Una dialettica traducibile e non dicibile - Lettura Wittgensteniana di In the mood for love

Imponendo una prospettiva Wittgensteniana del film di Wong si vuole vedere come il pensiero di un filosofo possa illuminare il contenuto filosofico che un film (implicitamente) gia possiede per sua natura, in forza della sua intrinseca razionalità.

 

UNA DIALETTICA TRADUCIBILE E NON DICIBILE Lettura Wittgensteniana di In the mood for love

 

All'amico Antonio Termenini, che per primo mi ha incoraggiato e ha creduto in questo lavoro

The word within a word, unable to speak a word
(T. S. Eliot, Gerontion)

 

In un suo recente e stimolante libro, Julio Cabrera, docente di filosofia contemporanea presso 1'Università di Brasilia, critica il luogo comune secondo cui la razionalità, e in specie la ragion filosofica, sarebbe inconciliabile con l'arte cinematografica, essendo quest'ultima per eccellenza l'arte dell'illusorio, dell'irrazionale, dell'emozionale. Secondo questa diffusa concezione, quel particolare impatto emotivo ed "esistenziale", tipico del racconto cinematografico, andrebbe a scapito del rigore e dell'oggettività richiesti dal pensiero filosofico; è chiaro, quindi, che impostato il problema in questi termini, sembrerebbero non esserci due mondi così lontani e incomunicabili come il cinema e la filosofia.

Cabrera sostiene invece che il discorso cinematografico abbia natura pienamente razionale, sia esso stesso una forma di razionalità, soltanto che non si tratta di una razionalità logica e apatica, sostenuta cioè da un intelletto che abbia revocato da se qualsiasi emozione e turbamento sentimentale; la peculiarità della razionalità cinematografica sarebbe invece quella di essere logopatica, sostenuta cioè allo stesso tempo dalla razionalità ("logos") e dall'affettività ("pathos"). In altre parole, la ragion logopatica tipica del cinema mostra che per avvicinarsi ad un problema filosofico non basta una rigorosa capacità raziocinante, ma occorre fare esperienza di quel determinato problema, viverlo all'interno di un impatto emotivo, di un "urto" esistenziale .

In questo modo, ecco che il mondo della filosofia e quello del cinema tornano ad avvicinarsi e in qualche modo a completarsi, in quanto il racconto cinematografico diventa, in questa prospettiva, un modo per mostrare logopaticamente i problemi da sempre discussi nel pensiero filosofico. L'Autore, infatti, analizza alcuni millenari problemi filosofici che vengono per così dire "sperimentati dal vivo" da alcuni importanti film, istituendo singolari e inaspettati parallelismi tra Aristotele e De Sica, Bacone e Spielberg, Descartes e Hitchcock, Heidegger e Antonioni, ecc... Si tratta ora di seguire la strada delineata da Cabrera, e al limite il presente contributo potrebbe essere concepito come un nuovo capitolo del suo libro, intitolato provvisoriamente "Il dire e il mostrare tra Wittgenstein e Wong Kar-wai". Tuttavia, il taglio che si vorrebbe ora sperimentare è quello di percorrere, sulla stessa strada, la direzione opposta, per così dire, rispetto a quella seguita da Cabrera; non più, cioè, vedere in che modo un preciso problema filosofico sia stato affrontato logopaticamente dal cinema, ma al contrario verificare se e come un pensatore possa aiutarci a far luce sul contenuto filosofico di un film.

 

Si badi bene però: non si sta tentando di estrapolare una teoria filosofica per applicarla dall'esterno ad un film, in modo da dame una lettura decisamente parziale e arbitraria. Si vuole invece vedere come il pensiero di un filosofo possa illuminare il contenuto filosofico che un film (implicitamente) gia possiede per sua natura, in forza della sua intrinseca razionalità logopatica. La filosofia può in questo caso, lungi dall'essere un mezzo estraneo e deformante, diventare un prezioso alleato per il critico o per il semplice fruitore dell'opera cinematografica, in quanto può fare emergere nel film chiavi di lettura e profondità semantiche inaspettate. Ed ecco allora che rimeditare all'articolazione interna del Tractatus di Wittgenstein, nella sua fondamentale dialettica tra dicibile e non dicibile, può aiutarci a leggere e a capire la razionalità logopatica, così profonda e sfuggente, di un importante film come In the Mood for Love di Wong Kar-wai.

