Mandi, situato in epoca contemporanea e diretto da Shyam Benegal, continua la tradizione dei kotha movies, dei film cioè ambientati nel kotha, casa di piacere piuttosto che bordello, almeno nella tradizione cinematografica. A differenza di altre opere di simile ambientazione, Mandi non racconta una storia d'amore; osserva, invece, con divertita ironia, il gioco di potere e degli ambigui rapporti che legano la società cosiddetta rispettabile a quella del vizio per antonomasia.

MANDĪ (1983)

 

Regia: Shyām Benegal; produzione: Freni M. Variava e Lalit M. Bijlani;compagnia di produzione: Blaze Films Enterprises; soggetto: dalla novella Ānandī di Ghulām Abbās; sceneggiatura: Shamā Zaidī, Satyadev Dūbe e Syām Benegal; fotografia: Ashok Mehtā; scenografia: Nitish Rāy; costumi: Sabā Zaidī; montaggio: Bānūdās Divkar; musica: Vanrāj Bhātiyā; versi: Mīr Tāqī Mīr, Bahādur Shāh Zafar, Inshā Makhdūm Mohiuddīn, Īlā Arun; interpreti: Shabānā Āzmī (Rukminī); Smītā Pātil (Zīnat); Sonī Razdan (Nādirā); Shrīlā Majumdar (Phūlmani); Nasīruddīn Shāh (Tunglūs); Saīd Jāfrī (Agravāl); Kulbhūshan Kharbandā (Guptajī); Āditya Bhattāchārya (Sushīl) Amrīsh Purī (il santone). Hindi/colore/167'

 

Il ben avviato kotha diretto da Rukminī rappresenta un vero scandalo per la città, almeno agli occhi di Shāntidevī, un'arcigna riformatrice sociale. Quando Phūlmani, una sordomuta venduta al kothā (bordello) da un balordo, viene ricoverata per una crisi epilettica dopo essere stata violentata da un cliente (complice Nādirā, 'vice-direttrice' del kothā), il consiglio comunale decreta l'allontanamento delle prostitute che si trasferiscono in una proprietà dell'imprenditore Guptajī, fuori dalla città. Il nuovo kothā resuscita ben presto le antiche glorie. Sushīl, figlio del sindaco Agravāl, si innamora di Zīnat, vanto del kothā per voce e avvenenza e, soprattutto, vergine pupilla di Rukminī. I due giovani fuggono insieme, anche se Zīnat conosce la verità: lei e Sushīl sono fratellastri, essendo Zīnat il frutto di una relazione tra Agravāl e una cortigiana passata a miglior vita. Rukminī e Agravāl riescono a raggiungere il solo Sushīl, mentre Zīnat sparisce per sempre. Rukminī, seguita dal fido servo Tunglūs, abbandona avvilita il kothā, dove le prostitute guidate da Nādirā le sono ormai nemiche. Giunti in un luogo deserto, mentre Rukminī si dispera, Tunglūs trova uno shivling (un "fallo di Shiv") di pietra, segno di buon augurio: da lontano, infatti, arriva correndo Phūlmani. Rukminī sente di poter iniziare tutto da capo.

Scrivendo dei kothā movies ovvero di quel particolare genere, caratteristico soprattutto del cinema hindi, in cui il centro tematico si condensa intorno alla figura di una cortigiana, si era evidenziato come il mondo del kothā, della 'casa di piacere', non fosse un luogo veramente malfamato. Almeno non nella sua 'epoca d'oro', tra il 700 e l'800, e nella sua capitale, Lakhnau (Avadh, odierno Uttar Pradesh). Si era rilevato, anzi, come nei kothā più prestigiosi si fossero conservate e sviluppate forme classiche di musica come la hindustānī e di danza classica come il kathak, tanto che quella del kothā poteva essere a ragione considerata un'istituzione culturale. Naturalmente il kothā non offriva soltanto diletti artistici e intellettuali: i clienti avevano a disposizione anche altri servizi, ben più materiali, dato che il luogo era deputato anche e primariamente a tale scopo. Non sempre potevano ambire per questi piaceri alle grandi cortigiane – che di solito avevano legami (naukrī, "impiego"), talora lunghi e duraturi, con clienti privilegiati – e dovevano accontentarsi di seconde scelte. In genere i kothā movies tendono a sorvolare su questo aspetto; nondimeno esso costituiva una parte ben consistente dell'attività quotidiana, come del resto lo è nei kothā di oggi, che ormai non potrebbero più produrre vedettes come Umrāo Jān nel film omonimo del 1981 o Sāhabjān in Pākīzā (Pure Heart, 1971). A questo ci pensano il cinema e le istituzioni moderne.

