Im Kwon-taek è il maestro riconosciuto da tutti del cinema sudcoreano. Nato nel '36, ha all'attivo, a partire dal '62, una filmografia di quasi cento film...

 

 

 

 

CH'WIHWASŎN (Ubriaco di donne e di pittura) di Im Kwon-taek

 

Regia: Im Kwon-taek. Sceneggiatura: Im Kwon-taek, Kim Young-ok. Fotografia: Jung Il-sung. Scenografia: Ju Byoung-do. Montaggio: Park Sun-duk. Musica: Kim Young-dong. Interpreti: Kim Yeo-jin, Son Ye-jin, Choi Min-sik, Ahn Sung-ki, You Ho-jeong. Produttore: Lee Tae-won. Produzione: Taehung Pictures. Distribuzione: Cinema Service. Corea del Sud, 2002, 35 mm, colore, 120'.

Im Kwon-taek è il maestro riconosciuto da tutti del cinema sudcoreano. Nato nel '36, ha all'attivo, a partire dal '62, una filmografia spropositata: quasi cento film (98 per la precisione), realizzati anche al ritmo di sette all'anno (solo negli ultimi tempi ha ridotto la sua prolificità): film d'azione, di guerra, storici, melodrammi, film commerciali e spettacolari (molti dei quali andati smarriti per sempre), poi, a partire dalla metà degli anni '70, film "d'autore", realizzati con uno stile molto personale.

Si è spesso occupato degli sviluppi storici e culturali del suo paese, della condizione delle donne, dei movimenti religiosi minoritari, del recupero e della valorizzazione della cultura tradizionale: «Penso che il nostro cinema abbia il compito di riportare in vita le nostre radici perdute», ha detto in un'intervista dieci anni fa «le radici della nostra cultura, che consistono per me nella ricerca della natura umana». Si batte da sempre, però, nei suoi film anche in difesa della libertà di giudizio e d'azione dell'individuo, concetto estraneo all'ideologia confuciana che ha caratterizzato la cultura del vivere in Corea per tutti i 500 anni del dominio della dinastia Chosun, fino all'occupazione giapponese del 1909 (la precedente dinastia coreana, Koryo, aveva favorito la diffusione del buddismo).

Nei film di Im Kwon-taek è ricorrente la soluzione narrativa del flashback, capace di legare tempi diversi e di sottolineare l'importanza della memoria, così come la fissità dell'inquadratura. Ha detto a questo proposito: «La mia macchina da presa ideale è fissa. C'è un concetto tradizionale coreano conosciuto come "Chong Chun-dong", in cui "Chong" significa calmo e fisso, e "Dong" significa "in movimento". Quindi movimento (o azione) all'interno della fissità. Questo è il concetto che voglio esprimere con le mie inquadrature fisse». Im è stato un autodidatta di talento e un giovane dalla vita avventurosa: dopo una educazione basata sulla tradizione, ha avuto la famiglia colpita duramente dalla guerra civile (lo zio era fuggito al nord del paese, i cugini si erano dati alla guerriglia e la madre era stata sottoposta ad arresti e torture), è andato via da casa a 17 anni e ha condotto per lungo tempo una vita da vagabondo, facendo mille mestieri e approdando al cinema solo casualmente. Ha raccontato di aver speso in bevute e bisbocce buona parte di quanto ha guadagnato con i suoi film commerciali degli anni '60 e dei primi '70. Solo negli ultimi anni, con Mandara (1981), Gilsottum (1985), Sopyonje (1993), Chukje (1996) e Chunhyang (2000), è approdato alla ribalta dei festival internazionali: Berlino, Venezia, Shanghai, Cannes e Pesaro (che gli ha dedicato una personale-omaggio nel 1992).