Un apparente tardo romanticismo
La trama del film è nota. Nel 1962, Chow, un giornalista originario di Shanghai, Si trasferisce in un modesto appartamento di Hong Kong, dove è caporedattore di un giornale. Di fianco al suo appartamento viene ad abitare anche una coppia composta da una segretaria, Li-zhen, e da un dirigente d'azienda. Sia la moglie di Chow che il marito di Li-zhen trascorrono lunghi periodi all'estero, apparentemente per motivi di lavoro, e a causa di queste lunghe assenze Chow e Li-zhen cominciano ad incontrarsi sul pianerottolo, a frequentarsi, ad andare a mangiare qualcosa insieme. Una sera a cena, parlando dei rispettivi coniugi, capiscono la realtà della situazione: i due sono diventati amanti. Dopo questa scoperta, i due protagonisti continuano a frequentarsi, diventano amici, scrivono insieme un libro che ottiene successo, drammatizzano insieme l'eventuale confessione dei propri coniugi. Più avanti, Chow decide di cambiare posto di lavoro, e per un po' i due non si vedono più, finché lui confesserà a Li-zhen che si è innamorato di lei e che ha deciso di partire per Singapore. Il marito di Li-zhen torna e lei dice a Chow che non lo cercherà più. Nel 1966 sia Li-zhen che Chow tornano a vedere il loro vecchi appartamenti, senza incrociarsi. L'ultima sequenza del film, ambientata nel 1969, ci mostra Chow in Cambogia, tra le rovine dei templi di Angkor Wat, che guarda e medita, e confida il suo segreto d'amore tra le fessure di un grande albero secolare.

Letta così la trama, il film sembrerebbe inserirsi in un genere cinematografico dai confini abbastanza ben definibili, quello del melodramma, e in una più generale e sfumata categoria estetica, comprendente non solo il cinema, ma anche la musica e la letteratura, che potremmo provvisoriamente definire tardoromantica. Su questa linea si potrebbe sottolineare la "follia" amorosa dei due personaggi che si esprime nel gesto estremo della rinuncia: quanto più il loro sentimento cresce, si rafforza, si scopre vero ed autentico, tanto più essi scelgono di non realizzare la loro storia, di rinunciare l'uno all'altro, di rinnegare se stessi fino a perdersi per sempre. Le parole pronunciate quasi con fierezza da Li-zhen, del resto, — "Noi non dobbiamo essere come loro" — fungono quasi da leit-motiv dell'intero film, suggellando così in una battuta l'infelice ineluttabilità del loro destino.

Insistendo su questa linea interpretativa, che privilegia il tema dell' "amour fou", potrebbero essere indicati come riferimenti cinematografici più vicini al film, le opere classiche di un Douglas Sirk e di un Truffaut, filtrati dalla sensibilità di un regista hongkonghese degli anni '90. Su questa linea, in effetti, si è soffermata la critica, sottolineando anche la "castità" delle immagini del film, come si esprime per esempio Piera Detassis: "Il regista di culto della nouvelle vague d'autore di Hong Kong dipinge con immagini estenuate e raffinate una Storia di amour fou che non ha bisogno di sesso e di arditezze per infiammare" ("Panorama", 24 Agosto 2000).

Come si diceva, questo aspetto tematico del film, oltre ai citati precedenti cinematografici, sembra risentire di un più generale tono tardoromantico, quasi un vero e proprio topos letterario che possiamo così sintetizzare: un amore è tanto più vero, tanto più autentico, quanto più resta inappagato, non detto, non realizzato. Questa suggestione è stata espressa con efficacia da un grande poeta tedesco del ‘900 come Rainer Maria Rilke nella Sua prima "Elegia duinese": "Se lo vuoi, canta allora le amanti; / non è ancora immortale il loro sentimento famoso. / Quelle che tu quasi invidi, le abbandonate, a te / più care delle appagate [...] . E poco dopo Rilke porta come esempio il caso di Gaspara Stampa, la cinquecentesca poetessa di gusto petrarchesco, infelice amante del conte Collaltino di Collalto; riferendosi alla sua vicenda, si chiede il poeta: "Non devono forse alla fine questi così antichi dolori / diventare fecondi per noi?".

