Quitting conferma un'idea di cinema di Zhang Yang che già i suoi precedenti film, Spicy Love Soup (1997) e Shower (1999), palesavano: un cinema dolciastro, molto scaltro, interessante, ma con poco nerbo

 

QUITTINGdi Zhang Yang

 

Quitting conferma un'idea di cinema di Zhang Yang che già i suoi precedenti film, Spicy Love Soup (1997) e Shower (1999), palesavano: un cinema dolciastro, molto scaltro, interessante per certi aspetti, soprattutto interni all'industria cinematografica cinese,ma con poco nerbo, e sempre intenzionato a concedersi al palato occidentale. Quitting – vera storia dell'attore cinese Jia Honghseng, star del cinema d'azione della fine degli anni Ottanta caduto in disgrazia tra alcol e droga, interpretata dai reali protagonisti della vicenda – parte bene, con stimolanti, anche se ultravecchiotte, suggestioni metafilmiche – tra finzione, realtà, palcoscenico, ricostruzione, cinema verità e quant'altro – e un bell'occhio per una disperazione generazionale silenziosa e pur crudele, quasi senza soluzione. Quasi, appunto. Ed è qui che il lavoro si ingrippa, perchè più va avanti, più diventa conciliante: bene o male tutto si aggiusta, perchè in fin dei conti sono tutti bravi e capaci. Ne risulta dunque un tedioso e banale arrampicamento verso la luce della sistemazione. Peccato, perchè c'era la possibilità di un chirurgico meccanismo di dolore nei meandri dell'istituzione famigliare, capace di arrivare perfino al sadomasochismo e all'autolesionismo, o di un profondo trattato sulle conseguenze umane, mentali e interpersonali del "quitting", ovvero dello "smettere": la rinuncia al lavoro, agli affetti, a se stessi, agli altri, all'amore, alle cose, alla vita, con curiosi agganci al cinema cinese di un passato assai prossimo, dentro un genere e coordinate tipici e curiosi. Yang sta cercando di uscire dalle secche spaventose dell'odierno cinema cinese, ma non è abbastanza duro e rigoroso con se stesso per riuscirci.

Pier Maria Bocchi