Vite separate tra pareti invisibili

Tsai racconta il disagio dilagante, lo svuotamento della persona, l'annientamento della comunicazione, la frammentazione dell'esistenza, l'estinzione dei valori

VITE SEPARATE TRA PARETI INVISIBILI

 

La conoscenza di Tsai Ming-liang il pubblico specializzato la fa a Torino Cinema Giovani nel 1993, quando viene presentato in concorso il suo primo film Rebels of the Neon God (Qing shaonian necha, 1992). Il film racconta la storia di due giovani, ma soprattutto parla dei cambiamenti dolorosi di Taipei, nel periodo che il regista definiva il peggiore nella storia della città. Già questa prima opera testimoniava di uno stile duro e spietato nella rappresentazione della realtà sociale.

Conoscendo il mercato italiano, si stenterebbe a credere che ben tre film successivi del regista taiwanese siano entrati nella distribuzione commerciale; probabilmente il successo internazionale del 1994, quando il suo film Vive l'amour (Aiqing wansui, 1994) vinse a sorpresa il Leone d'oro ex aequo con Prima della pioggia alla Mostra di Venezia dello stesso anno, illuse il distributore che con tanto coraggio volle farlo uscire. Era un titolo che poteva trarre in inganno, che lasciava presagire una storia di genere, forse un melodramma orientale, con i personaggi che, dopo oleografiche peripezie, all'interno di tensioni sociali fortissime, alla fine riescono a ricongiungersi nell'eternità della passione. In realtà il film era tutt'altra cosa. Ambientato nel presente, in un contesto urbano che ha visto un'accelerazione tanto intensa e aggressiva quanto inarrestabile dello sviluppo industriale e tecnologico, della concentrazione abitativa e della conseguente proliferazione edilizia, Vive l'amour racconta il disagio dilagante, lo svuotamento della persona, l'an-nientamento della comunicazione, la frammentazione dell'esistenza, l'estinzione dei valori che contribuivano alla sopravvivenza della comunità. Protagonista è soprattutto Taipei, la città capitale, dove molti sono arrivati dalla campagna, lasciandosi alle spalle quel senso di appartenenza alla terra e agli spiriti che l'hanno abitata e che presto hanno dimenticato completamente, persi nelle luci della notte, nei luoghi del consumo indotto, nelle dimore che si assomigliano tutte, come celle di un'enorme prigione. Qui, dove l'affollamento è massimo, paradossalmente aumenta l'isolamento degli individui, che si muovono storditi in un labirinto da cui non cercano di fuggire, dove anzi hanno spento la fiamma dell'illusione, fosse anche quella di trovare qualcuno a cui stare accanto, per esprimere qualcosa, una piccola parte, di quanto si ha dentro. Ciò, semplicemente, non può più accadere, perché non fa parte del nuovo mondo che si è formato; certo, alcuni durante la giornata lavorano, ma poi anch'essi si ritrovano come tutti, a consumare il pasto seduti in qualche locale, dove si può anche incontrare qualcuno ed incrociare i propri destini, acciden-talmente, senza chiedere nulla, dopo un'attesa durante la quale ciascuno rimane immobile, come se avesse bisogno di un po' di tempo per abituarsi alla presenza dell'altro.

I personaggi di Tsai Ming-liang sovente appaiono ripiegati su stessi, assenti, staccati dal tempo che continua intorno ad essi, parti di una materia manufatta priva di vita; i corpi giacciono nell'inquadratura, anch'essa immobile, senza che nulla traspaia dagli sguardi e dalla pelle.Le cose, gli interni con la loro geometria spoglia, partecipano di questa staticità, mentre ogni elemento dello spazio sembra esistere per se stesso, senza relazione alcuna con l'ambiente; potrebbe stare in qualsiasi posto, dentro qualsiasi casa,come anche coloro che li abitano. Quel senso di appartenenza che lega la vita e la durata degli esseri e che cambia la fisionomia delle cose inanimate, non c'è più. Anche l'immagine di sé riflessa dallo specchio è priva di corrispondenza; l'ambiguità, l'imbarazzo, il turbamento sono assenti. Lo sdoppiamento produce due figure che guardano due punti di-stanti, ognuna con il suo mutismo, con la sua inabilità al dolore. In questo territorio di perdenti, uniche testimonianze di vitalità rimangono le prestazioni del corpo: nelle espressioni della sessualità e nelle offese ad esso recate.Da una parte il piacere che soddisfa la domanda istintuale, nella diversità delle forme e nei tempi dello sfogo, dall'altra la malattia e il danno inferto a se stessi. Al corpo appartengono gli ultimi, inestinguibili sussulti di energia, una reattività che ha origini profonde e che, se non arresta le derive della mente, almeno rende possibile qualche avvicinamento,qualche tensione e la percezione di sé nell'urgenza imprescindibile della pulsione e del patimento.