In questa prospettiva, la Li-zhen del film che stiamo esaminando potrebbe risultare, con un accostamento ardito, una novella Gaspara Stampa, il cui infelice amore risulta "fecondo", cioè più intenso e arricchente di quanto lo potrebbe essere stata un'ordinaria vicenda sentimentale. Tutto questo discorso però non convince fino in fondo. 0 meglio, questa interpretazione che abbiamo chiamato "tardoromantica" del film, sembra a chi scrive parziale, superficiale, non rende giustizia della struttura razionale, filosofica, del film . Il grande film di Wong Kar-wai non può essere ridotto alla sola fabula, al racconto (peraltro splendido) dei fugaci incontri e degli esitanti dialoghi tra i due protagonisti. Giustamente Si è sottolineato che è un film costruito sulle ellissi, sui silenzi, sugli scarti, sulle parole non dette; ma ci chiediamo ora: perché tanto scrupolo e tanta parsimonia nel dosaggio del linguaggio verbale? Il regista vuole soltanto mostrarci la compostezza morale della Hong Kong degli anni '60 e il comportamento pudico dei protagonisti, che non possono esprimere un sentimento così profondo come il loro amore? Oppure quello che allo Spettatore viene presentato nei film è un profondo discorso sui limiti del linguaggio verbale, sulla comunicazione, sul confine tra il dicibile e il non dicibile?

Ed ecco allora che, nell'optare per quest'ultima interpretazione, può essere d'aiuto l'opera di un grande filosofo, il Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein, dialogando col quale si cerca di mettere in luce la struttura intrinsecamente razionale del film. L'interpretazione così proposta, lungi dall'essere un arbitrario esercizio di sterile erudizione, si prefigge di essere una via per meglio intendere il "pensiero" cinematografico del film: un pensiero che soltanto un'altra grande opera di pensiero può aiutarci a svelare e a comprendere.

II dire e il mostrare

Innanzitutto un rilievo metodologico. L'operazione interpretativa che ci apprestiamo a compiere presenta una precisa analogia con una strategia filosofica ben nota a chi abbia un po' di familiarità con la moderna filosofia analitica: quella cioè di evidenziare nel linguaggio, attraverso l'ausilio di simbologie logiche, una struttura profonda, che si cela sotto la sua struttura di superficie. Sviluppando l'analogia: come nel linguaggio la forma grammaticale nasconde e distorce la forma logica, così nell'opera filmica in questione la forma di superficie (diciamo "la pura vicenda", la "fabula") tende ad occultare la sua struttura razionale di fondo.

 

Ed ecco che per fare chiarezza nell'analisi può venire in aiuto il Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein, il quale fin dalla Prefazione dell'opera si dichiara interamente guidato dal desiderio di chiarezza logica: "Tutto ciò che può essere detto si può dire chiaramente; e su ciò, di cui non si può discorrere, si deve tacere" . L'intento principale di Wittgenstein è così quello di delimitare dall'interno, nel linguaggio, il senso dal nonsenso, ciò che può essere detto da ciò che non può essere detto: ossia delimitare il pensabile (il dicibile) e, con ciò, l'impensabile (l'indicibile) (4.114; 4.115). Là dove si possono correttamente porre domande e formulare problemi — insiste Wittgenstein nella proposizione 6.5 — si possono anche trovare le risposte, anche se, per trovarle, può essere richiesta grande fatica e una buona dose di ingegno; dove invece non si possono dare risposte, là non vi sono nemmeno domande da porre. Così, tutto ciò che può essere detto, può essere detto chiaramente attraverso le nostre proposizioni, e una proposizione ha senso soltanto se può essere vera e falsa. Dalle proposizioni dotate di senso, cioè, io non posso sapere a priori se esse sono di fatto vere o false, ma, se le comprendo, non posso non conoscere quale o quali stati di cose sussistano (o non sussistano) se esse sono vere .

