Parinita: il contesto

Parinita (2005), diretto da Pradip Sarkar e tratto dal romanzo omonimo del 1914 di Sharatchandr Chattopadhyay, è il rifacimento più recente di quest’opera, dopo quello‘ufficiale’del 1953 di Bimal Roy. In questa prima parte, anziché perdersi in confronti non sempre legittimi, viene dato spazio al contesto storico e socio-culturale in cui il romanzo e i due film hanno visto la luce, premessa indispensabile per capire un’opera radicata in una cultura altra.

 

PARINITAIl contesto

 

Parinita (Una donna sposata), il film hindi di Pradip Sarkar uscito nel 2005 che ha in qualche modo avviato l’attuale corsa al remake, è il quarto adattamento cinematografico del romanzo omonimo di Sharatchandr Chattopadhyay, pubblicato nel 1914. Le versioni precedenti sono due bengalesi, dirette nel 1942 e nel 1969 rispettivamente da Pashupati Chatterji e da Ajay Kar, e una hindi del 1953, realizzata da Bimal Roy, trasposizione ‘ufficiale’ e più nota, qui assunta come termine di riferimento.

I confronti sono spesso antipatici e inopportuni, benché prevedibili e inevitabili, quando si porta sullo schermo un’opera letteraria o si rifà un film famoso. Ma Parinita è un caso a sé. Il pubblico giovanile indiano, almeno quello scolarizzato, di nome conosce certamente Sharatchandr, uno degli autori bengalesi più popolari del primo trentennio del XX secolo e il più trasposto sullo schermo (una cinquantina i film tratti dai suoi scritti). Ma è probabile che pochi o pochissimi abbiano letto il romanzo incriminato, non tra sue le opere maggiori. E’anche probabile che pochi o pochissimi abbiano visto l’omonimo film del 1953 di Bimal Roy, premiato per la regia e per l’attrice protagonista, ma anch’esso non tra le opere più conosciute del regista e oscurato dalla risonanza di Do bigha zamin (Due pezzi di terra), che era uscito nello stesso anno, e da altri suoi film di spessore, come Sujata (id., 1959) o Bandini (La detenuta, 1963). Di conseguenza, una parte cospicua degli spettatori ha accolto il film di Pradip Sarkar come una novità, considerando che il regista era anche al suo esordio nell’ambito del film a soggetto.

Neanche qui faremo confronti valutativi, né col romanzo (1), né tra i due film, entrambi più che pregevoli, ma assolutamente diversi. Daremo invece spazio al contesto storico e socio-culturale in cui il romanzo e i due film hanno visto la luce, spazio alquanto ampio, ma indispensabile per capire un’opera radicata in una cultura un po’altra. Come si nota dalle sinossi dettagliate dei due film, nell’opera di Bimal Roy la vicenda viene collocata all’inizio del Novecento, come nel romanzo, mentre Pradip Sarkar la sposta all’inizio degli anni Sessanta. Questo determina una profonda diversità di ambientazione, non solo scenografica ma anche e soprattutto sociale. I due periodi temporali preludono entrambi a mutamenti importanti, ma di segno opposto, nel corso della storia indiana. Nel primo caso, l’aspirazione all’autoderminazione politica, preceduta da movimenti di rinnovamento religioso e sociale, alla fine del XIX secolo si avviava a diventare lotta per l’indipendenza dal governo britannico ed avrebbe ricevuto una decisa accelerazione con la divisione del Bengala, nel 1905. All’inizio degli anni Sessanta, invece, le attese create dall’ottenuta indipendenza si erano smorzate nel troppo lento cammino verso le sperate conquiste sociali ed economiche. Il disastroso scontro di confine con la Cina (1962) aveva poi messo a nudo la debolezza politica e militare del paese e minato la salute di Nehru. La sua morte, due anni dopo, avrebbe avviato un profondo cambiamento nella leadership e nell’evoluzione del paese.

Anche la diversa situazione cinematografica degli anni in cui i due film vengono realizzati contribuisce a illuminare il quadro in cui vanno inseriti.

