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Mappe interattive per facilitare l'inclusione linguistica e sociale: nasce la web app Welcome to Venice

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Negli ultimi decenni, la Città Metropolitana di Venezia è diventata sempre più multiculturale e attraversata da lingue, tradizioni e necessità diverse che convivono nello stesso spazio urbano. Tra le comunità più numerose, quella bangladese ha costruito negli anni una presenza stabile e vitale, con oltre 20mila persone concentrate soprattutto tra Mestre e Marghera. Una presenza che porta con sé bisogni specifici di orientamento, accesso ai servizi e partecipazione alla vita cittadina.

È in questa direzione che si muove Welcome to Venice, una nuova web app nata nell’ambito del progetto PNRR CHANGES – Cultural Heritage Active Innovation for Next-Gen Sustainable Society  e nello specifico dello Spoke 9 CREST – Cultural Resources for Sustainable Tourism, di cui Ca’ Foscari è capofila.  

Coordinata dal professor Graziano Serragiotto e dalla professoressa Elisabetta Ragagnin, in collaborazione con le ricercatrici Valeria Tonioli, Giulia Ferro e Giulia Tardi e le mediatrici culturali Selina Akter e Sharmin Khandker Etu, Welcome to Venice è il risultato di un lavoro di ricerca applicata e co-progettazione con la comunità bangladese e con realtà del territorio come l’AULSS3 di Venezia, l’Ufficio Migrazioni: Orientamento Mediazione Integrazione - Servizio Pronto intervento sociale, Inclusione e Mediazione e i Servizi Educativi del Comune di Venezia - Direzione Coesione Sociale , così come la Rete Biblioteche Venezia.

Lo scopo è quello di rendere più accessibile la città e facilitare la comunicazione tra le persone e le istituzioni locali: in linea con gli obiettivi di CHANGES e CREST, la web app cafoscarina unisce infatti mediazione culturale e linguistica e partecipazione attiva per promuovere un patrimonio urbano e linguistico condiviso e comprensibile da tutti e tutte. Un patrimonio che comprende parchi, servizi, spazi quotidiani della vita cittadina, ma anche le competenze comunicative e le informazioni fondamentali per la sua fruizione. 

“La web app nasce da anni di collaborazioni sul territorio”, raccontano le ricercatrici Valeria Tonioli e Giulia Ferro “Molte persone bangladesi ci raccontavano di aver ricevuto svariate indicazioni su dove recarsi per accedere ai servizi sanitari o amministrativi, ma di non sapere di cosa si trattasse, perché nel loro Paese quei servizi semplicemente non esistono”.

Da queste esperienze è nata l’idea di creare uno strumento capace di restare nel tempo, utile e facilmente condivisibile. “Sul territorio ci sono molte iniziative rivolte alla comunità bangladese”, spiegano “ma spesso, a causa della mancanza di fondi, non vi sono materiali informativi o mediatori disponibili. Serviva qualcosa di stabile, consultabile in autonomia, anche in situazioni di urgenza”. 

Il processo di realizzazione si è basato su un metodo tipico della ricerca partecipativa ed etnografica, la cosiddetta ‘participatory research’, che mette al centro i bisogni e le necessità delle comunità con cui si lavora, rendendoli soggetti attivi con una voce in capitolo.
Il team di ricerca e le mediatrici culturali hanno coinvolto più di 100 persone di nazionalità bangladese in diversi incontri, raccogliendo indicazioni e testando la comprensione dei contenuti in un processo circolare. Il gruppo ha iniziato con mappe cartacee, poi trasformate in mappe digitali. “Le persone hanno scelto i colori per i diversi servizi — rosso per la salute, giallo per la scuola, verde per i parchi — e ci hanno aiutato a mappare, spiegare e nominare i luoghi secondo l’uso comune nella comunità. Così, ad esempio, il Parco Piraghetto di Mestre compare come ‘parco delle anatre’, perché tra le mamme della comunità è conosciuto con questo nome.

Uno degli aspetti centrali del progetto è proprio l’attenzione alla lingua. La web app utilizza un bangla e un italiano semplificati, pensati per essere compresi - ma anche utilizzati - da persone con diversi livelli di alfabetizzazione. “Abbiamo girato anche dei video in bengalese durante l’evento di presentazione”, spiega la dott.ssa Ferro, “così da rendere accessibili le informazioni anche a chi non sa leggere o scrivere”.

Le differenze linguistiche e sociali all’interno della comunità hanno richiesto un’attenzione particolare. “Abbiamo incontrato gruppi molto diversi: più di cento persone, uomini e donne arrivati di recente o presenti da oltre dieci anni, con livelli di istruzione e occupazioni differenti. Per questo abbiamo scelto parole semplici e parafrasi in bengali, evitando l’uso di termini inglesi che non tutti conoscono”.

La mappa digitale include oggi numeri utili, servizi di emergenza, scuole, trasporti, spazi verdi, ma anche luoghi di incontro e informazioni su eventi e feste che si svolgono in città. “I cittadini e le cittadine hanno deciso di inserire anche aspetti legati alla vita sociale, come le feste che si possono celebrare nei parchi. Ci sono quindi informazioni su aspetti ludici e di aggregazione che possono aiutare anche persone arrivate da poco e che non hanno parenti sul territorio ad integrarsi con la comunità”, sottolinea Tonioli.

Welcome to Venice non si limita a offrire uno strumento digitale, ma propone anche un vero e proprio modello di collaborazione tra università, istituzioni e cittadinanza. Insieme ai sillabi multiculturali per l’insegnamento elaborati nell’ambito del progetto, la web app contribuisce a promuovere l’apprendimento linguistico e lo scambio interculturale. “Nelle varie fasi del processo e nella web app, abbiamo sempre spinto sull’importanza di imparare l’italiano, per favorire l’inclusione, la piena partecipazione alla vita cittadina e per far sì ché ci possa essere uno scambio più profondo tra le diverse comunità sul territorio”, spiega Ferro. 

Il progetto continua a evolversi: dopo l’evento di presentazione tenutosi lo scorso 17 ottobre, sono già in corso nuove fasi di mappatura di spazi culturali come cinema e musei e, in futuro, la piattaforma potrebbe essere estesa ad altre lingue. “L’obiettivo”, concludono le ricercatrici, “è condividere Welcome to Venice come best practice replicabile anche in altri contesti, dove la presenza di comunità internazionali rende necessario un linguaggio comune per abitare la città”.

Francesca Favaro