 

Se si tiene conto di queste prime indicazioni wittgensteiniane, ecco che nell'analizzare il nostro film siamo immediatamente messi in guardia: tutto ciò che può essere detto può essere detto chiaramente, senza alcuna eccezione; il linguaggio verbale non ammette diverse gradazioni o sfumature, non esistono discorsi così profondi o sublimi che — se dotati di senso — non possano essere espressi dalle proposizioni del nostro linguaggio. Così, i silenzi, le frasi spezzate, incomplete o semplicemente taciute che caratterizzano gli incontri tra Chow e Li-zhen acquistano un nuovo e più profondo significato: se i due protagonisti si ostinano a non parlare direttamente della loro "disposizione per l'amore", è semplicemente perché questi discorsi non possono essere detti, sono privi di senso, non possono cioè essere formulati da proposizioni che fungano da immagini di stati di cose.

E un'immagine, per Wittgenstein, è una connessione o configurazione di elementi , i quali non sono accostati, per così dire, a casaccio, ma si trovano "in una determinata relazione l'un con l'altro"' (2.14). L'immagine è, prima di tutto, un fatto (2.141), un modello della realtà (2.12), che deve avere con quest'ultima qualcosa in comune per poterla raffigurare: ed è questo tratto comune tra immagine e realtà che il filosofo chiama forma logica, ossia la forma della realtà (2.18) .

Ora, ci si potrebbe chiedere, realtà come un'emozione, un sentimento nascente, una carezza, uno sguardo d'intesa, non essendo degli stati di cose ben determinati, come possono essere raffigurati dal linguaggio verbale? La sfera dei sentimenti umani così complessa, evanescente, multiforme, non chiaramente delimitata da un fatto, come può essere adeguatamente rappresentata da un'immagine, espressa da una proposizione verbale? Ecco quindi che il nodo dialettico del film emerge nell'impasse di fondo in cui vengono a trovarsi Li-zhen e Chow: il fatto di non poter dire ciò che per loro è più importante, e che perciò sarebbe massimamente degno di esser detto.

Resta ora da vedere se esistano altre vie, altre modalità per esprimere e per comunicare ciò che il linguaggio verbale non può rappresentare. A questo scopo, risultano assai utili altre indicazioni tratte dal testo di Wittgenstein, dalla sua teoria della raffigurazione (Abbildung), per la quale ci sono cose che, pur non potendo essere dette, possono essere mostrate; e per non appesantire troppo il discorso vorrei limitarmi a rilevare tre aspetti in cui emerge con chiarezza quella dialettica tra dire e mostrare che sorregge tutto l'impianto concettuale del Tractatus:

1) innanzitutto ciò che non può essere detto ma soltanto mostrato e la forma logica della proposizione, ciò che quest'ultima deve avere in comune con la realtà. L'immagine non può raffigurare la propria forma di raffigurazione, "essa la esibisce" (2.172). Per raffigurare la propria forma di raffigurazione, l'immagine dovrebbe infatti, per assurdo, guardarla (ossia guardarsi) dal di fuori.

2) In secondo luogo, sono le proposizioni della logica che non dicono nulla, ma semplicemente mostrano. Queste proposizioni sono infatti, per Wittgenstein, proposizioni limite, sono o tautologie o contraddizioni (6.1). La tautologia "ammette ogni possibile situazione", mentre la contraddizione non ne ammette nessuna (4.462). "Piove o non piove"', ad es., e una tautologia, è sempre vera, comunque stiano le cose;

"Piove e non piove" è invece una contraddizione, è sempre falsa, comunque stiano le cose .

