The 36 Chamber of Shaolin - Shaolin Sanshiliu Fang

Il film che rifonda il mito di Shaolin alla fine degli anni settanta, diretto da Liu Chia-liang e interpretato da suo fratello, il celebre Gordon Chan: un autentico cult movie.

 

THE 36 CHAMBER OF SHAOLIN - SHAOLIN SANSHILIU FANG

 

Hong Kong/1978/115'
Produttore: Run Run Shaw
Regia: Liu Chia-liang
Direttore dei combattimenti: Liu Chia-liang, Tang Weicheng
Interpreti: Gordon Liu Chia-hui, Wang Yu, Liu Jiawing, Hsu Shao-chiang

Principale motore del rinnovamento del mito imperituro del tempio di Shaolin, questo film è una pietra miliare del cinema di Hong Kong. La caratteristica più evidente è l'attenzione maniacale dedicata all'allenamento. Questo tema è ricorrente in tutta la produzione di Hong Kong: il giovane eroe inesperto deve redimere le proprie debolezze forgiando il proprio corpo insieme alla propria mente (film seminale è One Armed Swordsman/Dubi dao, Zhang Che, 1967). Ma qui, da fase di transizione per poter poi dedicare numerose scene ai combattimenti efferati, l'allenamento diviene oggetto privilegiato del film. In parte questa spinta si può descrivere tenendo conto della carriera personale di Liu Chia-liang, che è figlio di un celebre sportivo d'arti marziali (a sua volta discepolo di un discepolo del mitico Huang Feihong) e sportivo a sua volta, ed è stato assistente di King Hu alla regia. Preoccupazione ossessiva del giovane regista è di rendere omaggio ai propri padri, naturali e spirituali, raccontando non tanto gli incredibili poteri acquisiti dagli eroi (King Hu), quanto piuttosto il lungo cammino che porta gli eroi ad ottenerli. Perfetto esempio di pietà filiale, secondo gli insegnamenti confuciani, Liu Chia-liang rispetta senza condizioni la figura del maestro (shifu), e fa dell'apprendistato la figura cardine del suo cinema, mostrando rispetto per i valori dell'ubbidienza e della trasmissione del sapere e delle tecniche da una generazione a quella successiva.

Dunque i suoi film presentano poche scene di combattimento, per dedicarsi piuttosto alle dimostrazioni di bravura. Queste ultime sono presenti anche nei film di altri autori (la scena della taverna di Come Drink With Me/Da zui xia, King Hu, 1965), ma servono solo da pretesto per introdurre le capacità quasi sovrannaturali dei protagonisti; in seguito tutta la trama ruota attorno a complicate pulsioni vendetta, rivalse familiari, odi implacabili, violenze sadiche, lotte tra scuole di arti marziali per la supremazia. Al contrario in Liu Chia-liang scorre pochissimo sangue, la mutilazione del corpo lo ripugna, egli è interessato a glorificare piuttosto il corpo e la sua plastica velocità, l'armonia ottenuta attraverso immani sforzi della volontà.

Il suo cinema è chiamato "kung fu didattico", e narra con precisione la nascita di un mito, la trasformazione di un corpo. Le scene di combattimento non sono, come spesso nei film coevi, bagni di sangue ritmati da un montaggio adrenalinico di forte impatto e stilizzazione astratta, bensì lunghi piani medi dove la mdp segue i combattenti e ne mette in risalto le abilità marziali. I suoi attori sono, infatti, campioni di wushu, primo tra tutti suo fratello, la star di questo film e molti altri, il giovane Liu Chia-hui. Quest'ultimo è, a dire il vero, piuttosto insapore, gli manca evidentemente il forte carisma fotogenico proprio a Bruce Lee, nella cui tradizione pur si inscrive. L'ultimo elemento di questa catena, uno sportivo assurto al ruolo di star, è Jet Li, che tenta una carriera in America incontrando però dei pessimi registi, dopo aver bucato gli schermi hongkonghesi segnatamente sotto la direzione di Tsui Hark. Liu Chia-hui tornerà, chiamato probabilmente Gordon Liu, in Kill Bill, il prossimo venturo Quentin Tarantino.

La storia del film: il giovane Liu Yu-te assiste al massacro senza pietà del suo maestro, della sua famiglia e dei suoi compagni di studi ad opera di un crudelissimo generale mancese. Decide dunque di partire alla volta del tempio di Shaolin dove, dopo aver superato le resistenze iniziali di alcuni monaci, impara gagliardamente le arti marziali. Da notare che, mentre tema ricorrente dei wuxiapian del decennio precedente era la lotta tra scuole avversarie per la supremazia, qui non si mette nemmeno una volta in dubbio che la scuola di Shaolin sia impareggiabile; essa è fonte tradizionale di tutte la arti marziali, culla della cultura wushu; è qui questione di rinverdire il suo mito, di esaltarne l'eredità.