In bianco e nero, con una scenografia scarna ed essenziale, il film di Bimal Roy lascia intuire l’influsso del neorealismo italiano, di cui i cineasti indiani avevano avuto modo di vedere alcuni esempi a partire dal 1952, quando a Bombay si era tenuta la prima edizione del festival cinematografico internazionale dell’India. L’anno seguente, infatti, Bimal Roy aveva realizzato Do bigha zamin, considerato tra i precursori della corrente realista nella cinematografia indiana. Il primo festival internazionale, che aveva aperto una finestra più ampia sul cinema del mondo, fa parte di una serie di eventi concomitanti che doveva fare degli anni Cinquanta l’epoca d’oro del cinema‘panindiano’, quello cioè che aveva ed ha la sua capitale a Bombay. E’in questo decennio che vengono realizzate le opere più note dei grandi protagonisti della scena hindi, come Raj Kapur, Gurudatt, Mahbub Khan e, appunto, Bimal Roy. Allora, per fortuna, non si era ancora verificata la separazione tra cinema mainstream (popolare, commerciale e chi più ne ha più ne metta) e cinema parallelo (d’autore, d’arte, impegnato, ecc.). Quella sarebbe arrivata alla fine degli anni Sessanta (ma oggi sembra avviata a ricompattarsi).


Parinita 1953, scena d’apertura

 

Parinita 1953 è essenzialmente un film di interni. Solo nella scena iniziale la macchina da presa mostra una panoramica della città, con una scritta in sovraimpressione: Calcutta, anni fa. Poi scende su una carrozza a cavalli che,  lungo un viale alberato, entra nel cortile di una dimora signorile e si ferma davanti all’ingresso. Ne scende Shekhar che attraversa il grande atrio, sale le scale ed entra nella sua stanza, dove Lalita (o Lolita, pronuncia bengalese, ma l’accento cade sulla prima e sulla terza sillaba, non sulla “i”) è intenta a studiare. Dopo questa prima sequenza, l’intero film si alterna principalmente tra alcune stanze delle tre case coinvolte: quella di Shekhar, quella di Lalita e quella dei vicini, anch’essa adiacente alle altre due. La diversa condizione economica delle tre famiglie è chiaramente visibile nelle dimensioni e negli arredi degli ambienti (la casa di Shekhar è ovviamemente la più doviziosa) e nell’abbigliamento dei personaggi, ma l’atmosfera generale riflette una semplicità quasi austera, un’essenzialità che è esteriore e, fatta qualche eccezione, anche interiore.
Questa essenzialità di fondo manca nel film di Pradip Sarkar, cosa che non desta meraviglia, visto che siamo in presenza di una pellicola di tipo ‘bollywoodiano’, ma non nel senso derogatorio di improbabile fantasmagoria di colori, canti e danze.

Lasciamo perdere l’improbabilità, che porterebbe via troppo tempo; a colori sono praticamente tutti i film, dalla fine degli anni Sessanta, e canti e danze sono elementi costitutivi del cinema realizzato in India, anche di Parinita 1953. Parinita 2005 non fa eccezione: è un film a colori, decisamente belli, con diverse canzoni, sulle quali torneremo dopo.

Per lungo tempo, tuttavia, il cinema indiano – fatto a Bombay o altrove e ad eccezione della corrente parallela – era rivolto principalmente al consumo interno, benché avesse una buona diffusione anche nei paesi mediorientali e nella nicchia degli emigrati. Dopo la diffusione dei videoregistratori negli anni Ottanta, con il conseguente e considerevole incremento nella circolazione dei film, si comincia a prestare maggiore attenzione ai Non Resident Indians (NRI), indiani residenti all’estero, non semplici emigrati, bensì gruppo economico di tutto rispetto, con un peso socio-culturale non trascurabile. E non solo a quelli. Alla fine degli anni Novanta, Dil se (Con tutto il cuore, 1998, di Mani Ratnam) si era collocato al sesto posto tra i film più visti in Inghilterra, aprendo al film hindi mainstream una breccia in territori inesplorati: era scoppiato il ‘fenomeno Bollywood’. Anche il pubblico occidentale ora sembra spesso deliziato da questa forma diversa di spettacolo e il mercato globale guarda con interesse l’imponente industria cinematografica dell’India. Ne deriva che i nuovi film devono fornire un’immagine positiva ed accattivante dell’India, rimuovendo quella imbarazzante (i poveri sembrano spariti dallo schermo, infatti).

