Nato nel 1968, un paio di cortometraggi molto quotati al suo attivo, considerato in patria come una delle promesse del secolo che si sta aprendo, il regista coreano Ji-Woo Jung è approdato a Cannes con il suo primo lungometraggio, Happy End, da lui scritto oltre che diretto.

HAPPY END di Jung Ji-Woo

Regia: Jung Ji-woo. Sceneggiatura: Jung Ji-woo. Fotografia: Kim Wu-hyoung. Scenografia: Kim Sang-man. Musica: Cho Young-wuk, Kim Kyu-yang. Interpreti: Choi Min-shik, Cheon Do-yeon, Chu Jin-mo, Hwang Mi-seon, Chu Hyeon, Kim Byong-chun, Yu Yeon-su/Child Actor:Huh Ye-in. Produttore: Lee Eun. Produzione: Myoung Film. Distribuzione: Cheil Jedang CJ Entertainment. Corea del Sud/Francia, 2001, 35 mm, colore, 119'.

Nato nel 1968, un paio di cortometraggi molto quotati al suo attivo, considerato in patria come una delle promesse del secolo che si sta aprendo, il regista coreano Ji-Woo Jung è approdato a Cannes con il suo primo lungometraggio, Happy End, da lui scritto oltre che diretto.

Come si capisce ben presto il titolo è ironico, ma di un'ironia molto particolare, e soprattutto più sottile di quanto ad una prima visione lascerebbe pensare il macabro finale. La vicenda ruota intorno ad un classico, e insieme anomalo, ménage à trois. Il marito ha perso il lavoro e sbriga le faccende di casa, si occupa del figlio neonato, gironzola per la città fermandosi spesso in una libreria a leggere soprattutto romanzi d'amore e tentando, ogni tanto, di sostenere qualche colloquio di lavoro. La moglie è la classica donna in carriera che, nella versione orientale, è ancor più adrenalinica e antipatica dell'omologa occidentale. La donna ha per amante un suo vecchio innamorato che, da parte sua, dopo averla ritrovata, non vuole più riperderla. Questi i personaggi del dramma o, se vogliamo, i protagonisti ognuno di un atto della tragedia o, ancora, le tre ante di un trittico che, mano a mano, si ricompone sotto le sapienti pennellate del regista. Che gioca, dapprima, la carta della storia di genere, soffermandosi sui particolari di queste esistenze minimali: i gesti quotidiani, le piccole cose di tutti i giorni, i riti della vita ripetuti ed ordinati dallo scorrere del tempo. Per poi piano piano (ma, purtroppo, cedendo nel finale a un gusto horror che stona un poco con lo stile della vicenda), sfociare, appunto, nella brutalità da fatto di cronaca nera.

Il regista ha dichiarato di aver voluto porre allo spettatore, con questo film, alcune domande, tra le quali, alcune del tipo: «Sono ancora validi, oggi, i ruoli tradizionali all'interno della coppia?»,«L'amore e il matrimonio sono compatibili?», «È possibile essere felici?», ecc. Ponendo queste questioni, il regista costruisce conseguentemente un teorema, attraverso il quale si dispiega una sorta di detection dei sentimenti e soprattuto dei rapporti di coppia: marito-moglie, moglie-amante, marito-amante della moglie, in una triangolazione impazzita che da un lato, ancora, accetta tutti i tratti codificati della tradizione ma, dall'altro, li fa esplodere nell'insensatezza della vendetta incrociata messa in atto dal marito ferito. Ferito dalla vita, prima ancora che dal tradimento della moglie. In questo senso, il titolo del film suona come una speranza: quella che il "lieto fine" cui i tre personaggi pervengono sia proprio quello che ognuno si merita.

Andrea Frambrosi