La persona da cui nasce il film

Time and Tide offre l'immagine di un cineasta in piena elaborazione critica, teorica e formale.

LA PERSONA DA CUI NASCE IL FILMConversazione con Tsui Hark, Venezia 2000

 

Figura capitale del rinnovamento cinematografico di Hong Kong alla fine degli anni Settanta, Tsui Hark oggi si trova a vivere un'inquietante contraddizione. Senz'ombra di dubbio il talento visionario più importante del cinema mondiale degli ultimi trent'anni (con buona pace di Lucas, Spielberg & co.), dopo una parentesi di lavoro americana, disastrosa dal punto di vista economico ma assolutamente degna di interesse critico, Tsui si ritrova a vivere come una sorta di gigante esiliato. Ritenuto in declino persino da alcuni studiosi di cinema hongkonghese, continua invece a saggiare imperterrito i limiti della forma cinema. In questo senso Time and Tide, qualunque cosa ne dicano i detrattori, offre l'immagine di un cineasta in piena elaborazione critica, teorica e formale. Al di là dell'apparenza di un action movie delirante e senza sosta (posto sotto il segno di una perifrasi della Genesi), Tsui mette in scena un film che ripensa i volumi urbani, la velocità della comunicazione, la frammentazione dell'immagine e la necessità di ritrovare ritmi maggiormente vivibili (la straordinaria inquadratura finale: immobile). Inquieta la sua capacità di far esplodere l'inquadratura in dettagli infinitesimali, quasi subliminali. Stordisce l'energia fisica del suo gesto filmico. Impressiona la sua lucidità poetica. Da queste parti cineasti immensi come John Woo e Kirk Wong non sono mai transitati. Con una formula di facile effetto si potrebbe affermare che Tsui Hark sta al film d'azione come il genio di Orson Welles sta al cinema della modernità. Time and Tide vive sullo schermo come una sinfonia futurista. Luogo limite dove saggiare le forme del vivere tardomoderno di Hong Kong, alla stregua della Parigi delle esposizioni celebrata da Benjamin, diventa un laboratorio immaginario, una fucina di segni lanciata a folle velocità. Cinema della simultaneità della percezione, frammenta lo sguardo dichiarando concluso il ciclo produttivo originato dal dispositivo di riproduzione meccanico.

Mi può spiegare come lavora con gli elementi contrastanti che popolano i suoi film: l'estrema velocità di una sequenza che si oppone a un improvviso silenzio, la violenza che scoppia improvvisa, l'insospettabile tenerezza dei personaggi?
Sono tutti elementi fortemente drammatici che mi piace utilizzare. La loro opposizione crea delle contraddizioni che alimentano la tensione drammatica. L'impatto di queste emozioni costringe il pubblico a interagire con il film, a sentirsi partecipe. È come muoversi attraverso la storia senza poter mai formulare un giudizio definitivo. Bisogna stare nel film come in un puzzle e tentare di capire come funziona. È come muoversi nel mondo contemporaneo bombardato dalle informazioni: ognuno deve operare le proprie scelte, la propria selezione delle fonti, capire cosa funziona e cosa no. Questo, sostanzialmente, è il motivo per cui ho scelto uno stile di montaggio così frenetico e veloce. La tecnologia contemporanea è così avanti rispetto al cinema che di fatto siamo costretti a fare un continuo montaggio di tutto ciò che vediamo e sentiamo intorno a noi. Oggi sono tutti impegnatissimi a tentare di comprendere come rapportarsi a questo «inquinamento informativo», al futuro veicolato dalla tecnologia, alla nuova vita che ci attende. Io non so a che cosa possa somigliare o che cosa ci riservi. Non so come la gente viva questa situazione altrove. Ma la maggior parte degli asiatici sta tentando di capire cosa sia questo futuro e sono tutti molto occupati a tentare di adattarsi al nuovo stile di vita. L'industria, l'economia, la qualità della vita, i valori si stanno trasformando e stiamo andando incontro a un mondo completamente diverso. Tutto questo è catalizzato da quella che chiamiamo la civiltà del computer. Time and Tide lo abbiamo girato in circa tre mesi. Ma la parte più consistente del lavoro è stata quella riguardante il sonoro. Abbiamo trascorso più di otto mesi a lavorare sulle tracce sonore del film. Ho speso molto più tempo del normale per mettere a punto il missaggio definitivo del film. Oggi il pubblico è sottoposto a uno straordinario quantitativo di informazioni che gli giungono da tutte le parti: da Internet, dalla televisione, dalla radio, dalla pubblicità. Volevo che il sonoro restituisse lo smarrimento che proviamo di fronte a questa grande massa di informazioni, che ogni giorno dobbiamo decodificare per continuare a vivere.

