Disastro del Titan: turismo degli abissi verso ricerca di frontiera

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“Un'implosione catastrofica” ha distrutto il sommergibile Titan di OceanGate, a circa quattromila metri nel fondo dell’Oceano atlantico settentrionale. L’obiettivo della missione, ampiamente giudicata già in partenza come non sicura, era quello di condurre i passeggeri - un milionario britannico e un magnate pakistano con suo figlio, insieme al pilota e al CEO di OceanGate, tutti morti – fino al relitto del Titanic, al costo di 250 mila dollari a testa. Un turismo di lusso negli abissi, insomma, dall’esito catastrofico, che ha aperto numerose questioni sul senso di queste imprese. 

James Cameron, oltre ad essere il regista del kolossal cinematografico Titanic, è un esploratore delle profondità oceaniche. A bordo del batiscafo Deepsea Challenger, ha raggiunto in solitaria la Fossa delle Marianne, il punto più profondo al mondo, oltre diecimila metri, per prelevare campioni del suolo marino, documentare l’ambiente e aiutare la ricerca scientifica. In una recente intervista rilasciata al National Geographic, insieme al collega Bob Baillard, ha difeso l’attività di ricerca nei mari profondi, sottolineando che i veicoli subacquei utilizzati dagli scienziati sono "il prodotto di meticolosi test e di un’attenta gestione dei rischi", e ribadendo che la tragedia del Titan rappresenta "un fallimento ingegneristico e normativo" che si poteva evitare.  

Ne abbiamo parlato con Alessio Rovere, professore associato di Geografia Fisica e Geomorfologia presso il Dipartimento di Scienze Ambientali, Informatica e Statistica di Ca’ Foscari ed “external member” del MARUM - Center for Marine Environmental Sciences dell’Università di Brema, Germania, dove è stato ‘group leader’ per sette anni prima di rientrare in Italia.

Anche secondo Rovere l’esplorazione oceanica rappresenta uno degli ultimi fondamentali tasselli della ricerca scientifica ambientale, ma non è per tutti: “non ci si improvvisa esploratori. Chi fa ricerca in questo campo si prepara per anni, anche per decenni”, ci ha detto Rovere, che dirige una ricerca finanziata dallo European Research Council in campo costiero, sia emerso che sommerso, nel Mediterraneo e nell’ Oceano Atlantico, Pacifico e Indiano per studiare il cambiamento del livello del mare e migliorare gli scenari futuri. Anche se il ‘Deep sea’ non è esattamente il suo campo di studio, ha lavorato fianco a fianco con chi lavora a grandi profondità, e conosce bene rischi e benefici di questo tipo di operazioni.

Professore, cosa ci insegna la tragedia del Titan?

Secondo me, che non ci si improvvisa. In nessuna attività, ma tanto meno in profondità marine importanti, dove ogni problema tecnico si moltiplica per cento, se non per mille. Non ci si improvvisa né dal punto di vista tecnico né umano. Ho la netta sensazione che ci fosse già in partenza grande preoccupazione per questa missione, soprattutto per il mezzo non adeguato, e in generale mi spaventa l’idea che chiunque possa accedere a questo tipo di esperienze solo perchè può pagare. Chi fa questo lavoro ha una preparazione scientifica e tecnica molto importante, acquisita in decenni di esperienza. Io per esempio non ci andrei, non mi sento preparato a farlo.

Si fa ricerca a grandi profondità?

Sì, per prelevare campioni di acqua profonda, catalogare nuove specie marine, o campionare sedimenti in zone molto particolari dal punto di vista ambientale. Uno dei sommergibili più avanzati utilizzati per la ricerca è Alvin, dell’americana Woods Hole Oceanographic Institution (WHOI), che dagli anni ‘60 ha fatto oltre tremila immersioni a scopo scientifico con una media di profondità di 1.800 metri, ed è considerato come uno dei migliori nel campo delle ricerche marine. I mezzi utilizzati devono rispettare precisi standard di sicurezza ed essere certificati da istituti indipendenti internazionali. Al Titan mancava la certificazione, e questa è una delle più grandi accuse rivolte a OceanGate.

In campo scientifico, proprio per ridurre i rischi, la ricerca sta virando verso l’utilizzo di veicoli pilotati da remoto, come i ROV (Remotely Operated Vehicles), robot subacquei collegati con un cavo a una nave in superficie, alcuni in grado di immergersi anche fino a seimila metri. Oppure verso l'utilizzo di robot ‘indipendenti’, programmati per percorrere una rotta specifica. La ricerca sul campo è dominata da USA, Germania e Francia. Anche l’Italia ha centri di eccellenza, come l’OGS di Trieste. La Germania, in particolare, è molto avanzata nella progettazione di robot subacquei.

Quali sono i rischi maggiori delle immersioni a grandi profondità?

