Pramtesh Chandra Baruā (1903-51): La creazione del nuovo mito

P.C. Baruā, assamese, figlio del raja di Gauripur, ha dato al cinema indiano il mito più influente e duraturo dei tempi moderni. A distanza di oltre mezzo secolo dalla morte e dopo aver diretto numerosi film di successo, rimane ancora nella storia e nella memoria come il creatore di Devdās (1935).

 

 

 

 

Principi, nababbi e maragià sono figure familiari nel variopinto quadro dell'India misteriosa. Anche Pramtesh Chandra Baruā era un principe: un irresistibile Principe Azzurro - scrive Chidānanda Dās Gupta (1981) - sceso tra il popolo per onorarlo con la sua stessa presenza; un aristocratico che amava i cavalli, la caccia, la danza e la musica; un regista che univa l'arte con il botteghino, la rivolta con il conformismo, il sentimento con il cinismo, il vizio con la virtù. È ben vero che l'intento di Chidānanda Dās Gupta è di ridimensionarne la consistenza, ma l'immagine di P.C. Baruā (come in genere viene indicato) rimane ancora questa, a distanza di oltre mezzo secolo dalla sua morte.

Di origine assamese, figlio del rājā di Gauripur, dopo gli studi all'elitario Presidency College di Calcutta, ha occasione di visitare l'Europa e, insieme, di vedere molti film, soprattutto quelli di René Clair e di Ernst Lubitsch. Inizia la sua attività cinematografica come attore nel 1930, durante gli ultimi giorni del muto. Nel 1931 si avventura nella produzione con Aprādhī (Colpevole), che ha una certa risonanza critica ed è diretto da un regista importante, il bengalese Debkī Bos (1898-1971). Dal 1932 al 1940, anche perché rimasto privo del generoso sostegno finanziario del padre, che non vedeva di buon occhio il suo interesse per il cinema, P.C. Baruā lavora per i New Theatres (1931), una delle più importanti compagnie di produzione bengalesi, fondata da B.N. Sarkār (1901-80), il quale mostra una grande fiducia nel giovane regista. E questa fiducia si dimostra ben riposta, dal momento che le opere di maggior riuscita dei New Theatres sono quelle realizzate da P.C. Baruā, che nel 1935 dirige il film che entra, insieme con il suo realizzatore, nella storia e nella leggenda del cinema indiano, Devdās. Benché il successo di questo film non venga mai eguagliato, P.C. Baruā dirige e, spesso, recita in altri film di rilievo in cui si dispiega la vena romantica e tragica del cineasta. Tra questi, Grihdāh (La casa in fiamme; o Manzil, La meta, 1936) vede due amici - Mahim, di modeste condizioni economiche, e il ricco Suresh - innamorati entrambi Achlā, una donna educata secondo idee moderne. È Mahim a sposarla e con lei va a vivere in un villaggio. Quando Mahim si ammala e viene portato in una clinica per la convalescenza, Suresh ne approfitta per tentare di coinvolgere Achlā in un romantico interludio. Il finale vede una Achlā pentita che segue il marito lungo una strada buia. In Mukti (Liberazione, 1937), il regista recita nel ruolo di Prashānt, un giovane pittore che, per liberare la moglie Chitrā dal peso di un matrimonio e da un legame ormai finito, si ritira a vivere nelle foreste dell'Assam e viene creduto morto. Chitrā, intanto, si innamora di un altro e con lui si reca proprio nelle foreste dell'Assam, a caccia di elefanti. Per salvare Chitrā, rapita da un mercante locale, nemico giurato di Prashānt, questi viene ucciso, offrendo così alla moglie la liberazione definitiva a cui aspira. Adhikār (Il diritto, 1938), considerato dalla Film Journalists Association come il miglior film dell'anno, è una vicenda di eredità contesa tra Indirā, figlia legittima di un padre molto ricco, e la sorella illegittima, Rādhā, che vive nella povertà. Quando Rādhā si presenta a reclamare la sua parte, Indirā acconsente a dividere con lei i beni paterni. Ma Rādhā non si accontenta e cerca di conquistare anche l'amore di Nikhilesh, fidanzato di Indirā. Rādhā risulta poi essere l'unica erede legale, ma Nikhilesh non cede alle sue lusinghe e sposa Indirā, mentre la sorella lotta per ritrovare l'affetto di Ratan, il compagno dei giorni di miseria. Tutti i film citati hanno due versioni, una bengalese e una per il più vasto mercato hindi, con attori, sceneggiatori, musicisti e operatori diversi nelle due versioni, pratica per altro diffusa anche in cinematografie di altre lingue, come quella marathi.

Dopo il 1940, P.C. Baruā scioglie l'impegno esclusivo con i New Theatres, per collaborare con altre compagnie di produzione. Benché continui a lavorare fino all'anno della morte, l'ultimo film importante, Shesh uttar (L'ultima risposta; Javāb, nella versione hindi), è del 1942. Qui, il ricco Manoj viene mandato presso il futuro suocero per un periodo di riposo che dovrebbe curarlo della sua depressione, ma si perde e viene ospitato nella modesta casa del capostazione di un piccolo centro. La vicinanza di Mīnā, figlia del capostazione, riesce a scuotere Manoj che alla fine, tra la ricca e viziata fidanzata Rebā e la povera e saggia Mīnā, sceglierà di sposare quest'ultima.