Lei è un noto appassionato di fumetti. Ce n'è qualcuno in particolare che l'ha influenzata?
I fumetti hanno sempre avuto una grande rilevanza sul mio cinema. Ma non saprei dire quale abbia esercitato un'influenza predominante sul mio stile o se qualche parte di uno dei miei film sia più o meno influenzata dai fumetti. Ciò che mi piace è che rappresentano un orientamento visivo forte per raccontare una storia. Oggi tutti i fumetti condividono questa potente matrice paracinematografica. Sono strutturati come se fossero dei film. L'immaginario, la strutturazione delle immagini, la luce, il colore, persino il taglio delle inquadrature dimostrano che cinema e fumetti percorrono oggi più o meno il medesimo sentiero. Per un cineasta può essere molto intrigante studiare i fumetti, perché vi scopre sempre cose nuove che poi può utilizzare per i suoi film. La cosa interessante è che un autore di fumetti tenta di attrarre il maggior pubblico possibile creando delle immagini molto potenti. Immagini che hanno, ovviamente lo stesso scopo di quelle di un film. A volte quando immagino delle scene, delle immagini particolari, mi metto sempre alla ricerca di qualcosa di analogo nei fumetti. Si tratta sempre di materiale molto utile. Durante il processo di elaborazione delle sequenze, realizzo degli storyboard molto articolati. Lo storyboard in fondo è una specie di fumetto che esiste prima ancora del film.

Qual è la sua opinione rispetto al fallimento economico di The Blade?
Oh, si trattava di un materiale molto cupo, buio. E il pubblico l'ha semplicemente rifiutato. Non ne ha voluto sapere. La storia di The Blade è ambientata in un'epoca molto dura, un'epoca sgradevole della storia cinese e il pubblico, che stava vivendo un momento drammatico, non ha voluto confrontarcisi. Secondo me, questo è uno dei motivi dell'insuccesso del film. Un altro è che tutta la cultura degli spadaccini, il genere del «wuxia pian», era giunto a un punto di saturazione. Il pubblico era stanco e voleva qualcosa di nuovo. Credo che The Blade indichi la fine di quel particolare genere di film.

Qual è la sua opinione sul cinema di Zhang Che, che rappresenta l'influenza primaria di The Blade?
Zhang Che è l'origine stessa del film. Ho visto Mantieni l'odio per la tua vendetta da bambino e l'ho amato moltissimo. Avrei voluto realizzare un remake del film proprio perché mi era piaciuto così tanto. Ma ho avuto dei problemi di diritti d'autore con i fratelli Shaw (produttori del film di Zhang Che, ndr.) e quindi ho pensato di fare un film completamente diverso con il medesimo tipo di materiale.

Lei ha avuto rapporti di lavoro anche con King Hu, che si può considerare il rovescio del cinema di Zhang Che. Entrambi hanno influenzato profondamente il «wuxia pian». Quali sono, secondo lei, le maggiori differenze tra Zhang Che e King Hu?
King Hu era senz'altro un regista più sofisticato, nel senso che attribuiva molta importanza alla storia. Dedicava molto tempo allo studio dei dettagli, dei costumi d'epoca, e all'analisi della mentalità dell'epoca nella quale ambientava i suoi film. Non trascurava nemmeno i dettagli comportamentali delle persone. Riusciva a sviluppare sempre analisi molto precise dei momenti storici nei quali ambientava i suoi film. Al contrario Zhang Che è una persona molto romantica. Lui è il tipo di regista che dice "Vai! Facciamolo!". Ha infuso nei suoi personaggi un atteggiamento più semplice, più moderno. Questa, secondo me, è la differenza fondamentale tra King Hu e Zhang Che. King Hu è come uno studente molto sofisticato, mentre Zhang Che è una persona più diretta, più viscerale, più autoindulgente. È come se lavorassero l'uno contro l'altro, pur frequentando i medesimi territori. Per quanto mi riguarda, li amo entrambi, perché il loro lavoro ha significato moltissimo per me e per tutti i registi di Hong Kong.

