Ni Nei Pien Chi Tien

Benoit Delhomme, direttore della fotografia, ha detto «non ho mai visto nessuno così preciso nella ricerca della composizione del quadro. C'è come una ricerca verso la perfetta leggibilità, ma anche la voglia di insinuare dei segni da decifrare».

 

NI NEI PIEN CHI TIENdi Tsai Ming-liang

 

Prendete un'immagine qualsiasi di questo film: un interno lugubre a Taipei, un surreale campo medio parigino, un'astrazione geometrica in nessun luogo... Può essere uno spazio pieno di cose, organizzato in una disarmonia di linee e colori, abitato da corpi che mangiano, pregano, pisciano. Oppure un vuoto assoluto in cui si rischia di precipitare, un corridoio che inizia e finisce nel nulla, una solitudine e basta (insostenibile, perché la mdp non stacca mai). Non c'è una sola inquadratura futile o semplicemente messa lì. Non c'è fotogramma che non sia stupefacente per la sua bellezza: esplorabile da cima a fondo in orizzontale (c'è tutto il tempo, siamo in Oriente), fino a riempirsi gli occhi, alla ricerca di indizi e tracce di senso, una folla di cose che premono verso l'esterno del quadro; oppure pochi segni di un luogo che non vuole visite ma si impone subito per la sua fascinazione, dicendo cento cose con niente, ripiegato verso il centro della scena. Benoit Delhomme, direttore della fotografia, ha detto «non ho mai visto nessuno così preciso nella ricerca della composizione del quadro. C'è come una ricerca verso la perfetta leggibilità, ma anche la voglia di insinuare dei segni da decifrare».

È la prima cosa che colpisce in ogni film di Tsai Ming-liang. Ogni volta ti chiedi come farà a non ripetersi girando nello stesso appartamento (è quello de Il fiume) con gli stessi attori feticcio («la famiglia dei miei film» come dice lui), attraversando le stesse ossessioni (solitudine, malattia, disagio, incomunicabilità...).E poi ti ritrovi a sgranare con gli occhi il suo rosario di (poche) inquadrature come ipnotizzato, cercando di capire come mai ogni immagine/stacco sembra sempre quella giusta senza essere mai quella che ti saresti aspettato. Cinema bellissimo da guardare, quindi, ancora prima di capire se il film è una meditazione sulla morte o una riflessione sul tempo, uno scherzo cinefilo con humour o un atto di fede nel cinema come ultima trincea contro la disperazione del "brutto".

Inizia con un piano fisso interminabile –un biglietto da visita – che mette a disagio proprio perché non dice e non significa nulla. Solo più tardi scopriamo che l'uomo del prologo è diventato (o forse no?) il mucchietto di cenere della sequenza successiva, quella che inaugura la tragicomica vicenda di un lutto impossibile da elaborare (perché la morte è, per definizione, senza senso e fuori dal tempo). Si sa, perché lo ha spiegato lo stesso Tsai Ming-liang, che il tema ha dolorosi spunti autobiografici: la morte di suo padre, che non riuscì neanche a vedere il suo primo film, e quella del padre di Lee Kang-sheng (l'attore protagonista) prima che iniziassero le riprese di The Hole. Si chiede: «Che cosa ci ha portato la morte?». Ma più che risposte, nel film ci sono le domande che non si possono fare (senza senso come la morte); ci sono gli imbarazzanti rituali religiosi, il dolore soffocato o mal sublimato secondo il codice sociale vigente, le superstizioni che diventano mania esistenziale (il lutto come una visita della malasorte che impregna oggetti ed emozioni)... E il tema della morte trascolora in quello del tempo, perché chi muore "vive" per sempre nell'attimo della sua scomparsa, ma chi rimane è obbligato a stare nella (piccola) storia (per quanto insignificante possa essere). La moglie, che non si dà pace, rinuncia al tempo dei vivi e orienta la sua giornata secondo un altro ritmo, quello del morto, con pranzi a mezzanotte e le finestre oscurate perché il giorno e la notte non esistono più. Il figlio invece, "perseguitato" dal fantasma del padre, intravede una via di fuga nell'incontro con una ragazza, che poi se ne andrà a Parigi a conoscere un'altra solitudine: e la sua assenza diventerà (anche qui) l'ossessione di un altro tempo, quello francese, che lui cercherà in ogni orologio, spostando le lancette indietro di sei ore (con effetti esilaranti). Tsai Ming-liang riflette su quest'altra dimensione – morte, vuoto, assenza –, racconta la percezione di un altro universo, un luogo in cui le cose e le persone si trovano senza incontrarsi. E lo fa con uno humour sorprendente, dall'inizio alla fine, che non smentisce il pessimismo di fondo, ma gli offre quasi una nuova consapevolezza, un altro sguardo. Il tempo è apparentemente indistruttibile (come l'ultimo orologio da piazzare sul mercato), si direbbe che scorra come l'acqua (sempre presente, come in ogni film del regista taiwanese, ma questa volta costretta in forme e confini rigidi), ma in realtà gira su se stesso (le forme circolari che compaiono al centro della scena nei momenti clou, finale compreso). Il ragazzo guarda I 400 colpi di Truffaut, ritrovandosi nel volto di Doinel, pensando di vedere la Parigi d'oggi, mentre la sua amica in Francia incontra Jean-Pierre Lèaud in persona, protagonista del film 40 anni prima. Tra le tante virtù del cinema di Tsai Ming-liang c'è la facilità con cui il simbolo, la metafora, l'idea, si incarnano in un oggetto o in un'immagine. Il protagonista è un venditore di tempo, e non potrebbe essere altrimenti. Se ne sta schiacciato su un divano letto come Doinel sul "cilindro rotante". E in tutto il film è un trionfo d'orologi d'ogni forma e dimensione, a partire da quello che Hsiao Kang regala a Shiang-chyi, naturalmente dotato di due quadranti, per leggerci due tempi diversi, visto che a Parigi abita il "fantasma"del padre,alla fine del giro di giostra, al termine del viaggio sull'acqua di una valigia vuota... Il segreto di Tsai Ming-liang? Il cinema. Perché quel luogo o quella dimensione misteriosa, in cui vigono leggi diverse dalla vita, che pratica la bellezza come un dovere morale o una ragione per non morire,è proprio il cinema. Non è un caso che venga citato Truffaut. Ma neppure che nell'acquario ci sia, ironicamente, lo stesso pesce (grande interpretazione) che fece la sua prima apparizione ai tempi de Il Fiume. Il regista taiwanese è un ottimo creatore di immagini piene e potenti (oggi uno dei più grandi), ma anche un autore sempre più consapevole del proprio ruolo e della propria arte. «Sembra a volte obbedire a una specie di aritmetica sacra» ha detto Benoit Delhomme. Anche questa volta i conti tornano.

Fabrizio Tassi