Prodotto ibrido, film horror in cui le sequenze di paura hanno più vettori, tutti convergenti: i punti di riferimento sono il new horror giapponese, Hollywood e il cinema classico di Hong Kong.

THE EYEdi Danny Pang e Oxide Pang Chun

 

Titolo originale: Jian gui. Regia e montaggio: Danny Pang, Oxide Pang Chun. Sceneggiatura: Jo Jo Yuet-chun Hui, Danny Pang, Oxide Pang Chun. Fotografia: Decha Srimantra. Musica: Orange Music. Scenografia: Simon So. Interpreti: Angelica Lee (Mun), Lawrence Chou (il dottor Wah), Chutcha Rujinanon (Ling), Yut Lai So (Yingying), Ying Ping Ko (la nonna di Mun), Pierre Png (il dottor Lo), Wai-Ho Yung (il signor Ching), Wilson Yip (il taoista). Produzione: Lawrence Cheng per Applause Pictures/Raintree Pictures Pte. Ltd/Premier Pr/Fortissimo Film Sales. Distribuzione: Eagle Pictures. Durata: 98'. Origine: Hong Kong/Singapore/TailandialGran Bretagna, 2002.

 

Hong Kong. Mun, una ventenne cieca dall'età di due anni, ritrova finalmente la vista grazie a un intervento alle cornee. Ma la nuova condizione le porta inquietudine e terrore: perché comincia a vedere più di quello che dovrebbe, tra apparizioni, figure nere e fantasmi. Si accorge allora di essere venuta in contatto col mondo dell'aldilà. Inoltre, allo specchio, vede un'altra persona, Ling, la ragazza che le ha donato le cornee. Insieme al suo medico, Mun si reca allora in Tailandia, dove abitava Ling, per cercare di capire le ragioni della sua nuova condizione. Muiz conoscerà la storia tragica di Ling, e capirà infine che ha ereditato Ia sua capacità di prevedere la morte. Che non le permetterà, comunque, di evitare una catastrofe. Meglio, dunque, tornare ciechi.

Un paio di informazioni di servizio, prima di tutto. I Pang Brothers sono Oxide e Danny. Sono nati a Hong Kong, dove entrambi hanno imparato il mestiere. Oxide, in seguito, si trasferisce in Tailandia, mentre Danny rimane a HK. In parallelo, tutt'e due continuano a lavorare nel cinema, fino al momento della riunione, nel 2000, in Tailandia, per il bel Bangkok Dangerous. La corealizzazione di The Eye non impedisce all'uno e all'altro di fare cose da soli (per esempio, Danny, in Tailandia, firma in regia dell'atroce Nothing to Lose). The Eye è prodotto con capitali hongkonghesi (dietro ci sono un grande attore-caratterista, Eric Tsang, e un regista noto, Peter Chan) e girato a Hong Kong con una capatina in Tailandia. E un enorme successo al botteghino dell'ex colonia britannica.

Mi è sembrato opportuno sottolineare il background artistico-produttivo del film proprio per la sua natura mutante. The Eye vorrebbe appartenere a una specificità (di genere) tipicamente orientale, pero si spacca in differenti sottoinsiemi che fanno fatica a coagularsi in qualcosa di unitario. Inoltre, non è difficile notarlo, la pellicola si sfilaccia in rimembranze occidentali che spesso non hanno niente a che vedere con l'animo della storia (anche estetica). Ne viene fuori un pasticcietto a volte —poche -- interessante, più spesso non riuscito. Se l'immediato referente orientale è il cinema di fantasmi alla Ringu e Dark Water, manca a The Eye la giusta astrazione dalla materialità "terragna" che film come quelli di Nakata (ma non solo) possiedono. In questo, i Pang Brothers sbagliano: a pensare che l'altro agisca sulla terra come condotto per una conoscenza, e non come strumento orrifico della consapevolezza del caos in cui viviamo, ma soprattutto di sé. Cosa vuol dire il ritorno conclusivo alla cecità della protagonista? Che di fronte all'orrore del mondo è meglio non vedere? Eppure, le sue parole confermano che ha toccato con gli occhi la bellezza, mille cose meravigliose. E poi, ha incontrato e conosciuto l'amore. Viene da pensare che si tratti di una certa passività eroica e un pochino vittimistica, come un piagnisteo destinato ad essere lenito dal calore umano. Ma nelle opere di Nakata, per esempio, non si smette mai di lottare, anche se si conosce l'orrore, pur certi di un fallimento. Sta li, dunque, e non in The Eye, il vero eroismo della persona (se di eroismo si pub parlare, beninteso). Nella scrittura della pellicola dei Pang Brothers, l'accettazione della propria condizione è sintomo di un prendere atto senza alcun intervento. Difatti, ogni evento agisce da solo. Può venire scambiato per ineluttabilità delle cose: ma si fa invece la figura dello struzzo. La specificità allora non è più tale, soltanto addolcimento di una "filosofia esistenziale" che alla fin fine non e né carne né pesce. Inoltre, l'idea dell' apparizione etereo-trasparente è mezzo cinematografico grossolano e da blockbuster hollywoodiano. La figura nera che viene a prendere i morti e le anime disincarnate che testimoniano di una vicina catastrofe competono alla faciloneria occidentale, alla necessità di spiegare i nodi della storia con scelte elementari. Il computer è troppo appetitoso per resistergli. E le dirette influenze del cinema di fantasmi americano si esplicitano dunque con preoccupante solarità. Ciò che sorprende, per restare in argomento, è tutta la sequenza catastrofica finale, per molti versi simile, per non dire uguale, a quella che chiude The Mothman Prophecies. Conoscere chi ha fatto prima e dopo, chi ha copiato chi o se è una bella coincidenza (i due film sono stati girati e lanciati sul mercato più o meno nello stesso periodo), interessa relativamente. Ma spiazza che su binari determinati irrompa un elemento così diverso e così violento. A parte le anime che camminano, si tratta di una rottura a voragine abbastanza scioccante (per il contesto, ripeto) e convincente. Peccato che il senso rientri subito nelle coordinate previste.

Poi ci si può abbandonare a tutti i filosofeggiamenti sulla visione che vogliamo, o alle disquisizioni sulla strutturazione dello spavento. E se i primi appaiono banalissimi (ma non è colpa del film, e, in ogni caso, meglio affidarsi a My Little Eye), cercare di capire come i Pang Brothers costruiscano la paura e forse pin appropriato. In The Eye non si riesce a fare a meno del colpo sonoro, dell'utilizzo del montante musicale come "indicatore" di tensione. Perlomeno non ci si affida al flash stroboscopico che va tanto di moda in molto genere occidentale (gli horror di Balagueró, Paura.com). I Pang Brothers tradiscono un'indecisione di statuto, ovvero se tenere fede alla sospensione della suspense cara al New Horror giapponese, recuperare in maniera approssimativa la crudezza (che spesso fa rima con cheapness) dell'horror hongkonghese, o scendere a compromessi con la totale visibilità fantasmatica d'occidente. È come se le sequenze di paura avessero più vettori tutti convergenti, che paradossalmente, invece che aumentarne la forza, l'attutiscono: alcune riescono a provocare qualche brivido (quella della scrivania), altre meno, se non per niente (quella in ospedale con la vecchia), altre ancora dimostrano questa incapacità a decidersi (quella in ascensore). L'efficacia e la funzionalità dello spavento risultano purtroppo subordinate alla mancanza di rigore e di identificabilità. L'incertezza non è stavolta idea di mondo, ma sta nel manico.

Pier Maria Bocchi