Nell'ultima sequenza de Il buco (Dong, 1998), il protagonista "cattura" la giovane donna, con la quale per tutto il film aveva combattuto una battaglia di nervi esasperante e crudele. Quell'apertura occasionale era stata come il foro di una camera oscura attraverso cui transitavano fasci di sguardi e onde affettive, angosce e silenzi soffocanti, paure e affanni che riempivano l'aria con tutta la loro pesantezza. Un lieto fine? O solo il concedersi ad una presenza insistente, una scommessa giocata sul filo della rassegnazione, un salto nel vuoto di un'altra solitudine, l'abbandono ad un'ultima spiaggia, ennesimo luogo del naufragio piuttosto che una promessa di felicità? Sono domande legittime, dopo aver visto e toccato questo mondo sommerso dalla pioggia e da un rumore incessan-ti, irrespirabile per l'umidità e l'afa racchiuse dai muri di acqua. I corpi indolenti e accasciati, gli sguardi che si infrangono su barriere di materia. Una sfida mortale con l'altro, per annientarne l'attenzione, per chiuderlo ad una possibile, rischiosa intrusione, perché in esso potrebbe configurarsi il riflesso della condivisione, della appartenenza ad un comune destino. Terrore di una vicinanza che significherebbe denudarsi, esporsi alla lacerazione dell'autoriconoscimento. Una frattura nel muro che divide le esistenze diventa come la rottura di una diga, dove può riversarsi l'enormità delle tensioni che prima vi erano contenute. Allora, bisogna fare di tutto perché la cosa cessi il più presto possibile; quel buco va tappato, prima dell'inondazione del proprio sé da parte di un altro attore del malessere, prima che un'altra inquietudine possa contaminare un'esistenza già devastata dalla malattia.

L'inquinamento non è solo quello che sta corrodendo l'ambiente e che non risparmia i corpi che ne sono a contatto; c'è, ancora più terribile, un morbo che agisce dentro la coscienza, che provoca una sclerosi dell'emozione e del sentimento, un autismo che chiude la comunicazione con i propri simili. I due giovani di Vive l'amour si prendono senza dirsi alcunché, l'uno di fronte all'altra, dopo un incontro casuale, dopo un pedinamento silenzioso e svogliato; pochi gesti per togliersi di dosso i vestiti e concedersi in una stanza asettica e seriale, senza dirsi una parola, fino a che uno dei due raccoglie i suoi vestiti e se ne va via. La sola forma di comunicazione che rimane è quella telefonica, a distanza, strumentale alla programmazione dell'incontro successivo; per il resto nulla. Nessuno riesce a dire granché: non l'espressione di un pensiero, qualcosa che possa rivelare un moto dell'animo, che dia la sensazione che quelle persone si ritrovino non solo per caso o per noia. Non si parlano neppure padre e figlio ne Il fiume (Heliu, 1997), due sconosciuti che passano l'uno accanto all'altro senza scambiarsi il cenno di un saluto. La malattia del ragazzo apparentemente li riavvicina, ma è solo una convivenza coatta che in realtà allarga a dismisura il vuoto tra di loro e innesca una sfida atroce e umiliante. Il figlio attira su di sé la depravazione paterna e in questo modo lo condanna senza possibilità di appello; lo annienta sostituendosi ai suoi oggetti d'amore. Così, da "normale" sconosciuto, può sentirsi un'estraneità assoluta; la frattura diventa totale, il padre non esiste più, la famiglia è frantumata.

Muri e ancora muri, fatti di trasparenza e di vuoto, ma duri e impenetrabili, tanto più percepibili quanto più gli individui sono fisicamente vicini, ma lontanissimi per l'incapacità di sapersi guardare. C'è un muro anche tra la macchina da presa e quanto si svolge davanti ad essa. Per lo più immobile, osserva il mondo, gli uomini, che la tengono a distanza e dei quali può solo registrare le cadute e gli affanni, impietosamente. Si avverte come una forza che impedisce di avvicinarsi, che non dà scampo, che non consente di spostare il punto di vista per trovare qualcosa, un oggetto o un gesto, sul quale soffermarsi e distrarsi. Ogni luogo è una cornice che comprime, ogni quadro una raffigurazione di fatiche; la luce, poca o tanta che sia, è artificiale, metallica, gelida, irritante. L'esterno e l'interno sono separati dalla notte, dal buio, dalla penombra. Tsai Ming-liang fa collidere i tempi dell'azione con quelli della visione; la prima ha l'incidenza di una suppurazione, la seconda è come prolungata a contenerne gli effetti. In questo modo si crea una trazione tra la rappresentazione e le forme che la definiscono; l'interpretazione non è così affidata solo alle presenze nell'inquadratura, ma al rapporto tra la loro effettività e la "tolleranza" della ripresa. Alla difficoltà che esiste nella realtà dei rapporti umani corrisponde l'impermeabilità reciproca tra l'oggetto e lo sguardo. Il regista taiwanese legge il presente del suo paese, la deriva e la disperazione dei suoi abitanti, ne affida la trasposizione ai meccanismi della messa in scena, alla quale spetta di diritto la conclusione di qualsiasi storia. La ragazza che piange alla fine di Vive l'amour, a lungo: un pianto interminabile che la macchina da presa non ha il coraggio di lasciare, ma anche l'unico momento di sfogo del personaggio e del film, una sberla allo spettatore, ma anche una reazione di umanità. La finestra che si apre alla fine di Il fiume, a lasciare entrare finalmente un po' di luce e di aria, con i rumori della strada e dell'indifferenza: qualcosa di molto quotidiano, ma che qui appare come l'uscita dall'incubo, un riprendere fiato, almeno per un momento. Il finale già descritto di Il buco, seguito dall'ultima canzone, forse un sogno in musical, un oggetto assolutamente cinematografico, che porta con sé la vanità dell'artificio, ma insieme distoglie dall'affanno. Resta, comunque, l'enorme fatica per compiere un gesto d'amore.

Angelo Signorelli