3) Infine, ed è questo l'aspetto più interessante, ciò che non può essere detto è tutto ciò che per noi è più importante, quello che Wittgenstein chiama "il problema della vita", "il senso della vita": anche nell'ipotesi che abbiano avuto risposta tutte le domande scientifiche, "i nostri problemi vitali non saranno ancora neppure sfiorati. Certo, allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta" (6.52).

Ciò che per noi è più importante, l"enigma della vita", non è un fatto, uno stato di cose, e quindi, secondo la wittgensteiniana teoria della raffigurazione, esso è ineffabile, può soltanto essere esibito, mostrato: "Ma v'è dell'ineffabile. Esso mostra sé, è il Mistico" (6.522). Il linguaggio, chiarendo il suo limite, mostra così dall'interno il "Mistico", ossia l'inesprimibile, ciò a cui si può accennare ma non può essere detto: "Non come il mondo è [esprimibile dal linguaggio], e il Mistico, ma che esso è [non esprimibile dal linguaggio]" (6.44).

II valore etico del silenzio

E torniamo adesso al film che abbiamo preso in esame, per verificare se e come il discorso di Wittgenstein può aiutarci a chiarificare la sua Struttura razionale di fondo.

Innanzitutto va detto che i due protagonisti di In the Mood for Love hanno un dominio pressoché esclusivo nell'economia narrativa del film; tutti gli altri personaggi infatti (la Signora Suen, mamma Wong, il direttore dell'ufficio di Li-zhen, Ping...), sono quasi figure di contorno, e la loro presenza sullo schermo si giustifica soltanto per le relazioni che intrattengono con i due protagonisti. E noto, poi, che i rispettivi coniugi di Chow e di Li-zhen, non vengono mai inquadrati direttamente, ma solo in maniera indiretta (di spalle, nel riflesso di uno specchio...) oppure ne udiamo soltanto la voce.

 

 

Tutta l'attenzione di Wong Kar-wai si concentra così sulla relazione tra i due protagonisti, sui loro discorsi, sulle loro parole. I due personaggi, infatti, mano a mano che si conoscono e si frequentano, parlano, comunicano fra di loro; e tuttavia, ciò che per loro e massimamente importante, e cioè il nascere del loro sentimento, non viene mai detto direttamente, ma viene soltanto esibito, accennato allo sguardo dello spettatore del film.

 

 

Ad una prima lettura si potrebbe pensare che in questo modo il regista voglia rappresentare la compostezza etica di una società (la Hong Kong degli anni '60), o il carattere pudico dei due protagonisti, che non osano confessare i loro sentimenti più intimi.

Ma alla luce di quanto è stato detto, sembra che tutto questo non basti, che il film voglia dirci qualcosa di più, e si può così meglio esplicitare la tesi accennata sopra: il sentimento d'amore che nasce tra Chow e Li-zhen non viene mai detto perché non può essere detto in forza della struttura stessa del linguaggio. L'amore, e quindi la sfera dei sentimenti, fanno parte di ciò che c'è di più importante nella vita di una persona, e tuttavia non sono dei fatti, degli stati di cose, non possono essere detti, raffigurati dal linguaggio. Se i due protagonisti volessero apertamente dire il loro sentimento, causerebbero soltanto delle pseudo-proposizioni prive di senso; e tuttavia il nascere del loro amore viene mostrato, con scrupolo fenomenologico, nel film. 

A conferma di questa tesi, bisogna notare che le scene più importanti del film, maggiormente dense di significato e di virtualità semantica, sono quelle in cui i due protagonisti si incontrano senza dire una parola; pensiamo soprattutto alle splendide scene in cui Li-zhen e Chow si incrociano casualmente di sera, negli stretti vicoli di una Hong Kong perennemente bagnata dalla pioggia: in queste scene Wong Kar-wai ci mostra ciò che non può essere detto, attraverso il movimento elegante, rallentato e sinuoso della macchina da presa, e, soprattutto, attraverso il commento musicale.

 

La musica pura, priva di testo, è infatti ciò che maggiormente ha la capacità di alludere, di provocare delle suggestioni, senza legarsi ad alcun contenuto determinato: e in questo caso il valzer lento che funge da tema conduttore del film , con il suo bellissimo tema malinconico, esitante e sensuale, riesce ad "esibire" lo stato d'animo dei due personaggi molto meglio di tante parole che, wittgensteinianamente, non avrebbero alcun significato.

