L'epocale ritorno di Tsui Hark ad Hong Kong, post-1997 e post-Hollywood.

TIME AND TIDEdi Tsui Hark

 

Time and Tide è action-movie di Hong Kong a tutti gli effetti, il classico film popolare e di genere pienamente godibile come tale a un primo livello di lettura. Ciononostante, e un film che si configura anche nelle vesti di un ritorno in quella città forse cambiata: non solo come tentativo di risperimentare ancora una volta formule e generi sin troppo consolidati, ma anche come domanda sul come inquadrare, vedere, raccontare questa specifica metropoli. Time and Tide è infatti il film che vede il ritorno in patria di Tsui Hark dopo la non troppo felice parentesi hollywoodiana. Hark ci conduce per mano di nuovo all'interno della sua città con un thriller di ambientazione mafiosa, con una storia sul destino incrociato di una giovane guardia del corpo e di un ex-mercenario deciso a ricominciare da capo a fianco della donna che ha appena sposato. Solo che ben presto ci si accorge che la storia è puramente decorativa e funzionale, o meglio: che la trama e cosi ingarbugliata da lasciare lo spettatore pieno di dubbi su quello che effettivamente sta succedendo (ci piacerebbe raccontarvi il film per filo e per segno, ma non ne siamo capaci). Questo stordimento nel cammino dei due protagonisti diventa poi evidente una volta giunti alla scena centrale del film: una sequenza di sparatoria in un immenso condominio alveare. Si prepa-ra un agguato, mentre sui tetti si appostano innumerevoli cecchini pronti ad inquadrare la situazione attraverso i mirini dei view finders; poi scoppia la guerra, e il teatro della sparatoria inarrestabile diventa un caleidoscopio impressionante di stacchi (ci sarà mai qualcuno capace di contare il numero di inquadrature in questo montaggio?), una proliferazione di rovesciamenti continui dei punti di vista, un azzeramento delle distanze nel tempo e nello spazio, in cui davvero è impossibile dire chi guarda chi, chi spara a chi e, soprattutto, chi è il responsabile di tutto questo mondo colto nel pieno della sua entropia. Nell'infinita sequenza da antologia, diretta con maestria incomparabile, l'occhio, la macchina da presa diventano protagonisti assoluti. Si è pero come in un teorema da dimostrare: ammessa la sostanza di una realtà da sperimentare e indagare, ed ammesso un modo per calcolarla e inquadrarla, il risultato che ne consegue è una variabile infinita e in fondo inconoscibile, che porta inevitabilmente a tutta una serie di interrogativi sul principio di realtà che si agita al di sotto di questa visionarietà. Cosa è infatti a questo punto la realtà? Come è possibile guardarla, individuare delle coordinate al suo interno? E soprattutto: cosa è Hong Kong?

Interrogativi destinati a rimanere senza risposta; o ancora, domande sulla sostanza del mondo in cui viviamo che non sono certo nuove, ma che vengono qui proposte con un'intensità e una consapevolezza che non possono che lasciare a bocca aperta, e soprattutto ricollocate in una sorta di territorio di inizio, come premessa del nostro stare nel mondo e del nostro poter in qualche modo guardare e rappresentare questo stesso mondo. Non a caso, già dalle prime battute, la voice-over del giovane protagonista si introduce a noi citando l'incipit della Genesi ("Nel principio Dio creo il cielo e la terra..."). Time and Tide il film che, lungo la linea continuamente deviata dell'action movie tsuiharkiano, in fondo non parla altro che di problemi di paternità, di donne incinte e parti da eseguire in condizioni perlomeno disagevoli... è infatti un affresco sulla Hong Kong del dopo '97, che da subito si mostra nelle vesti di un problema di "creazione", di rappresentazione. Da un certo punto di vista, la tecnica impressionante di Tsui Hark nel ripresentarsi, dopo l'intermezzo hollywoodiano, di fronte al turbinio della propria città ("...la comunità anarchica per eccellenza", dichiarò anni fa il regista in una sua conversazione con Olivier Assayas) si getta non tanto in una temperie del "post", quanto piuttosto in una condizione del "prima" del principio delle cose, in un caos primordiale precedente l'atto stesso della "genesi", l'orizzonte di una fondazione anteriore a ogni possibile "articolazione". Dall'altro lato, pero, noi sappiamo bene che un'articolazione di sicuro deve esistere dentro questo magma indistinguibile, perchè l'affabulazione barocca del regista colpisce al punto che viene il sospetto di trovarsi di fronte a una mente in viaggio a velocità insostenibili per i comuni mortali, come se Tsui Hark fosse già immerso in un regime percettivo diverso, al quale noi non possiamo ancora accedere (lo spettatore sottolinea, ad vocem, Rinaldo Censi rivive forse il disorientamento provato dall'uomo d'inizio Novecento davanti ai quadri di Boccioni). In ogni caso, non si tratta di manierismo fine a se stesso. Si tratta semmai di interrogarsi sul come rappresentare e "abitare" un livello di realtà in cui la frammentazione dei punti di vista non solo mette in crisi le normali costrizioni del tempo e dello spazio (questo in fondo accade in tanto cinema hongkonghese, sin dai film di King Hu), ma ci introduce in quella condizione di spaesamento dentro un universo urbano che fondava la intima consonanza tra cinematografo e metropoli nel cinema delle origini. La città questa particolare entità dalle sconvolte linee spazio-temporali, in cui la realtà appare ogni volta solo come rappresentazione di se stessa e infatti davvero la grande protagonista in Time and Tide. Sarà anche un azzardo, ma il pensiero corre a quanto detto a suo tempo da Walter Benjamin. Il cinema, l'invenzione nata al tramonto dell'Ottocento, ripropone secondo Benjamin il disorientamento del visibile provato nel labirinto della metropoli moderna, il senso di appartenenza e disappartenenza, di metamorfosi delle luci e dei colori, del perdersi del flaneur dentro i "passaggi" di Parigi, la "capitale del XIX secolo". Se questo è vero, lungo la linea che unisce lo sguardo del cittadino a quello del cinematografo, lo spaesamento dell'occhio "postmoderno" si ripropone nella carne di un visibile fatto a pezzi dentro un'anarchica città asiatica, nel vagare schizofrenico (ma anche ironico) di un nuovo flaneur hongkonghese, o nella vertigine della velocità di un'immagine che disarticola ancora di più il nostro già incerto senso del reale. Che sia davvero l'ora di battezzare Hong Kong come "capitale del XX secolo"? (o già del XXI?)