La televisione, alla fine degli anni Settanta, è stata un elemento molto importante nel processo di rinnovamento del cinema di Hong Kong.
Ho lavorato per la televisione tra il 1977 e il 1978. Si trattava di un momento molto particolare. La televisione a Hong Kong era alla ricerca di nuove tecniche, di un nuovo modo di raccontare storie. Così fu offerta a un gruppo di persone, provenienti dall'estero, dalle scuole di cinema, la possibilità di sperimentare nuove tecniche e possibilità narrative. Quello fu un momento di gloria. Abbiamo avuto l'opportunità di inventare e fare cose completamente nuove. Ma allo stesso tempo, alla fine degli anni Settanta, l'industria cinematografica era in crisi. I produttori tentavano di avere i giovani registi che lavoravano per la televisione, per convincerli a realizzare film per gli Studio. Questa è la ragione fondamentale per cui a tanta gente fu offerta la possibilità di fare i propri film in quel periodo. Gli Studio volevano rinnovarsi a tutti i costi. È così che è nata la Nouvelle Vague di Hong Kong. Non è che ci fosse una filosofia comune alle spalle. Ognuno tentava di fare le proprie cose, di raccontare le proprie storie con uno stile nuovo. Si trattava di fare un lavoro di rinnovamento e ognuno, con la sua personale tecnica cinematografica, è riuscito a emergere. Solo molti anni dopo sono riuscito a comprendere cos'era stata la Nouvelle Vague. Ma già nei primi anni Ottanta ci si era imposto il problema di entrare maggiormente nell'industria cinematografica e tentare di comprendere come funzionavano i desideri e le aspettative del pubblico. I nostri film dovevano essere vendibili. Per questo motivo siamo entrati nell'industria, tentando però di rimanere fedeli a noi stessi. Questo è stato il contributo della televisione al cinema di Hong Kong: l'opportunità di lavorare con nuove tecniche e la possibilità di imparare dai propri errori. Sapere quello che puoi fare e quello che non puoi fare.

Qual è la sua opinione sui sequel, considerato che ne ha realizzati numerosi, da Once Upon a Time in China, a A Better Tomorrow e che sta lavorando al seguito di Zu: Warriors from the Magic Mountain?
Quando finisci un film, ti ritrovi abitualmente con moltissimo materiale che resta inutilizzato. Se il pubblico risponde bene al primo film, se il materiale presenta ulteriori possibilità di sviluppo, se i personaggi sono ancora freschi e ricchi di potenzialità, allora i sequel diventano parte di un processo molto articolato, nel senso che fanno seguito al film precedente pur essendo prodotti completamente autonomi. I sequel, in genere, rappresentano la possibilità di fare qualcosa di completamente nuovo con personaggi già amati dal pubblico. Per un cineasta si tratta di una sfida sempre molto interessante. Ovviamente questo è vero se il regista ama il materiale con il quale deve lavorare. Normalmente, prima di mettersi a dirigere un sequel, bisogna chiedersi: "Ho veramente voglia di rivedere questo personaggio? Ho qualcosa di nuovo da raccontare su di lui? Posso fargli fare qualcosa di realmente interessante?". Poi dipende molto anche dagli attori, se riescono a fare delle cose nuove con personaggi che hanno già interpretato. Spesso è il mercato a chiedere i sequel, per continuare a incassare. Ma non è sempre vero che siano solo dei meccanismi che uccidono il processo creativo. A volte si riescono a fare delle cose molto interessanti. Ci sono anche i casi nei quali ti rendi conto che il materiale di partenza ormai è inerte e allora ti devi fermare. Non puoi andare oltre.