La pressione, che aumenta di un’atmosfera ogni dieci metri. Di fatto si viene ‘schiacciati’, e l’attrezzatura deve sopportare la pressione. Poi, noi non siamo fatti per respirare in acqua, abbiamo bisogno di un’aggiunta di aria. Il terzo punto di attenzione è che un piccolo guasto, come un guasto elettrico o un problema strutturale come una piccola falla, a migliaia di metri sott'acqua può trasformarsi in un grosso problema. Siamo in un ambiente ostile, che non è il nostro ambiente naturale. Nemmeno l’alta montagna è paragonabile. Forse le profondità oceaniche rappresentano per l’essere umano condizioni più simili a quelle dello spazio, con le dovute differenze. Questi rischi comunque sono noti, chi fa questo lavoro li sa.

A questo punto le chiedo: è giusto, secondo lei, fare turismo a questo livello?

Me lo sto chiedendo spesso, e la prima risposta è no. Però c’è un aspetto sul quale vorrei riflettere: durante queste missioni, noi scienziati capiamo l’urgenza di preservare il nostro pianeta. Forse coinvolgere nelle missioni sul campo persone potenzialmente molto influenti, far loro vedere ‘dal vivo’ la bellezza e la fragilità del nostro ambiente, può servire per indirizzare maggiori finanziamenti verso la ricerca e per orientare i decisori politici.

Come si forma una futura generazione di esploratori ed esploratrici marini?

Nei miei corsi tratto tutti i processi che avvengono sulla superficie del pianeta Terra, dalle cime dell’Himalaya fino a 50 mt di profondità sotto il livello del mare. Noi osserviamo la superficie terrestre, come esseri umani, da circa diecimila anni. Le osservazioni del mare profondo sono invece una delle ultime chiavi di lettura rimaste per completare la conoscenza del pianeta. Sappiamo più o meno tutto delle terre emerse, ma pochissimo di quelle sommerse. Conosciamo quasi meglio la superficie di Marte rispetto ai fondali dei nostri oceani. Il ‘Deep sea’ è l’ultima, affascinante, frontiera che ci rimane da superare. Studenti, studiosi, chiunque, secondo me, dovrebbe lasciarsi affascinare dalla curiosità di scoprire questo mondo sommerso. La Blue Sky research, la "scienza guidata dalla curiosità" è, secondo me, la cosa più importante, che spinge a scoprire tutto l’ecosistema ambientale terrestre. Gli oceani hanno un importante ruolo nel regolare il clima del pianeta, le profondità oceaniche sentiranno per ultime gli effetti del riscaldamento globale, ma quando succederà sarà una catastrofe. È tutto collegato e questo tipo di esplorazioni, se fatte bene, sono uno sprono alla conoscenza umana, non solo perché è utile ma anche perché  ne sappiamo ancora molto poco. Io ho intrapreso questa strada perché da piccolo avevo l’idolo di Jacques Cousteau.

Qual è l’obiettivo del suo progetto ERC WARMCOASTS - Sea level and extreme waves in the Last Interglacial?

Il progetto, che terminerà nel 2025, studia le variazioni del livello del mare a scale di tempo geologico, per capire come è cambiato durante climi caldi passati e quindi immaginare come potrebbe cambiare - in futuro - a causa di un riscaldamento climatico non naturale ma indotto dall’uomo. L’attività della mia squadra si concentra sulla superficie emersa. Studiamo i livelli del mare più alto nella costa atlantica delle Americhe, dalla Patagonia fino alla costa est degli USA, comprese le isole tropicali, e campioniamo scogliere coralline più alte di quelle attuali per studiare la loro formazione. I primi risultati ci confermano che il livello marino, nell’era precedente, era più altro di 2/7 metri e stiamo cercando di restringere questa forbice. L’era geologica considerata presentava un clima molto simile a quello che ci stiamo ponendo come obiettivo con l’Accordo di Parigi.

A.R. research is funded by the European Research Council (ERC) under the European Union’s Horizon 2020 research and innovation programme (grant agreement n. 802414)

 

Alessio Rovere accanto a una vecchia spiaggia - ora consolidata - che era attiva quando il clima era più caldo di oggi, circa 125.000 anni fa (Bahamas)

Quali sono i primi risultati?

In alcune scogliere coralline fossili iniziamo a rilevare segnali di un preoccupante innalzamento repentino del livello del mare, avvenuto nel passato geologico. Questo significa che esiste la possibilità, all’interno del nostro sistema planetario, che i ghiacci dei poli si fondano più velocemente rispetto a quello che vediamo oggi a causa del riscaldamento atmosferico. Il ghiaccio quindi non si fonde in maniera costante, ma può avere delle accelerazioni. Questa evidenza ci restituisce la misura di quanto catastrofico potrebbe essere lo scenario, magari non tra 50 ma tra 200 anni, se non invertiamo la tendenza. 

Gli abitanti delle coste sono consapevoli del rischio?

Per quello che ho potuto osservare, dipende molto dalle zone. Nelle zone maggiormente antropizzate, come la costa est degli Stati Uniti, c’è grande fiducia in soluzioni ingegneristiche che risolveranno la situazione. In altri luoghi, come nelle isole Fiji, o in atolli più piccoli, dove gli effetti delle inondazioni sono più costanti e preoccupanti e dove gli abitanti sono meno abituati a vedere investimenti infrastrutturali, la fiducia è minore e la preoccupazione è molto più alta. 

 

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Federica Scotellaro