Nel suo studio sulla cortigiana cinematografica, S. Chakravarty (1996) si chiedeva se nell'universo matriarcale del kothā, legato economicamente a quello maschile ma da esso distinto, se si poteva visualizzare un'utopia femminile. In effetti, il mondo del kothā si sostiene su valori e fondamenti esistenziali altri, che – come sostiene V.D. Oldenburg (1997) che rappresentano una forma di resistenza all'universo maschile: oggi come ieri, le donne del kothā sono consapevolmente impegnate - nell'intimità dei loro appartamenti - nel sovvertimento delle regole di un mondo dominato dall'uomo. Questa resistenza si manifesta soprattutto nel processo di auto-consapevolezza che avviene tra le donne del kothā e nei rapporti che si instaurano tra di esse. Da qui nasce il vero sovvertimento delle regole sociali convenzionali: Mandī, situato in epoca contemporanea, ne è un fulgido esempio.

Molti kothā movies - come Pākīzā o Umrāo Jān – sono grandi storie d'amore, sbocciate in ambienti raffinati e persino sfarzosi che profumano di peccato e di piaceri proibiti, di cui tuttavia le parti in causa non sono veramente partecipi. Possiamo supporre che Sāhabjān e Umrāo, oltre a cantare e ballare, abbiano altri tipi di rapporti con i frequentatori del kothā, ma non abbiamo modo di vederle impegnate in queste attività, a cui comunque sono costrette dalla sorte. Le loro colpe - se ne hanno - trovano alla fine riscatto pieno nella purezza del loro amore e nella profondità del loro dolore. Sono, insomma, delle belle favole che rassicurano e consolano, dolorose e commoventi, come La sirenetta (quella di Andersen, però): se in Pākīzā il sangue del padre purifica quello della figlia, come illustra puntualmente la scena della danza sui vetri, a redimere Umrāo è la commozione dello spettatore.

 

La catarsi negata - insieme ad altri elementi - può spiegare allora la perplessità con cui è stato inizialmente accolto Mandī, anche se interpretato da un cast di grande livello e completato dalla bella colonna sonora di Vanrāj Bhātiyā, con testi di poeti famosi, quali Mīr Tāqī Mīr (1724-1810) e Bahādur Shāh Zafar (1776-1862, ultimo imperatore mughal per caso e ottimo poeta per vocazione). In Mandī, come del resto in Umrāo Jān Adā, il romanzo di M.H. Rusvā (1857-1931) da cui è tratto il film omonimo, l'amore non ha parte alcuna: l'infatuazione di Sushīl per Zīnat - vergine ma non innocente - non coinvolge lo spettatore sul piano emotivo, al massimo ne suscita il riso e il sorriso. Uno dei temi del film - comune anche agli altri dello stesso genere, ma qui più evidenziato che altrove - è piuttosto il potere, il gioco difficile, spesso sleale e crudele, di rimanere a galla nel mare procelloso dell'ipocrisia sociale, con i suoi codici comportamentali ben demarcati e le possibili strategie per aggirarli. Anche Mandī conduce lo spettatore all'interno di un mondo di valori e di codici diversi; quello di Mandī, tuttavia, non è il mondo delle cortigiane. È la 'fabbrica' delle prostitute di oggi, un bordello decente, ma non certo il Gulābī Mahal ("Palazzo rosa") di Pākīzā; anzi, è un modesto edificio, scuro, sporchetto, con tanti cubicoli adibiti allo scopo primario del luogo, odorante di sentori eterogenei, non sempre classificabili come profumi (si suppone). Qui la prostituzione perde l'alone di fascino peccaminoso intriso di melanconia e si mostra nella sua concretezza di mestiere duro e sgradevole, quando non addirittura repellente. Ma è un mestiere che le donne del kothā esercitano senza drammi, spesso con grande senso di professionalità e talora con divertimento; un mestiere che dà loro indipendenza psicologica - oltre che economica - ben superiore a quella delle donne 'rispettabili'. E quel che più conta, superiore anche a quella degli uomini, frequentatori o detrattori del kothā. Non c'è senso di colpa, nelle prostitute di Mandī: non c'è pentimento e non c'è nemmeno il desiderio di una vita onesta. Anzi, l'unica aspirazione è di continuare a svolgere lo stesso mestiere nel modo più confortevole e redditizio. Secondo la Oldenburg (1977), il romanzo di Rusvā ha avuto il torto di accreditare la tesi secondo cui il ratto di ragazzine fosse il modo comune di reclutamento delle prostitute/cortigiane. Certo si saranno verificati e continueranno a verificarsi anche casi del genere - sostiene l'autrice - ma la maggioranza delle donne degli odierni kothā di Lakhnau da lei intervistate, quando non figlie di altre prostitute, sono arrivate qui spinte dalle condizioni di miseria e di inferno delle loro case natali o coniugali. Nell'ambiente del kothā avviene la loro 'riabilitazione' attraverso una vera e propria terapia psicologica di ricostruzione della personalità femminile, che le porta a scoprire un nuovo mondo in cui possono avere il controllo del proprio danaro e, paradossalmente, del proprio corpo. Inoltre, tra queste donne nasce spesso una solidarità che non ha paragoni in altri ambienti, proprio perché viene meno l'imperativo di accaparrarsi lo scudo del maschio, elemento dominante della società patriarcale.