Cosa pensa dell'affermazione di Tony Rains secondo la quale Zu: Warriors from the Magic Mountain avrebbe ucciso la Nouvelle Vague di Hong Kong, spalancando le porte alle grande industria?
Non vedo come un singolo film avrebbe potuto distruggere un intero movimento e d'altronde non ho girato quel film per finire nella grande industria. Era il film che volevo fare e lo volevo fare per restare a galla. Per sopravvivere come regista. Si tratta di un film che ho realizzato al meglio delle mie capacità. Zu: Warriors from the Magic Mountain non poteva essere fatto in altro modo. Probabilmente, dopo averlo terminato, ho pensato: "Questa cosa non mi piace: avrei dovuto farla diversamente". Ma come avrei potuto uccidere l'intero movimento? La Nouvelle Vague ha avuto una sua vita, un suo sviluppo, che dipendeva dalle persone che gravitavano al suo interno. Ognuno di noi lavorava al meglio delle sue capacità per fare funzionare le cose. Per rivitalizzare il nostro cinema. Nel 1981 ci trovavamo in un periodo di grande frustrazione. Bisognava continuare a fare cinema e riuscire a trovare un modo per creare una nuova scena nell'industria di Hong Kong. Ognuno di noi tentava a modo suo di raggiungere il medesimo obiettivo. Zu: Warriors from the Magic Mountain è stato il mio modo di affrontare il problema e non credo assolutamente che rappresenti un momento così drammatico da danneggiare tutta la Nouvelle Vague. Comunque non capisco proprio il senso dell'affermazione. Zu: Warriors from the Magic Mountain resta per me un film molto importante.

Quali sono le sue motivazioni più forti nel fare un film?
La cosa fondamentale per decidere di mettersi a realizzare un film è essere sempre la prima persona che si emoziona, che si eccita all'idea di girare una determinata scena. Se non scatta questo entusiasmo, allora significa che nel film c'è qualcosa che non va. D'altronde il pubblico intuisce se il regista si è divertito a fare un film o meno. Quindi non è facile barare. È questo il motivo per cui nei miei film cerco sempre di fare qualcosa di nuovo, lavorando molto sulle immagini. Tento di ordinare mentalmente l'ordine delle sequenze e delle scene: quelle che devono essere molto veloci, quelle semplicemente di raccordo, quelle dove desidero che il pubblico non stacchi gli occhi dallo schermo, ecc. In questo modo cerco sempre di giungere sino al punto estremo delle emozioni che provo e che voglio mettere in immagini. Ritengo che la prima cosa, la più importante, sia quella di sfidare i limiti delle proprie emozioni e di tentare di superare sempre ciò che si è già realizzato. La seconda cosa fondamentale è perseguire senza timore ciò che si ha in testa. Ci possono essere persone che non comprendono o non sono d'accordo con quello che vuoi fare, perché magari è la prima volta che si fa una cosa in un certo modo o perché i produttori non vogliono rischiare. Ma non bisogna assolutamente rinunciare. La terza cosa è la flessibilità. Bisogna sempre essere molto flessibili: il che non significa rinunciare alle proprie idee, ma comprendere in quale maniera, se non ci sono determinate condizioni produttive, si possa riuscire a portare a termine il proprio progetto, senza renderlo irriconoscibile. È il regista la persona da cui nasce il processo della lavorazione, la persona dalla quale nasce il film: è lui il punto di riferimento dell'intera operazione. Non bisogna mai esitare, ma inseguire sempre le proprie idee. La flessibilità, in determinate circostanze, è ciò che permette di comprendere come stanno realmente le cose e cosa funziona meglio per il film.

Ci sono anche influenze occidentali nel suo modo di fare cinema?
Quando inizio la lavorazione di un film non penso mai in termini di Oriente e Occidente. A Hong Kong siamo tanti a fare film e noi registi ci riteniamo sempre persone un po' diverse dagli altri. Non pensiamo a noi stessi come registi hongkonghesi, ma semplicemente come persone che fanno lo stesso mestiere. Ovviamente sono consapevole di ciò che è già stato fatto, sia da noi che all'estero, ma inevitabilmente mi sento diverso dagli altri registi. A volte mi rendo conto, vedendo i film che provengono da altri luoghi, che magari al nostro cinema manca qualcosa. Forse per questo motivo i nostri film risultano così estremi, perché è come se tentassimo di includervi tutti gli elementi possibili.

Giona A. Nazzaro