Anche le canzoni che sentiamo durante il film, del resto, non hanno tanto il compito di dire qualche cosa, di raccontare, ma semplicemente di alludere, di indicare: si pensi per esempio alle canzoni latinoamericane di Nat King Kole che sentiamo nelle scene al ristorante, col loro potere fortemente evocativo ("Quizás, quizás, quizás"). O ancora, nel sottofinale del film, quando Li-zhen telefona a Chow nell' ufficio di Singapore, dove lui si e ormai trasferito, lei rimane completamente in silenzio, nonostante egli continui a formulare richieste di contatto ("Pronto? Pronto?'"), e poi riattacca di scatto la cornetta: quasi a significare che tutte le parole che devono essere dette da Li-zhen vengono messe saldamente al loro posto semplicemente col tacerne.

A questo punto il legame col pensiero di Wittgenstein si fa veramente strettissimo, se andiamo a rileggere una celebre lettera che il filosofo austriaco scrive all'amico Ludwig von Ficker dove spiega in che modo il senso del suo libro è un senso etico: "[...] il mio lavoro consiste di due parti: di quello che ho scritto, e inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante. [...] In breve credo che: tutto ciò su cui molti oggi parlano a vanvera, io nel mio libro l'ho messo saldamente al suo posto, semplicemente col tacerne" .

Una conferma indiretta della plausibilità di questa lettura si ha poi nelle scene in cui i due personaggi "recitano", e Lizhen cerca di estorcere una confessione dal marito "impersonato" provvisoriamente da Chow. In questo caso, si potrebbero obiettare, Li-zhen parla direttamente della propria intima vita sentimentale, e anche in maniera diffusa. Ma si tratta appunto di una finzione, di una recitazione, e per questo le parole finiscono per perdere tutto il loro significato, e diventano ancora una volta prive di senso.

Ma il punto dove il film nella maniera più chiara conferma e approfondisce la sua rigorosa logica interna, basata sulla dialettica tra dicibile e non dicibile, è nello splendido e rarefatto finale. In Cambogia, tra le rovine dei templi di Angkor Wat, Chow bisbiglia tutta la sua storia, il suo più intimo sentimento, tutto ciò che non aveva mai potuto dire, al buco scavato sul tronco di un grande albero secolare. Ma, come sappiamo, queste cose non possono essere dette, non sono proposizioni che, attraverso immagini, raffigurino la realtà. E, infatti, le parole di Chow, non le sentiamo, come se il regista non volesse dare a loro importanza, perché effettivamente sono prive di senso. Tuttavia l'ultima ed estrema confessione di Chow viene magistralmente esibita, attraverso i lenti movimenti, per lo più semicircolari, della macchina da presa tra le rovine del tempio, nella fugace inquadratura di spalle di un monaco buddhista e del volto di Chow, che in un gesto liberatorio muove con scioltezza la sua bocca senza emettere alcun suono.

Ed e ancora una volta la musica che più di ogni altro elemento esibisce nella maniera più chiara ciò che non può essere detto: in questo caso uno struggente tema musicale di Michael Galasso viene affidato alla voce profonda e dolorosa dei violoncelli, che ben rappresentano il segreto di Chow, nel suo aspetto più malinconico, ma anche nel suo valore più "eterno", "sacro". Soltanto in quel gesto, infatti, in quel rituale del buco sull'albero, il segreto di Chow potrà diventare immortale, e nessuno lo verrà mai a sapere come egli stesso aveva detto all'amico Ping. Ma su quest'ultimo punto si vorrebbero spendere le considerazioni conclusive del discorso.