Parinita 2005, scena d’apertura
Parinita 2005 non fa eccezione: qui, le abitazioni, compresa quella di Lalita, sono decisamente sontuose e i costumi – soprattutto quelli indossati per occasioni speciali - non sono da meno, come lo stile di vita. Anche questo è un film principalmente di interni: la narrazione si dipana in alcune stanze delle tre case, pur con qualche sequenza esterna in più rispetto a Parinita 1953. Inizia con una panoramica della Hooghly, il fiume che attraversa la città, seguendo le imbarcazioni che si avviano sotto il famoso Howrah Bridge (immortalato proprio da Bimal Roy in Do bigha zamin e in ben altro contesto), per sfiorare sulla riva un uomo immerso in preghiera e alcuni atleti intenti ai loro esercizi. L’occhio della cinepresa si sposta poi sulla città; sullo sfondo, la cattedrale di S. Paolo e più al margine il Victoria Memorial.

Anche qui appare una scritta in sovraimpressione: 1962 Calcutta. Seguono immagini di vari aspetti caratteristici della città: i risciò, le Coffee House, le devozioni alla dea Kali e le leccornie dolci o speziate in vendita sulle bancarelle, i ragazzi che giocano a calcio e gli scontri con la polizia. La macchina da presa torna poi verso il fiume e l’Howrah Bridge, in una visione notturna, e si ferma davati a una grande villa illuminata a festa per il matrimonio di Shekhar. A parte le prime e le ultime sequenze, infatti, la storia è narrata in flashback.

Shekhar e Lalita in Parinita 1953
I diversi periodi in cui sono ambientati i due film condizionano in modo determinante i rapporti tra i personaggi. I movimenti di rinnovamento (hindu, visto che si parla di loro) dell’Ottocento, soprattutto dalla seconda metà, si erano proposti, tra altre mete, di migliorare la condizione femminile, promuovendo l’istruzione, l’abolizione dei matrimoni infantili e la possibilità per le vedove (bambine: si veda Water, 2006, di Dipa Mehta ) di alta casta di risposarsi. Questi primi passi avevano incontrato una forte ostilità negli ambienti sociali più conservatori e ortodossi. Al volgere del secolo, la condizione delle donne rimaneva alquanto plumbea, come si intuisce da Parinita 1953 e dal romanzo. All’inizio di quest’ultimo, Lalita ha 13 anni e 17 alla conclusione (Shekhar ne ha rispettivamente 25 e 29); alla fine dell’Ottocento e anche all’inizio del Novecento, era normale che le bambine venissero sposate a quell’età. Nel film di Bimal Roy, i due protagonisti hanno un’età più accettabile. La protagonista, Mina Kumari, aveva 21 anni, mentre Ashok Kumar appare addirittura stagionato come Shekhar: ne aveva 42 all’epoca del film. Questa ‘stagionatura’ legittima il suo atteggiamento protettivo e paternalistico verso Lalita, come il contesto storico legittima il suo impegno per darle un’istruzione superiore. Giovane, orfana e povera, Lalita ricambia l’attenzione di Shekhar non solo con lo studio, ma anche con l’assidua cura di lui e della sua stanza e soprattutto con devota gratitudine.

Questo rapporto maestro-allieva (guru-shishya, come nella migliore tradizione hindu) è evidentemente ben accetto e sostenuto non solo dagli interessati, ma anche da entrambe le famiglie, soprattutto dalla madre di Shekhar che nel romanzo è una donna di idee liberali, molto più avanti del suo tempo. Altrimenti, nel 1900 sarebbe stato impossibile per una ragazza in età da marito (che avesse 13 o 20 anni) andare di giorno e di notte a casa (e nella camera) di un giovanotto senza essere crocifissa dalle buone e malelingue.

