografica a partire dal passaggio di sovranità. Secondo l’esperto e critico di cultura contemporanea, a Hong Kong la questione dell’identità si è sviluppata in maniera dialettica verso il passato accrescendo il dibattito sulla necessità di creare una memoria collettiva che potesse solidificare la “coscienza di sé” della città e la sua identità costituente. La produzione culturale ed artistica Made in Hong Kong determinava una brandizzazione di questa identità a livello estero nonché a livello interno, con una sottocultura di musica e film identitari della cultura popolare[4].

Dal 1997 al 2007, il mondo del cinema affronta varie difficoltà dettate dalle evoluzioni sociali e tecnologiche del periodo, come la pirateria, la drastica diminuzione dell’affluenza nei cinema, nonché problemi di finanziamento per i progetti. Henry nota come, nonostante queste difficoltà, un nuovo genere inizia però ad emergere nella città – rispecchiante di queste evoluzioni. Si tratta di un nuovo tipo di realismo documentario che, con nomi come il registra Wong Kar-wai, trasforma l’immagine della regione agli occhi del grande pubblico. Allo stesso tempo, si sviluppa la distribuzione non commerciale dei Festival come l’Hong Kong International Film Festival (autonomo dal governo e organizzato da associazioni indipendenti) nonché gli Asia Film Awards ma anche l’Independent Short Films and Video Awards dove giovani registri iniziano a far conoscere il proprio talento. Dagli IFVA infatti troviamo Ramon Hui, animatore di Shrek, nonché il regista Yu Lik Wai[5], celebre per Love Will Tear Us Apart (1999). Quest’ultimo film esemplifica ciò che questi giovani talenti iniziano a diffondere: il genere del semi-documentario realista basato sulla vita quotidiana della città, ricco di aspetti ordinari e conosciuti, focalizzato sulle situazioni sociali come la povertà, la migrazione, la storia di vita, i quartieri cittadini[6]. Un altro esempio di questa nuova prospettiva cinematografica improntata al semi-realismo è identificabile in Spacked Out di Lawrence Ah Mon (2000), dove si ritrova la storia di cinque adolescenti fra i 13 e i 15 anni cresciute in famiglie disagiate, delle Lolita della città attente alle mode giapponesi e alla vita notturna cittadina[7].

L’identità cinematografica

Mentre da una parte troviamo un realismo visivo prone alla rappresentazione delle condizioni sociali che ha dato il via a una nuova corrente, dall’altra il nuovo processo creativo si volge a stabilizzare delle tematiche ricorrenti che determinano le nuove evoluzioni. Come evidenziato in Hong Kong Films in the Social Evolution after 1997 (Jing e Gunnan: 2017), la trasformazione dei film prodotti avviene tramite due principali flussi: 1) l’ottica post-colonialista, enfatizzante della necessità di ritrovare il proprio status culturale fra i due estremi di sovranità; 2) l’ansia sociale e la percezione della «morte dei film di Hong Kong[8]», determinata sia da fattori politici che di mercato come il crollo delle vendite e la perdita di vari mercati fra cui Taiwan, principale mercato estero di riferimento degli anni 1990[9].

Tenendo in mente queste due nuove percezioni che influenzano indubbiamente la produzione, gli autori presentano una dettagliata analisi di quelli che sono identificati come i tre principali generi che si delineano a partire dal post-1997. In primo luogo, si trovano i film per famiglie come Echoes of the Rainbow (Alex Law, 2010) che racconta la storia di una famiglia di quattro persone nel periodo fra il 1967 e il 1977 dove vengono enfatizzate le relazioni umane fra i membri dalla tensione all’armonia. La motivazione sottintesa da questa enfasi stilistica, secondo gli autori, può essere interpretata come la metafora di ritrovare l’armonia nelle necessità sociali a seguito del passaggio di sovranità, che la famiglia ha dovuto affrontare i.e., i cambiamenti inevitabili a livello familiare e la concezione di tradizione[10]. In secondo luogo, i film di azione iniziano a presentare la tensione, il conflitto e la violenza in chiave di sfogo sociale[11]. Fra i principali titoli del tempo, troviamo The Longest Nite (Patrick Yau and Johnnie To, 1998), ma anche più recenti come Port of Call (Philip Yung, 2015) e Paradox (Wilson Yip, 2017). Il terzo genere, le commedie, tradizionali produzioni della regione amministrativa speciale, si evolvono soprattutto grazie al ruolo del regista Stephen Chow che crea il suo stile positivo tendente alla distensione delle tensioni sociali focalizzandosi principalmente sul ruolo di valori positivi come la risata e l’amore[12]. 

 La produzione attuale

Il timore per il crollo del mercato e l’eventuale fine del cinema di Hong Kong venne dettato anche dalla corrente di migrazione dei principali attori e direttori verso Hollywood. Grandi nomi come i registi John Woo e Tsui Hark, gli attori Chow Yun-Fat e Jackie Chan sono fra le celebri personalità che lasciano l’isola, anche prima del 1997. L’evoluzione della globalizzazione mediatica dimostra però come Hong Kong, con il tempo, abbia accolto grandi studi di produzione come Columbia, 20th Century Fox e Warner Bros, con l’obiettivo di «produrre grandi produzioni asiatiche con le star cinesi stabilitesi ad Hollywood»[13].
Un altro elemento interessante, in ottica presente, è la nuova spinta verso la terraferma. Si può ritrovare infatti un particolare nuovo pattern nelle co-produzioni fra Hong Kong e Cina a partire dal 1979, con la creazione della China Film Co-Production Corporation. Mentre dal 1997 al 1999 si identificano in media 19 co-produzioni annuali, dal 1999 al 2003 vi è quasi un raddoppio con 35 all’anno. Nel 2003, viene firmato il Closer Economic Partnership Agreement (CEPA) e le collaborazioni continuano ad intensificarsi fino ad arrivare a 89 co-produzioni nel solo 2016[14].

Valentina Pettosini

[1] Traduzione letterale dal Cantonese di Hong Kong (香港).

[2] Chiara rappresentazione sul concetto di umiliazione si può ritrovare nel discorso ufficiale di Mao Zedong il primo ottobre 1949 quando, in piazza Tiananmen, proclamò la nascita della Repubblica Popolare Cinese: «Il popolo cinese si è alzato in piedi… nessuno ci insulterà più».

[3] Goldstein, Avery. “China in 1997: A Year of Transitions.” Asian Survey, vol. 38, no. 1, 1998, p.34. JSTOR, doi.org/10.2307/2645466.

[4] Gérard Henry, “Art and culture: Hong Kong or the creation of a collective memory”, China Perspectives [Online], 2007/2, p. 79. doi.org/10.4000/chinaperspectives.1763.

[5] Ivi p. 82

[6] Ibid.

[7] Ivi p. 83

[8] Jing Yi, Gunnan E., “Hong Kong Films in the Social Evolution after 1997”, Proceedings of the 2017 International Conference on Art Studies: Science, Experience, Education, ICASSEE, 2017, p. 303. https://doi.org/10.2991/icassee-17.2018.68.

[9] Ibid.

[10] Ibid.

[11] Ibid.

[12] Ivi, p. 304.

[13] Gérard Henry, “Art and culture: Hong Kong or the creation of a collective memory”,… p. 82.

[14] Jing Yi, Gunnan E., “Hong Kong Films in the Social Evolution after 1997”,… p. 304.