Le opere citate presentano diversi elementi comuni, primo fra tutti una generica esaltazione del mondo rurale, semplice e sincero, contrapposto al mondo urbano, territorio dell'avidità e della falsità dei rapporti. Tale contrasto si riflette nella rappresentazione della figura femminile, in cui non si può non notare l'antipatia del cineasta nei confronti della donna "moderna", ovvero - nella sua ottica - egoista e avida, portatrice di caos e sofferenza; e, di converso, la glorificazione della donna ideale, le cui caratteristiche dominanti (secondo la visione "tradizionale", antica e nuova a un tempo; si veda Chatterjee 1993) sono le qualità spirituali del sacrificio di sé, della generosità e della devozione. Infine, l'eroe: fragile, bisognoso della protezione femminle, incapace di crescere, introverso, sofferente per amore, ma - come osserva Ch. Dās Gupta (1981) - per amore di se stesso, poiché la sua sofferenza non genera alcun bisogno o tentativo di cambiare o di agire sulle condizioni ne sono all'origine. L'eroe di P.C. Baruā si dimostra capace di una sola forma di ribellione sociale: l'autodistruzione. Tutti questi elementi si presentano in forma paradigmatica in Devdās, in cui due innamorati - Devdās e Pāro - non possono sposarsi per l'opposizione della ricca famiglia di lui. Pāro dovrà sposare un vecchio vedovo, per il quale sarà una sposa esemplare e una madre amorosa per i figliastri. Devdās, invece, distrutto da dolore, consumato dall'alcol e soccorso da Chandramukhī, la prostituta redenta dall'amore, andrà a morire davanti alla porta di Pāro, senza poterla vedere un'ultima volta. Il film ha avuto un successo unico nella storia del cinema indiano e ha completamente identificato P.C. Baruā con il personaggio di Devdās, dal quale non ha mai potuto svincolarsi: quando il Principe Azzurro del cinema indiano - in circostanze non diverse da quelle dell'eroe del film - muore a 48 anni, il 29 novembre 1951, il necrologio della rivista dell'Associazione cinematografica bengalese lo commemora appunto come il creatore di Devdās. Anzi, la sua propensione al bere ha indotto alcuni a pensare che il film non fosse altro che una trasposizione cinematografica della sua vita. Anche accanto a P.C. Baruā, fra l'altro, c'erano due donne: del tutto legittimamente, visto che erano le sue mogli (la bigamia viene abolita nel 1956, per gli hindu). Una di loro è la Pāro delle due versioni di Devdās e interprete di molti altri film del marito, l'ormai 82enne Jamunā, che nell'edizione del 2002 dell'International Film Festival of India ha presenziato, insieme al figlio, alla presentazione della versione bengalese di Devdās, che tornava per la prima volta in India, dopo la Partizione del 1947, dalla cineteca nazionale del Bangladesh, dove ha fatto velocemente ritorno. A parte l'ammirazione suscitata tra il pubblico, Devdās ha esercitato una vera e propria fascinazione su generazioni di cineasti degli anni successivi, bengalesi e non, e ha prodotto diverse trasposizioni filmiche della vicenda. E non sembra ancora finita, nonostante la straordinaria opera di "smontaggio" del mito, operata da Shyām Benegal con Sūraj kā sātvān ghorā (Il settimo cavallo del sole) nel 1992: dieci anni dopo, infatti, è uscita l'ennesima versione di Devdās, in hindi, realizzata da Sanjay Līlā Bhansālī, insieme ad un nuovo rifacimento bengalese ad opera di Shakti Sāmant.

Filmografia essenziale
Rūplekhā (o, in versione hindi, Mohabbat kī kasautī, La prova dell'amore, 1934)
Devdās (1935)
Grihdāh (La casa in fiamme; o, in versione hindi, Manzil, La meta, versione hindi, 1935)
Māyā (1936)
Mukti (Liberazione, 1937)
Adhikār (Il diritto, 1938)
Rajat Jayantī (1939)
Zindagī (La vita, 1940)
Shesh uttar (L'ultima risposta; o, in versione hindi, Javāb, La risposta, 1942

Bibliografia
Barnouw, E. - Krishnaswamy, S., 1980, Indian Film, Oxford University Press, New York, I ed. 1963, pp. 77-87.
Chaddha, M., 1990, Hindī sinemā kā itihās (Storia del cinema hindi), Sachin Prakāshan, Nayī Dillī, pp.184-187.
Chatterjee, P., 1993, The Nation and Its Fragments, Princeton University Press, Princeton.
Das Gupta, C., 1981, Talking about Films, Orient Longman, New Delhi, pp. 49-54.
B D Garga, 1996, So Many Cinemas. The Motion Picture in India, Eminence Designs Pvt. Ltd., Mumbai, pp. 88-92.
Masud, I., 1987, Genesis of the Indian Popular Cinema. The Early Period, in "Cinema in India", January, Vol. 1, No. 1, pp.10-17.
Rajadhyaksha, A. - Willemen, P., 1995, Encyclopaedia of Indian Cinema, Oxford University Press, New Delhi, I ed. 1994, pp. 54-55.

Cecilia Cossio