Le camere del titolo sono i 35 stadi che i giovani devono oltrepassare gradualmente: come usare le braccia, le gambe, la vista, e poi le armi, una ad una. La trentaseiesima camera, che ancora non esiste nel tempio, è quella che vorrebbe creare il giovane Liu Yu-te al termine del suo lungo periodo di addestramento: una stanza dedicata a chi vuole ottenere un'istruzione al di là delle regole spirituali, per dedicare la forza ottenuta alla lotta contro l'invasore straniero. Formulare questa istanza è, da parte del regista per interposta persona del suo personaggio, un discorso patriottico che vuole incitare la gioventù alla ribellione ed all'unione contro un comune, crudele avversario.

Per quanto possa sembrare manicheo, è opportuno notare come gran parte del cinema hongkonghese si voglia anche come portatore d'un afflato romantico e patriottico da opporre al regime "straniero" comunista ancora al potere in Cina; allo stesso tempo, ogni film che rievoca paesaggi e storie della patria perduta e antica, porta in nuce un grido nostalgico, il dolore dell'esilio.

Ben rende dunque il film la genesi d'una possibile resistenza, la forza nata dall'unione delle forze: alla fine il giovane, dopo aver ottenuto la sua vendetta, ottiene il suo scopo ed apre una nuova camera nel tempio di Shaolin. Un gruppo ancora disorganizzato di ragazzi, ma ben agguerrito, sia allena in sincronia e lancia il suo urlo di sfida; fermo immagine, è la fine del film.

Fusi in un'atmosfera faceta (soprattutto nei primi fallimenti estemporanei del giovane) e seria al tempo stesso, il film mostra con piacere fisico la crescita spirituale di fasci di giovani corpi che con dolore e piacere si forgiano, si modellano, diventano come i padri e possono forse, trasgredendo (in minima parte) alle loro regole, diventare migliori. Le pulsioni masochiste sono evidenti nel diletto virile che prova il regista (ed il suo spettatore) nel mostrare i giovani corpi rigati di sangue, le spalle segnate dalla sofferenza che viene battuta e ricercata subito dopo, a rotazione, perché strumento di crescita. La maturazione avviene attraverso il dolore. Le camere, d'altronde, ben possono essere assimilate a camere di torture, una più elaborata dell'altra, perché se il risultato ottenuto una volta vinte le difficoltà è imponente nel corpo e nello spirito, altrettanto crudeli e fantasiose sono le punizioni umilianti per chi fallisce.

L'incitamento è esplicito, la storia segue il pattern del rituale iniziatici, e tutto il film esprime la bellezza e la forza della giovinezza grazie alle forme plastiche che i rituali d'addestramento creano.

Le figure capitali di questo film seminale sono l'importanza dell'aspetto didattico dei film di kung fu, l'interesse nel mostrare il combattimento e la sua lenta ma inesorabile danza, con un piacere sportivo nella dimostrazione, e a livello di temi la ambivalente nozione di tradizione da tramandare e al contempo di norma da rompere. Se, infatti, il massimo rispetto è garantito ai padri e agli insegnanti (al processo d'insegnamento), altrettanto rispetto è mostrato al giovane che si ribella e chiede di andare in direzioni diverse, nuove, inedite. D'altronde, è pur bene ricordarlo, è l'insegnante della scuola a Canton che, per primo, incoraggia il giovane protagonista all'azione. Dunque la "ribellione" del giovane, che si esprime nella richiesta di portare le arti marziali nel mondo per non lasciarle ad esclusivo appannaggio dei monaci in ritiro spirituale, è in qualche modo suggerita dal suo primo maestro. Inoltre, si indovina nel sorriso appena accennato dell'abate supremo di Shaolin una compiacenza nell'osservare la vitalità combattiva del discepolo; quest'ultimo vince, e diviene Maestro a sua volta, accompagnato dalla benedizione dei suoi maestri.

Questo film ha generato un seguito diretto: Return to the 36th Chamber of Shaolin/Shaolin da fang xiaozi del 1980, sempre diretto da Liu Chia-liang e sempre interpretato dal fratello Liu Chia-hui. I personaggi sono però differenti, così come il tono generale della storia, molto più burlesca e buffonesca. Il film anticipa la kung fu comedy, senza pur tuttavia alterare lo spirito or ora descritto: rispetto nei confronti del maestro, importanza dell'apprendistato, ribellione contro un potere (mancese/straniero) iniquo, esaltazione della cultura tradizionale cinese.

Note
Nazzaro, Giona, Il cinema di Hong Kong, Le Mani, Genova, 1997, p.244. 

Corrado Neri