La strada verso casa - Wo De Fu Qin Mu Qin

Il racconto sta "solo" nella formula magica, ripetuta all'infinito, del "c'era una volta" e il disincanto della parola "fine".

 

LA STRADA VERSO CASAWo de fu qin mu qin

 

Un insegnante arriva in uno sperduto villaggio della Cina rivoluzionaria, nel '58. Zhao Di, la ragazza più bella del villaggio, si innamora perdutamente del giovane e farà di tutto per conquistarlo. Si sposeranno e vivranno insieme fino al '99, quando la morte dell'uomo riporterà al villaggio il figlio, che ormai vive e lavora in città. Il giovane ritrova così la madre, che si ostina nella decisione di seppellire il marito morto secondo la tradizione: la bara deve essere portata sulle spalle dall'ospedale al villaggio, perché lo spirito del defunto non dimentichi la strada di casa...

Nell'ultima opera di Zhang Yimou gli elementi che fanno il film sono due: una strada e il corpo dell'attrice che la percorre avanti e indietro, che la costeggia, che corre per le colline che affiancano il sentiero.

Quest'ossessione del tornare a casa è tipica di chi una casa non ce l'ha più: il regista – che evidentemente non abita più lì - rievoca una Cina perduta e batte e ribatte e ripercorre cento volte il sentiero mai dimenticato che non conduce in nessun posto. Infatti questa Cina ricostruita attraverso un lungo flash back di smaglianti colori rimane un corpo estraneo nettamente separato dalla sua cornice: un presente girato in un freddo bianco e nero che si serra come una tenaglia di gelo sul corpo acceso della parte centrale del film.

E lo scialo di sovrimpressioni, musica avvolgente, ralenty, paesaggi dilatati dal cinemascope, primi piani patinati denuncia tutta l'artificiosità dell'operazione (potenza organizzatrice e ambigua dell'impegno stilistico), il suo esistere solo come grandioso spettacolo: immaginario cinematografico sfavillante e disperatamente elegante, che svela la falsità del ricordo e istilla il dubbio di una ricostruzione fantastica, ammantata dal velo bugiardo della nostalgia. Impegnandosi ininterrottamente ad afferrare il passato, il linguaggio ne registra la sua inafferrabilità, il suo inevitabile carattere di messa in scena.

La protagonista passa il tempo a cercare di catturare in lontananza l'immagine dell'amato, moltiplicando i punti di vista: il pozzo, le colline, la porta di casa, le curve del sentiero, ogni luogo diventa punto di appostamenti visivi, innumerevoli torri di controllo dove qualsiasi sguardo converge in un unico, incandescente punto d'attenzione. E noi passiamo due ore di film a guardare il volto di una ragazza che cerca di vedere: gioco al raddoppio e spirale vertiginosa. Con questo film Zhang Yimou costruisce un melodramma crudelmente deprivato, monco di una delle sue parti costituenti: della coppia di innamorati la figura maschile è quasi inesistente, e il film si sbilancia pericolosamente sui primi piani di lei, come se il rimbalzo da un volto all'altro - ormai impossibile – fosse sostituito dalla monocorde insistenza su un unico motivo. Una palla che rimbalza sempre sullo stesso muro. Dove finisce il sentiero, finisce anche la storia, e il sentiero finisce dove finiscono i passi della protagonista. Che indicativamente non riesce mai a uscire dal villaggio: la storia, quella con la «S» maiuscola è fuori dal suo raggio d'azione, svapora e impallidisce insieme al carro che corre via portandosi via il suo futuro sposo. E' infatti solo il maestro a portare gli echi della rivoluzione maoista nel villaggio e, come per lui, anche alla Storia sono riservati pochi, fuggevoli cenni (non si sa nemmeno per quale motivo è allontanato dal villaggio e trattenuto a Pechino per due anni). Il discorso politico è ridotto a pretesto per uno dei motivi cardine del melò: la separazione forzata degli innamorati.

Quindi, ridotto il villaggio a una strada e a una scuola, separato il nucleo affettivo dal resto della nazione e dagli accadimenti della storia, il motivo melodrammatico rimane a zoppicare sui primi piani della protagonista. (...) Come nel precedente Non uno di meno, rimane l'edificio scolastico - centro d'irradiazione di suoni, filastrocche di bambini ripetute all'infinito, un pulsare di segnali sonori – a mandare il flebile richiamo di tradizioni dimenticate e a funzionare da baricentro simbolico di tutto il sistema culturale, perduto dopo la rivoluzione maoista.

Così, come nello splendido In the Mood for Love di Wong Kar-way, la prassi dell'amore è eliminata in una grande ellisse: compresa fra due cerimonie, quella dello sguardo (il duello visivo degli amanti) e quella funebre alla fine (nel presente, la strada è percorsa un'unica volta da un corteo funebre e il discorso finale del figlio nella scuola ha il sapore di una preghiera in memoria dei bambini, di cui il villaggio è tristemente vuoto), il racconto sta "solo" nella formula magica, ripetuta all'infinito, del "c'era una volta" e il disincanto della parola "fine". A pensarci bene, come tutte le storie d'amore.

Silvia Colombo