A dire il vero sarebbe poco credibile anche nel 1960. Tuttavia, gli anni del governo Nehru (1947-64) avevano visto qualche concretamento dei primi tentativi ottocenteschi di emancipazione, maturatisi anche con il movimento nazionale, a cui le donne avevano partecipato attivamente. La Costituzione del 1950 aveva sancito l’uguaglianza dei cittadini, indipendentemente da sesso, casta e religione. Per gli hindu, inoltre, erano passate leggi che davano anche alle donne il diritto di divorziare e di ereditare (qualcosa), oltre a quelle che abolivano la bigamia, mentre nel 1961 era stata messa fuori legge la richiesta di dote, che però è ancora oggi causa di morte per molte giovani spose‘inadempienti’. L’impossibilità di provvedere a una dote adeguata è infatti un altro fardello che grava sulla famiglia di Lalita 1953 ed è il motivo che spinge Gurucharan a combinare il matrimonio della nipote con Giren, di casta più bassa, ma contrario alla dote. Nel romanzo, la questione – che tuttavia ha implicazioni dirette anche con la dote – è piuttosto diversa e riguarda la particolare affiliazione religiosa del giovane, ma non è il caso di soffermarsi su questo punto. Il matrimonio tra caste e religioni diverse, comunque, era stato legalizzato nel 1954.

Dal 1929 l’età minima per il matrimonio era stata portata a 14 anni per le donne: ma a 18 solo con un emendamento del 1976, disposizioni ampiamente ignorate nelle aree rurali (si pensi a Bandit Queen, 1996, di Shekhar Kapur). Non occorrerà aggiungere che il matrimonio combinato dalle famiglie rimane ancora oggi la pratica più comunemente seguita (90%) e non solo dagli hindu, benché i diretti interessati abbiano talora qualche voce in capitolo. Non certo all’inizio del secolo. Quanto all’istruzione e all’occupazione femminile, negli anni Cinquanta e Sessanta e soprattutto in ambiente urbano, queste cominciavano ad apparire prospettive se non desiderabili, almeno non disprezzabili in molte famiglie delle classi medie (per ceti e caste meno e più abbienti il discorso è più complesso). Infatti Lalita 2005 ha un buon livello di istruzione, con ottimo profitto negli studi. Sotto questo profilo, non è inferiore a Shekhar, che fa il musicista e fa affidamento su di lei per giudizi critici e per i testi delle sue composizioni.
Lalita e Shekhar in Parinita 2005

Anche l’età appare più adatta a due giovani innamorati. ‘Appare’nel senso che l’apparenza a volte inganna: i due attori protagonisti, Vidya Balan e Saif Ali Khan, avevano rispettivamente 27 e 35 anni all’epoca del film, non proprio giovanissimi per criteri indiani. Ma le generazioni sono cambiate anche lì, e in maniera vistosa alla fine degli anni Ottanta, quando sono arrivati sullo schermo i ‘giovani’, nell’età e soprattutto nell’aspetto: questi Lalita e Shekhar sono due ragazzi, anzi, Vidya Balan a 27 sembra molto più giovane di Mina Kumari a 21.

Già che ci siamo, diciamo qualcosa di più sugli interpreti, ottimi in tutti due i film.

Quelli di Parinita 1953, ormai passati a miglior vita, sono figure stellari, soprattutto agli occhi di oggi: Mina Kumari, quasi al suo debutto adulto, dopo una lunga carriera infantile e adolescente, cominciava a manifestare i tratti che ne avrebbero fatto la grande tragica del cinema hindi, mentre Ashok Kumar, produttore del film, che aveva introdotto nel cinema uno stile naturale di recitazione, era già assurto a inossidabile fama da quasi vent’anni.

