Such'Wi-In Bulmyŏng

Un altro inquietante film di Kim Ki-deok, Address Unknown, un film che parla di un abisso senza significati comprensibili, in cui il mondo va avanti, l'uomo e la sua carne ci stanno dentro, sbalestrati, e ci muoiono pure. Un film strano, e perfino scomodo...

SUCH'WI-IN BULMYŎNGAddress unknown

 

 

Regia: Kim Ki-Deok. Sceneggiatura: Kim Ki-Deok. Fotografia: Suh Jong-Min. Scenografia: Kim Ki-Deok. Montaggio: Hahm Sung-Won. Musica: Park Ho-Joon. Interpreti: Yang Dong-Kun (Chang-Guk) Kim Young-Min (Jihum) Ban Min-Yung (Eunok) Cho Jae-Hyun (Dog-Eye) Pang Eun-Jin (la madre di Chang-Guk) Myung Kye-Nam (il padre di Jihum) Lee In-Ock (la madre di Eunok) Mitch Malum (James). Produttore: Kim Soo-Hee. Produzione: LJ 21 Film Co. Distribuzione: Tube Entertainment. Corea del Sud, 2001, 35 mm, colore, 117'

Lo sguardo di Kim Ki-Deok si fa ampio. Dopo una storia come in interni (Seom, 2000) e un esperimento di follia quasi in tempo reale non del tutto riuscito ma comunque interessantissimo (Real Fiction, 2000) [...dopo] Crocodile (1996), Wild Animals (1997) e Birdcage Inn (1998) – Kim adotta i meccanismi del film corale, e tutto ciò che la scelta comporta: la Storia (la Corea del Sud negli anni '70, ferita, sfrangiata, sanguinosa, dolorante); numerosi personaggi; l'intrecciarsi delle singole vicende; l'incanalarsi dell'insieme verso uno o più momenti che rappresentano lo sbocco, lo sfogo, il climax, o anche una chiusa senza alcuna risoluzione. Non ha il rigore di Edward Yang né la profondità di Hou Hsiao-hsien, eppure la sua carnalità senza speranza incide, eccome. Il mondo di Kim è fatto di corpi che percepiscono la propria finitezza umana con insostenibile pesantezza. L'uomo, in Address Unknown, è un macigno che sta su una terra squarciata – dalla guerra, dall'occupazione, dal tempo, dal corso delle cose – senza possibilità di redenzione o piccole felicità. E quando, infine, la trova, una piccola felicità (la lettera tanto agognata e finalmente arrivata), è spostata, non letta (se non da un estraneo), stonata (anche, è da ammettere, narrativamente parlando), e quindi irrealizzata. Non è un universo di perdenti, ma di uomini che abitano un paese che non comprendono, e che esso non comprende.

Ciò che colpisce di Address Unknown è l'inutilità della forza della carne, anch'essa, al tirar delle somme, incapace non tanto di modificare gli eventi, quanto soltanto di utilizzarli, di modellarli, di viverli. Come in Seom, il fallimento dell'uomo non ha strumenti di riscatto. E l'aspetto frastagliato e un po' sbilanciato di Address Unknown suona come un ulteriore campanello di un tutto pieno di buchi, consapevole della propria inadattabilità ad una Storia troppo grande e veloce, che non si ferma certo ad aspettare i propri protagonisti. Perchè non tutto è perfetto, in Address Unknown. Qualche personaggio sbava, forse un po' tirato via, soltanto abbozzato e poco approfondito; a volte pare che i tempi si allunghino troppo oltre il dovuto, ripetendosi, perdendosi. La rappresentazione dei soldati occidentali [...] può non essere un male, e c'è chi sostiene con vigore questa tesi, eppure chi ha ingurgitato certo cinema dell'Estremo Oriente, soprattutto quello di Hong Kong, generoso di ufficiali, agenti di polizia, superiori e cattivoni occidentali con l'espressività di una gallina e la complessità di un battiscopa, sa benissimo che si tratta di una pratica più che consueta, di grana grossa e, alla fin fine, abbastanza dozzinale, pur se voluta e, perchè no, giustificata. Inoltre si ha la sensazione che qualcosa sfugga (di mano), o prenda strade che non dovrebbe prendere, magari scorciatoie. Col senno di poi, non è così sicuro che siano ruvidezze e manchevolezze di script o regia. Forse – e anche senza forse – è opportuno corollario di un panorama rappresentato tutt'altro che solido.

La forma si confà a ciò che descrive. Kim possiede una lucidissima consapevolezza di quello che vuole dire e mettere in scena, senza magari averla per i modi coi quali farlo, eppure questa sua voglia di raccontare, di allargare lo sguardo, di abbracciare numerosi mondi e uomini con enorme partecipazione e slancio non può non colpire. Addirittura, Kim non si sottrae a un (bel) discorso metalinguistico in un periodo in cui non c'è certo più bisogno di metacinema, sia da parte di chi lo fa, sia da parte di chi ne scrive. Le forature degli occhi, le bende sugli stessi, le spiate attraverso i buchi nelle pareti sono pane gustosissimo per i sostenitori ad oltranza delle teorie della visione, ma riescono stimolanti e interessanti anche a coloro che non ne possono più di 'ste menate. Tutto confluisce verso un vuoto di fondo, di cui si ha coscienza ma che nello stesso tempo – gli ostacoli sugli organi della vista, appunto – non si afferra davvero, che inquieta. Address Unknown parla di un abisso senza significati comprensibili: il mondo va (è andato) avanti, l'uomo e la sua carne ci stanno dentro, sbalestrati, e ci muoiono pure. È strano, e perfino scomodo: il film di Kim dice di uomini e terre, di vite e lavoro, di violenza e ricerche, di sogni e desideri, ma non dice dell'amore, se non in termini di ossessione, financo cannibalica. Era così anche Seom. Quello del ragazzo introverso verso la ragazza è amore? O è amore quello della ragazza verso il suo puppy? O quello della madre per il figlio manesco, del quale alla fine si ciba? Credo che l'amore, nel cinema di Kim Ki-Deok, metta paura e crei disagio. Forse, per amore, è necessario coniare un nuovo termine. Sono gli anni Settanta, ma sembra oggi.

a cura di Pier Maria Bocchi
http://www.alasca.it/cineforum