Questo resoconto dell'esistenza e delle idee estetiche del regista ci è utile per affrontare il suo ultimo, splendido film [...] che s'ispira alla biografia (narrata in un romanzo di Min Pyong-Sam a partire dai pochi dati noti e da qualche rara e preziosa testimonianza) del celebre – anche se del tutto sconosciuto da noi, almeno finora – pittore coreano Jang Seung Up, detto Ohwon, nato nel 1843 e misteriosamente scomparso nel 1897. Il film ci permette di compiere un viaggio nel tempo e nello spazio, in un altro mondo e in un'altra epoca (in un'altra dimensione visiva, cioè culturale), molto diversa dalla nostra e ancora basata su un'ideale fusione fra vita e arte. Ne deriva un senso di meraviglia e come di stordimento, grazie soprattutto alla rigorosa composizione delle inquadrature, alla giustapposizione fra scene d'ambiente naturale e dipinti, alla conduzione spedita del racconto, ricco di rapide ellissi e sintesi narrative, e alle non didascaliche ma perfettamente funzionali note informative sulla musica, i costumi sociali (il ruolo e la vita delle prostitute, ad esempio, il rapporto maestro-allievo o il comportamento dei clan e dei movimenti politici), le cerimonie e i rituali, l'abbigliamento tradizionale (i copricapo maschili caratterizzanti le distinzioni di casta), la poesia e la pittura (quella d'importazione cinese, quella autoctona alta e quella pornografica e popolare) del tempo.

Ma un ruolo fondamentale è giocato anche dal protagonista: un artista vagabondo, stravagante e anticonformista, dalle umili origini e dal talento geniale, capace di altissime sintesi espressive e perennemente furioso, irascibile (fino ad esercitarsi in innocenti crudeltà quotidiane), rapito dalla furia dell'ispirazione e instancabile nel suo lavoro (perennemente rimesso in discussione secondo il dettato «Non voglio fare ciò che gli altri si aspettano da me, altrimenti sarei prigioniero! Per un artista la ripetizione è morte»), dal temperamento maniaco-depressivo – oggi si direbbe bipolare – che ha caratterizzato tanti personaggi di genio (le affinità qui si sprecano, ma non possiamo non menzionare i suoi contemporanei Van Gogh e Gauguin), e al contempo un uomo passionale, forsennato, dotato di una straordinaria vitalità e incline ai più piacevoli eccessi («Senza vino e senza donne non posso avere ispirazione!»). La sua esistenza – narrata a ritroso – è interamente dedicata alla pittura (estranea al realimo allora dominante in Corea, spinta ai limiti estremi dell'immaginazione – grazie ad una fantasia senza confini – e intesa come mezzo espressivo autonomo, senza altra finalità), alle donne, all'alcool e al culto per le poche altre cose che contano: inventare sempre continuamente la propria vita e la propria arte, coltivando il rispetto per le tradizioni e per i maestri, ma distaccandosene al contempo liberamente («Sembra», commenta un suo ammiratore «che lavori secondo le regole, ma in realtà le infrange»).

L'autore segue con dedizione il movimento randagio, inarrestabile del protagonista – dall'infanzia durissima all'apprendistato, dalla formazione alla maturità fino all'enigmatica scomparsa – attraverso diverse regioni del paese, elabora quadri viventi di grande suggestione (in cui ammiriamo corrispondenze folgoranti fra dipinti ed elementi naturali), si sofferma sulla sensualità degli incontri amorosi e sulla viva materialità del fare arte, sulla tecnica manuale e sulle necessità che accompagnano comunque la vita anarchica del pittore (saggio sbeffeggiatore dell'ufficialità e di ogni compostezza perbenista ma consapevole del dover campare vendendo le proprie opere) esaltandone l'individualismo (l'autoisolamento da una società dominata – come tutte e come sempre – dall'ottuso, comune buonsenso) e stabilendo esplicitamente la profonda affinità fra il (suo) cinema e la pittura (di Ohwon): «Credo che il dio ubriaco della pittura Jang Seung Up, che ho incontrato spiritualmente mentre mi accingevo a realizzare il film, sia un'altra manifestazione di me: io mi sforzo di fare dell'arte con la mia macchina da presa come lui impugnava il pennello cento anni fa».

Pierpaolo Loffreda