Conclusione

Uno dei dialoghi più belli e più importanti di In the Mood for Love si svolge verso la fine del film, in un ristorante di Singapore, e vede stranamente per protagonisti il solo Chow con Ping, il suo amico un po' volgare e fanfarone. Proprio a Ping, Chow racconta questa singolare leggenda tradizionale secondo cui, in un imprecisato passato, chi aveva un segreto e voleva che nessuno lo venisse mai a sapere, andava in montagna, scavava un buco sul tronco di un albero, e poi lo richiudeva col fango. Soltanto in questo modo, spiega Chow, il segreto sarebbe rimasto intatto e custodito per sempre. In questo modo Chow spiega anticipatamente il significato dell'epilogo del film, in cui egli stesso esegue scrupolosamente quel gesto, in una sequenza che, come si diceva, conclude con logica coerenza quella dialettica tra dire e mostrare che sorregge tutto l'impianto del film.

Tuttavia, a ben pensarci, i conti non tornano fino in fondo: il segreto più intimo di Chow, quello stesso segreto che attraverso il rituale finale vorrebbe custodire per l'eternità, in effetti non è così tanto segreto: l'impossibile storia d'amore tra lui e Li-zhen — di questo, come sappiamo, si tratta — si mostra, rivive e continuerà a rivivere negli occhi di ogni spettatore del film. Così, se spinto un po' più a fondo, dietro il racconto del segreto custodito nel buco di un albero, sembra che Wong Kar-wai voglia dirci qualcos'altro: se qualcuno ha un segreto veramente importante, l'unico modo che ha per custodirlo e renderlo eterno, è quello di imprimerlo sulla pellicola di un film .

 

Solo gli spettatori del film sono così degni di conoscere, di sperimentare e di rivivere il segreto di Chow, ciò che per la sua intrinseca struttura logico-linguistica non può essere detto ma può soltanto essere mostrato attraverso un'opera cinematografica. Ed è questa l'ultima conclusione che si vorrebbe trarre da tutte le considerazioni svolte: Se, assumendo la prospettiva wittgensteiniana, siamo convinti che "il problema della vita", e quindi ciò che per noi è più importante non può essere detto col nostro linguaggio, possiamo concludere che uno dei mezzi migliori con cui possiamo però mostrarlo e il cinema, che, insieme alla musica, e l'arte che ha il maggior potere evocativo; ha cioè il potere di alludere a qualcosa — un sentimento d'amore in questo caso — senza per questo dover esser costretto a rinchiuderlo in un preciso contenuto concettuale. E in questo, ad avviso di chi scrive, il film riecheggia il grande significato etico del Tractatus di Wittgenstein: quand'anche avessimo esaurito tutte le proposizioni che si possono correttamente costruire, avremmo descritto per intero il mondo, ma i nostri problemi non sarebbero stati neppure sfiorati, perché ‘il senso del mondo dev'esser fuori di esso [...]" (6.41). E, in fondo, il miglior commento al film potrebbe essere l'ultima, austera, celeberrima proposizione finale del "Tractatus"': "Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere" (7).

Note
J. Cabrera, Da Aristotele a Spielberg. Capire la filosofia attraverso i film, Bruno Mondadori, Milano 2000.

La stessa concezione è tipica di quei filosofi che Cabrera definisce "patici" o "cinematografici". nelle cui fila vengono annoverati soprattutto Schopenauer, Nietzsche, Kierkegaard, Heidegger; questi filosofi, infatti, non si sono limitati a tematizzare una componente affettiva, ma l'hanno di fatto inserita nella razionalità come una chiave essenziale di accesso al mondo" (Cabrera, op.cit., p. 6).

La categoria di tardo-romanticismo, come noto, viene adoperata soprattutto in storia della musica, per definire il periodo di quei musicisti post-wagneriani (come Bruckner e Mahler), che, col loro cromatismo esasperato, hanno allargato il sistema tonale, preannunciandone cosI la sua dissoluzione, coerentemente compiutasi con la dodecafonia di Schonberg . Per analogia, però, il termine può essere usato anche per le altre arti, come si cerca di spiegare più avanti nel testo.

R. M. Rilke, Elegie duinesi, a cura di F. Rella, Bur, Milano 1994, p. 45.

R.M.Rilke, op. cit., ivi.