Anche Parinita 2005 conta nomi assai noti, come Sanjay Datt (Girish), attore eccellente e figura controversa. Figlio di attori anche loro stellari e scomparsi (Nargis e Sunil Datt, rispettivamente madre e figlio cattivo in Mother India, 1957, di Mahbub Khan), Sanjay è sempre stato il‘figlio cattivo' di Bollywood, prima per droga, oggi per qualcosa di più serio: è stato di recente condannato a sei anni di carcere per possesso illegale di armi da fuoco, nell’ambito di un grave caso di terrorismo a Bombay nel 1993. Molto noto è anche il protagonista, Saif Ali Khan, che sembrava il meno dotato o il meno fortunato dei‘Khan' di Bollywood (Amir Khan, Shahrukh Khan e Salman Khan). Figlio di Sharmila Tagore (hindu, parente del Vate, attrice di molti film di Satyajit Ray e star del cinema panindiano) e del navab Mansur Ali Khan Pataudi (musulmano, di antica aristocrazia e grande giocatore di polo), Saif colleziona per diversi anni più batoste che altro. Riesce infine a indovinare in una serie di film di successo, in cui si rivela interprete intelligente, poliedrico e di spessore, conquistando il suo posto al sole. Ma la vera rivelazione è senza dubbio Vidya Balan, pluripremiata come miglior attrice debuttante, che con la sua praticamente perfetta interpretazione si è piazzata tranquillamente al fianco delle colleghe superstar come Aishvarya Ray o Rani Mukharji.

Non possiamo esimerci da qualche accenno alla parte musicale. In Parinita 1953, in verità, i momenti musicali sono pochi. Il più bello, ripetuto due volte, Chali Radhe rani (Radha se ne va), è cantato da un asceta mendicante (la voce è quella molto famosa di Manna De, musica di Arun Kumar Mukharji e parole di Bharat Vyas), e racconta la storia di una baruffa tra il dio Krishna e la sua amante umana preferita, Radha. Questo brano completa il quadro del rapporto tra Shekhar e Lalita: non solo padrone-schiava, ma anche essere divino-essere umano. Il brano corale, Gore gore hathon men menhdi rachake (Con le mani  bianchissime decorate di henné), eseguito dopo il matrimonio delle bambole, sottolinea la visione della sposa come creatura devota e sottomessa allo sposo e alla di lui famiglia: solo così ella potrà sperare nel loro affetto. Ben diverso nel tono è l’allegro brano coreografato Khvab dekha hai (Ho fatto un sogno) eseguito durante lo spettacolo teatrale che Lalita non ha occasione di vedere: qui un’energica donzella ridimensiona le fantasie dell’innamorato che ha sognato per loro un futuro da re e regina.

Quanto a Parinita 2005, il film presenta un’esemplare integrazione della parte musicale nel tessuto narrativo, come non se ne vedevano da tempo. Le musiche di Shantanu Moitra e i testi del poeta Svanand Kirkire concorrono a creare brani degni di nota: Piyu bole (L’innamorato disse qualcosa), Hui main parinita (Sono diventata una donna sposata), Suna man ka angan (Vuoto il cortile del cuore), in cui duettano Shreya Ghoshal e Sonu Nigam, Rat hamari to (Mia notte), cantata da Chitra, a parte i primi versi, eseguiti dallo stesso Svanand Kirkire, e l’allusiva ‘canzonaccia’ di nozze Dhinak dhinak dha (suono prodotto dai tamburelli), enfatizzata dalla ruvida voce di Rita Ganguli. A questi si aggiungano le citazioni da musiche di Tagore, l’omaggio a Charulata (id., 1964), il film di Satyajit Ray tratto da un’opera dello stesso Tagore e altro ancora. In effetti la parte musicale di Parinita 2005 meriterebbe un commento a sé.

      Lo spettacolo teatrale in Parinita 1953
 
Rekha nella scena del Moulin Rouge, Parinita 2005

Ancora una parola per Kaisi paheli zindagani (Che rompicapo la vita), la divertente canzone eseguita dalla ‘sciantosa’ del Moulin Rouge (uno dei più famosi locali di Calcutta negli anni Sessanta). La voce è quella di Sunidhi Chauhan, ma a darle corpo è un delizioso cammeo di Rekha, inossidabile femme fatale del cinema hindi e attrice di grande talento (si pensi a Umrao Jan, 1981, Muzaffar Ali). Nel suo commento (Bollywood - Music Review – Parineeta), a proposito di questa esecuzione, Ron Ahluwalia consiglia di comprare due copie del cd, nel caso la prima si rovinasse a furia di sentirla.

 

Note

(1) Una traduzione inglese del romanzo è edita dalla Penguin Books, New Delhi 2005. 

Cecilia Cossio