 

L'affiatamento cameratesco e solidale delle cortigiane è molto sottolineato in Pākizā, in Umrav Jan o in Utsav ( Festival, 1984). Benché evidente anche in Mandī, ciò che si percepisce maggiormente nell'atteggiamento delle prostitute è una malcelata insofferenza per l'universo maschile, indispensabile alla loro sopravvivenza, ma sostanzialmente alieno. È un sentimento pervaso di ironia e aromatizzato da un sentore di lesbismo, placido e sereno, senza tracce di morbosità o di voyeurismo. In effetti, le interviste della Oldenburg mettono in luce come spesso tra le prostitute i rapporti emotivi e sessuali più coinvolgenti siano proprio quelli lesbici. Anche in questo fatto si può leggere un radicale sovvertimento dei valori patriarcali: l'amore lesbico come sentimento e vita reali, a fronte della passione eterosessuale con i clienti, professionale e simulata.

Ciò che rende Mandī un film diverso dagli altri dello stesso genere è che sembra girato interamente da una prospettiva femminile, fatto abbastanza sorprendente ove si consideri che tutti i kothā movies sono realizzati da uomini, con l'eccezione – piuttosto deludente – di Kāmasūtra (1997) di Mīrā Nāyar. Ma in un regista come Shyām Benegal, questo spostamento prospettico non è inaspettato, giacché molte sue opere precedenti (quali Nishānt [La fine della notte, 1975] o Bhūmikā [Il ruolo, 1977]) o seguenti (Sardārī Begam [1996] o Zubaidā [2001]) sono incentrate sulla figura di una donna che in qualche modo rifiuta o sovverte i valori costituiti. Mandī rappresenta proprio il capovolgimento dell'angolazione consueta, lo stravolgimento dell'ordine etico e sociale, con un diverso ordine naturale delle cose: la donna, non più sessualmente asservita all'uomo, libera di disporre del proprio corpo. E della sua mente: la prostituzione diventa così uno strumento di emancipazione, come si recepisce quasi scopertamente anche in Umrāo Jān. Tuttavia, il ritorno al kothā di Umrāo, con il rientro della vita lungo i binari della 'norma', in qualche modo potevano tranquillizzare le apprensioni dello spettatore. Mandī invece, con la sfacciata e ironica esibizione di uno specchiato e soddisfacente commercio sessuale, ne rafforza i timori più ancestrali, più archetipici, sulla minacciosa natura sessual-demoniaca della donna.

Note
Shiv, aspetto distruttore nella Triade o Trimūrti hindu (insieme con Brahmā, il creatore, e Vishnu, il preservatore), è al tempo stesso il detentore del potere di riproduzione; per questo viene rappresentato sotto forma di fallo, spesso ergentesi dalla yonī, l'organo femminile, che rappresenta la sua shakti o energia creatrice.

Sull'atto del 'guardare', si rimanda alle riflessioni di Laura Mulvey (1989).

Bibliografia
Chaddā, M., 1990, Hindī cinemā kā itihās (Storia del cinema hindi), Sachin Prakāshan, Nahī Dillī, pp. 455-456.
Chakravarty, S., 1996, National Identity in Indian Popular Cinema 1947-1987. Oxford University Press, Delhi, pp. 300-304.
Mulvey, L., 1989, Visual and Other Pleasures, Indiana University Press, Bloomington and Indianapolis.
Oldenburg, V. T., 1997, Lifestyle as Resisteance: The Case of the Courtesans of Lucknow, in Graff, V. (ed.), 1977, Lucknow. Memories of a City, OUP, Delhi, pp. 136-154.
Rajadhyaksha, A., - Willemen, P., 1995, Encyclopaedia of Indian Cinema, OUP-British Film Institute, New Delhi-London, p. 428.

Cecilia Cossio
liberamente adattato da L'amor profano ovvero la cortigiana nel cinema hindi
in Scarcia, G. (a cura di), 1999, Bipolarità imperfette, Cafoscarina, Venezia, pp.61-97