Public Toilet è metafisica fatta con materiale di scarto perché, come diceva Sant'Agostino, "si nasce tra feci e urine".

RENMIN GONGCHEPublic Toilet di Fruit Chan

 

Viviamo in un mondo di merda, dice Fruit Chan. E non sta certo facendo politica. La sua è una constatazione letterale, con tutte le puzze e i disgusti del caso. È metafisica fatta con materiale di scarto perché, come diceva Sant'Agostino, «si nasce tra feci e urine». Public Toilet perlustra fogne come fossero argomenti gnoseologici ed esplora cessi di tutto il mondo, templi in cui si celebra il sacrificio quotidiano al dio materia. «Espelliamo ciò che ingeriamo» (né più né meno), dice il saggio cinese. Siamo attraversati dalle cose in un infinito riciclaggio di terra e cielo, idee e desideri, divinità ed escrementi. E ad attenderci c'è sempre lei, la morte, magari in forma di carrellata all'indietro, con l'ultimo sospiro esalato in un wc pubblico (maledetta stitichezza!), e l'accompagnamento di Bach.

In principio c'è il "dio del gabinetto", un bambino partorito in una turca, sopravvissuto cibandosi di ciò che trovava laggiù, e oggi guardiano del vespasiano: chi meglio di lui conosce il segreto della vita? Per mezz'ora rimaniamo nei paraggi di quel cesso pubblico a Hong Kong (con una breve escursione in terra coreana), dove si va a chiacchierare, a fumare in compagnia, anche a fantasticare. Ci chiediamo: sarà il solito gioco? La "situazione" esplorata in tutti i suoi estremi grotteschi e metaforici (alla Hollywood Hong Kong, visto a Venezia 2001)? Non sarebbe poi così male, visto che le invenzioni sono gustose e abbondanti: si va dai quadretti caravaggeschi e le esalazioni sublimate in cinema degli interni-cesso, alla lirica esplorazione di una fogna che è tutta liquido amniotico (anche in Trainspotting si va dentro un water, ma "dall'altra parte" c'è un al di là artificiale in cui annichilirsi; qui si entra in Cina e si sbuca in Corea, si entra in Corea e si esce a Manhattan); per non parlare della sirena coprofaga uscita da un vespasiano, malata terminale di tutte le malattie che l'uomo scarica in mare.

Poi, all'improvviso, il film esplode in tutte le direzioni, narrative e geografiche, si mette a parlare cinque lingue e a frequentare tradizioni e modernizzazioni di mezzo mondo: Hong Kong e Pusan, Calcutta e New York, Roma e Pechino. È la ricerca del Graal, il rimedio miracoloso alla malattia, e quindi alla morte, per salvare una nonna, una madre, un amico, una sirena. Vari personaggi, che diventa difficile seguire, viaggiano da Est a Ovest, da Ovest a Est, da Confucio all'induismo, dalla metropoli nordamericana alla muraglia cinese, dalla ritualità maoista all'apologo tarantiniano, dalla realtà alla fantasia... Anche se, lo capiremo dopo, la ricerca è già cominciata nella cloaca del prologo e forse là era già finita. E mentre la non-trama comincia a contorcersi in varie direzioni e distrazioni, il digitale si fa sempre più invadente e, da passivo supporto pittorico, diventa un altro aspetto del "discorso". Scarti digitali finiscono ingeriti ed espulsi dall'inerme spettatore sbalzato da una minzione collettiva "teatrale" in quel di Pechino a un'immersione nel Gange tipo documento etnologico, da una passeggiata filosofica indù con vista su Bollywood a una sparatoria newyorchese in meta-cinema.

Non ci sono regole. Qui il digitale ha davvero una sua "metafisica" (come dovrebbe averne ogni tecnica), che è quella di un'anarchica dilatazione della percezione e una viscerale accumulazione di "scarti" (assimilazioni evacuate). In un cesso pubblico di Manhattan – dove un killer che fa testamento in video si è arrampicato su una cabina telefonica per essere all'altezza della Statua della Libertà – viene ambientata una sparatoria con doppia camera e replay; ma la "sequenza verità" finisce in fondo al mare, il grande mare amniotico, e diventa materiale di scarto come gli altri, uomini, speranze e storie da cinema. Due vecchi guardano su una tv portatile la fine di un'aragosta divorata da un polipo, svelando il mistero della bestia scomparsa, che fa parte di un'altra storia, forse di un altro film. Sono gli stessi che, in bagno, raccontano i tempi in cui l'imperatore cinese si faceva controllare gli escrementi, per conoscere presente e futuro della propria salute. Gli stessi che parlano delle misteriose ricerche di moderni alchimisti, convinti di fare miracoli con l'urina di donne vergini o di trovare l'oro nelle feci. Corpo e anima sono la stessa cosa se osservate con lo sguardo (digitale) giusto. «Ciò che è in alto è uguale a ciò che è in basso», diceva Ermete Trismegisto. E infatti, quando il "dio del gabinetto" si racconta in voce off (fuori da che?), l'immagine è fissa su di lui mentre la neve cade al contrario,dalla terra verso il cielo.

Fruit Chan ci lascia in bilico fra stupore e schifezza, con inventiva ironia (certi dialoghi surreali) e improvvise seriosità (certe sentenze esistenziali), è vorace e visionario, furbo come un Autore e libero come uno che conosce il valore dell'evacuazione (in tutti i sensi). Mischia brandelli di culture varie con l'istinto del globalizzatore, ma in senso quasi rinascimentale, con tutto il rimosso (il puzzo) del "medioevo"e l'enciclopedismo di massa che verrà. Evita di mettere insieme una vera sceneggiatura, per non sprecare energia cinetica, e se ne va in giro per il mondo a fotografare il tumore che ci sta uccidendo tutti. Gli errori sono tutti per eccesso di generosità. Ogni interpretazione è lecita: ecologista, buddista, mistica, postmoderna. Mao su una banconota sorride o si intristisce a seconda di come lo guardi. Alla fine la razza umana si muove in fila indiana su un orizzonte, verso dove non si sa, alla ricerca della soluzione di tutti i nostri mali. L'importante è non perdere di vista (anzi, di naso) l'odore vero dell'esistenza, le sue viscere: «La nostra vita quotidiana consiste nello svegliarsi, vestirsi, mangiare, muoversi e dormire. Consiste anche nel defecare». Anche.

Fabrizio Tassi