Il tempo interiore della storia

C'è una nuova distanza nello sguardo del cinema coreano, una nuova capacità di riscrivere il tempo scisso della propria Storia e le sospensioni del presente sulla propria identità...

IL TEMPO INTERIORE DELLA STORIA "Nouvelle vague" coreana, Cannes '98

 

C'è una nuova distanza nello sguardo del cinema coreano, una nuova capacità di riscrivere il tempo scisso della propria Storia e le sospensioni del presente sulla propria identità, partendo da coordinate più intime, da punti di vista più interiori che sorgano da immagini più limpidamente personali e meno drammaturgicamente cariche. Dopo le avvisaglie giunte negli ultimi anni da vari Festival (e riassunte in certa misura dall'aggiornamento pesarese del 1997), a Cannes 1998 si è avuta la definitiva impressione dell'avanzare, nel panorama internazionale, di una vera e propria "nouvelle vague" coreana: una tendenza portata da tre autori e altrettante opere alquanto differenti tra loro, ma in cui è stato davvero possibile cogliere i segni di un rinnovamento che allinea il cinema coreano con umori ed emozioni meno ampollose e classiche e più in sintonia con le vaghe dispersioni del miglior cinema asiatico contemporaneo.

Come sempre non si tratta di un vero e proprio movimento coordinato e consapevole (come conferma la conversazione con Kwangmo Lee [...]), quanto piuttosto dell'emergere di singole personalità dalla forte consapevolezza autoriale, segnate dalla decisa tendenza a distaccarsi dagli scenari passati della propria cinematografia e capaci di riconsiderare la portata dello sguardo in uno spazio la cui profondità di campo si misura col metro del tempo interiore e sulla distanza degli eventi storici. Un cinema indiscutibilmente più lieve, impalpabile, trasparente rispetto a ieri, meno ripassato sulle proprie forme culturali e sui propri perimetri drammaturgici (il melodramma, certa coralità impetuosa), diverso dalla solida potenza degli sguardi degli autori più interessanti e amati della vecchia generazione coreana, dal maestro Im Kwon-taek ai vari Park Kwang-su, Ha Myaong-jung e altri ancora.

I nomi nuovi emersi da Cannes 1998 sono quelli di Kwangmo Lee, Hong Sangsoo e Hur Jin-ho, tre quasi-esordienti, nati agli inizi degli Anni '60 e caratterizzati da uno sguardo il cui languore si spinge in direzione di una non definitiva riflessione generazionale. Una riflessione che può attingere al tempo passato della propria identità storica e culturale (come nel caso di Kwangmo Lee), ma comunque si proietta sempre con lucida disillusione sugli spiazzamenti di un presente in continua attesa. Il più maturo dei tre cineasti appare proprio Kwangmo Lee, che con Spring in my hometown incide la tabula rasa di una identità storica e culturale coreana spianata prima dai giapponesi e poi dagli americani, raccontando, col tono dolente di un Hou Hsiao-hsien dalle risonanze coscienziali meno definite, la storia di un villaggio e di due piccoli amici alle prese col destino diverso delle rispettive famiglie di fronte agli eventi storici. La presenza dei soldati americani, la contrapposizione ideologica con chi si sentiva più vicino al comunismo, la continua dispersione culturale di un popolo diviso in sé, e non solo sul confine del 38° parallelo, sono le tracce di un film che si affida allo sguardo distante di un bambino e trova il proprio spazio di definizione nella separatezza con cui viene vissuta la figura paterna. Mentre lo sguardo di Kwangmo Lee aggiunge alla tensione lirica una forte consapevolezza, che lo porta a confrontarsi con le proprie ragioni senza rinunciare a una persistente e lucida carica emotiva.

È invece totalmente scritto sulla trasparenza del presente The power of Kangwon Province (presentato al Certain Regard), l'opera seconda di Hong Sangsoo, regista che s'era già fatto notare nel 1996 con il precedente The day a pig fell into the well. In questo suo nuovo film, Hong Sangsoo intreccia in sospensione le storie di due amanti (una giovane studentessa e il suo professore), che si sono appena separati e si ritrovano per caso nella regione montagnosa dei templi di Kangwondo. Distante da Seoul, il film dilata i tempi interiori dei protagonisti, si slarga in un'attesa di eventi intimi traditi dalla vana consistenza della realtà, sfibra le antiche risonanze dei luoghi intridendole del vuoto interiore che trasuda dalle figure che vi si muovono in assenza di un qualsiasi destino.

Nel confronto con l'agire interiore si colloca anche Christmas in august, opera prima di Hur Jin-ho (passata alla Semaine de la Critique). Si rientra a Seoul, in particolare negli spazi di un vecchio negozio di fotografie, dove il tempo sembra non trascorrere, dove i personaggi sostano e riappaiono nel mutare delle stagioni, trasformati da corpi in fantasmi erratici, in un luogo che da fisico diventa set mentale nel quale transitare. Rispetto a Hong Sangsoo, Hur Jin-ho cerca in misura più netta l'impalpabilità dei contorni, la "commedia umana" nel tempo della memoria. Christmas in august è una serie di istantanee su volti che il cinema cerca di trattenere (ben rappresentata dalla donna anziana che si fa fotografare in studio): fotografie-fotogrammi da riquadrare in spazi del ricordo oltre la vita, così vicini alla salvaguardia della memoria su cui lavora da tempo la giapponese Kawase Naomi. Cinema dell'intimità e dello sguardo timido, della distanza e dei silenzi, degli spazi vuoti che si riempiono di un vissuto più immaginato che visto. Traccia costante della "nouvelle vague" coreana.

Massimo Causo e Giuseppe Gariazzo