E vogliamo ribadire: di ogni film, o almeno di ogni grande film, in quanta, se viene concepito come opera d'arte, si sorregge su una struttura razionale; di una razionalità che però non è semplicemente logica, ma logopatica.

Mi permetto di rimandare al classico saggio di B. Russell, On Denoting [trad. italiana B. Russell, Sulla denotazione. in Bonorni A. (a cura di), La struttura logica del linguaggio, Bompiani, Milano 19731, dove l'Autore distingue nelle proposizioni una forma logica sottostante alla loro forma grammaticale. Il suo intento è quello di svelare la reale forma logica delle proposizioni contenenti descrizioni definite (es. "L'attuale re di Francia è calvo"), per mostrare, contro la posizione di Frege, che sono anch'esse proposizioni dotate di un loro valore di verità (falso, in questo caso). Questa teoria russelliana resterà poi alla base dello stesso "Tractatus" di Wittgenstein, come mostra D. Marconi. La filosofia del linguaggio-Da Frege ai nostri giorni, Utet, Torino 1999, pp. 28 e segg.

L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, a cura di Arnedeo G. Conte, Einaudi, Torino 1995, p. 23. D'ora in avanti le proposizioni del "Tractatus" verranno indicate col numero dato loro dall'Autore.

Una proposizione, poi, può essere vera a falsa, cioè aver senso, soltanto se può concordare a non concordare con la realtà, essendo un'immagine (Bild) di uno stato di cose (Sachverhalt): "La proposizione può essere vera o falsa solo in quanto immagine della realtà" (4.06).

Si può parlare, quindi, riguardo al rapporto tra immagine e realtà, di isomorfismo, di comunanza di forma logica, ed è propria questo che permette alla proposizione di essere immagine della realtà: Ciò che un'immagine, di qualunque forma essa sia, deve avere in comune con la realtà, per poterla raffigurare — correttamente a falsamente —, è la forma logica, ossia la forma della realtà" (2.18).

Per questo la logica e "un'immagine speculare del mondo" (6.13), e le sue proposizioni "non dicono nulla" (4.461; 5.142), "non "trattano" di nulla" (6.124); e tuttavia mostrano "le proprietà formali — logiche — del mondo" (6.12), ossia quelle proprietà che costituiscono i tratti essenziali del linguaggio e, quindi, del mondo.

Vorrei accennare solo di sfuggita al grande paradosso del "Tractaus": le stesse proposizioni del libro, mentre enunciano le condizioni del senso e del non senso, non sono raffigurazioni di fatti, ossia sono prive di senso. Lo stesso Wittgenstein è cosciente di questo paradosso: "Le mie proposizioni si illuminano così: Colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è asceso per esse — su esse — oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo essere asceso su essa.) (6.54).

Anche il Kant della Kritik der Urteilskraft indica la musica priva di testo come esempio di bellezza libera, la quale "non presuppone alcun concetto di ciò che l'oggetto deve essere", e in questa distinta dalla bellezza aderente (I. Kant, Critica del Giudizio, trad. italiana di A. Gargiubo, nv. da V. Verra, Laterza, Ban 1970. p. 73).

Si tratta del Motivo di Yumeji di Shigeru Umebayashi, già utilizzato per il film omonimo di Seijun Suzuki.

L. Wittgenstein, Lettere a Ludwig von Ficker, trad. italiana di Dana Antiseni, Armanda, Roma 1974. pp. 72-73.

Il quale, nella nostra lettura, non può non ricordarci il tema del Mistica di wittgensteiniana memoria!

Devo la spunta per queste ultime osservazioni a una fine intuizione di Emanuela Martini: "Quella Hong Kong è sparita, consegnata, come ogni segreto che davvero canti, da Wong Kar-wai alla pellicola, che ci restituirà per sempre le caviglie evanescenti di Maggie Cheung, la passione sottile negli occhi di Tony Leung, la malinconia calda di Nat King Cole che canta "Quizás, quizás, quizás" (in Annuario FilmTv 2001. Edm, Milano 2001).

Filippo Bergonzoni
Premio Adelio Ferrero 2002 per i saggi.