Ti rifaccio! Un remake al giorno leva la noia di torno

Un virus influenzal-cinematografico sembra aver colpito numerosi registi indiani siano essi operanti nel cinema mainstream o in quello parallelo: la febbre del remake. Benché si tratti di una pratica ben consolidata nel tempo, è balzata di recente alla ribalta per la sua concentrazione temporale, per gli ‘originali’ a cui si ispira e per i registi che in tale pratica si sono cimentati o meditano di farlo. Il vino vecchio nella botte nuova o qualcos’altro?

TI RIFACCIO!Un remake al giorno leva la noia di torno

 

Uno spettro si aggira per la Terra dello Spirito, in attesa di nuova incarnazione, alla ricerca di un maieutico demiurgo che ne riordini i costituenti secondo la forma ideale e lo restituisca alla luce. O, più prosaicamente, il vino vecchio nella botte nuova, come titola un articolo di Deepa Gumaste sull’argomento (“Filmindia Worldwide”, Nov. 06-Jan 07, IV, 22-23)? Utile forma di esercizio artistico, sfida o tributo a mostri sacri o preoccupante carenza di idee originali? Questi gli interrogativi che si pongono davanti alla dilagante febbre del remake che sembra avere di recente colpito molti registi indiani.

A ben vedere, tuttavia, più che un attacco improvviso di un virus influenzal-cinematografico, quella del rifacimento è nell’India del cinema – come del resto nel cinema della nostra parte del mondo – pratica antica e consolidata. Dal lontano 3 maggio 1913, quando Dadasahab Phalke aveva deliziato uno scelto pubblico di Bombay con la ‘prima volta sullo schermo’ di un film a soggetto e della storia del re Harishchandr, quella stessa vicenda ha avuto una decina di riproposizioni. Lo stesso destino hanno incontrato diversi episodi tratti dall’epica o dalla mitologia, come Nal-Damayanti o Satyavan-Savitri o dal teatro, come Mrichchhkatik  o “Il carretto d’argilla” (sontuosa la versione di Girish Karnad del 1984); famosi episodi (pseudo)storici come quelli legati alle figure di Shivaji o di Jahangir; e racconti popolari di tragici amori, come Hir-Ranjha o Laila–Majnu. Quest’ultimo è arrivato addirittura a venti riproposizioni, una più una meno.

Il caso più famoso rimane quello di Devdas, che inizia con l’omonimo romanzo di Sharatchandr Chattopadhyay del 1917, si impone con il film di P.C. Barua del 1935 (in due diverse versioni, hindi e bengalese), a sua volta remake del precedente muto del 1928 di Naresh Mitr, si conferma con il rifacimento hindi di Bimal Roy del 1955, si dissemina in versioni telegu e tamil, per arrivare al bollywoodiano evento di Sanjay Lila Bhansali del 2002, accompagnato da un ‘doppio’ bengalese, ad opera del veterano Shakti Samant, oscurato dal bagliore del compagno hindi. Senza per altro esaurirsi in semplici (si fa per dire) riproposizioni. Lo spettro devdasiano ha continuato a manifestarsi costantemente lungo l’arco di settant’anni, sotto più o meno mentite spoglie e quando meno te l’aspetti, quale cinematografico herpes zoster, nell’opera di innumerevoli registi e con i volti di altrettanti eroi dello schermo, fino a tralucere in quello dell’angry (ex)young man Amitabh (Amitaabh) Bachchan. E ancora continua. Il bengalese Iti Shrikant (Yours Truly, Srikanta), diretto nel 2004 da Anjan Das e ispirato a Shrikant, altro noto romanzo di Sharatchandr, anche questo del 1917,(1) propone ancora lo stesso tristo eroe dall’animo conteso tra due donne – o tra i due volti della stessa donna – la cortigiana Rajlakshmi e l’ascetica Kamallata. Last but not least, del 2006 è Yatra (Il viaggio), film hindi del bengalese Gautam Ghosh, che sembra rivisitare Devdas e Gurudatt in un colpo solo. E non basta ancora, visto che anche Sudhir Mishra e Anurag Kashyap sono stati colpiti dall’infezione. Ma Sudhir ha per ora fatto marcia indietro dopo l’uscita nel 2009 del trionfale remake di Anurag, Dev.D.
 

Devdas
1935 (P.C. Barua)

Tornando a Gautam Ghosh, questi si era avventurato in una pratica fino ad allora poco praticata da quelle parti ovvero il sequel: Abar aranye (Di nuovo nella foresta, 2003) è la ‘continuazione’di Aranyer din ratri (Giorni e notti nella foresta, 1969), di Satyajit Ray, il quale era stato tra i primi a percorrere questa strada con la trilogia di Apu. Ora quella via sembra interessare anche il mainstream: Krrish (id., 2006, di Rakesh Roshan), ad esempio, racconta le vicende di un giovine dotato di superpoteri, ereditati dal padre, che li aveva avuti in dono da un extraterrestre in Koi... mil gaya (Incontro con... qualcuno, 2004, stesso regista, stessi interpreti e ispirato a E.T.). Non iscriverei tra i sequel i due film di Rajkumar Hirani su Munna Bhai, Munna Bhai M.B.B.S. (Munna Bhai dottore, 2003) e Lage raho Munna Bhai (Tieni duro, Munna Bhai, 2006), senza altre connessioni se non lo stesso protagonista (Sanjay Datt, che sarà pure un terrorista, come ha scritto qualcuno, ma è anche un ottimo attore). Il sequel, comunque, sembra destinato a un radioso futuro.

C’è poi chi rifà se stesso, come alcuni grandi nomi del tempo che fu. Kedar Sharma, ad esempio, attore e dialoghista nella versione hindi del Devdas di P.C. Barua e poi affermato regista e produttore, nel 1964 aveva rifatto a colori Chitralekha (id.), film che aveva realizzato in bianco e nero nel 1941. Mentre Mahbub Khan aveva partorito nel 1957 Mother India, pietra miliare del cinema panindiano, ma remake a colori del suo precedente Aurat (Donna, 1940).

Nome più modesto e di un passato più recente, Feroz Khan, attore, regista e produttore, noto soprattutto per un polpettoncino di grande successo, Qurbani (Sacrificio, 1981), storia d’amore, di amicizia (maschile, ovviamente) e, appunto, di sacrificio, ora sta per riproporlo come Kurbani, traslitterazione del termine un po’meno accurata della precedente, dal punto di vista linguistico. E questo ci riporta ai nuovi rifacimenti: quello che improvvisamente ha reso l’annosa pratica, più che visibile, degna di riflessione è la concentrazione temporale della stessa, i modelli‘originali’a cui si ispira e i registi che in tale pratica si sono cimentati o che si stanno cimentando e che hanno in cuore di cimentarsi.
 

Devdas
1955 (Bimal Roy)

Parliamo qui di rifacimenti di cose indigene. Quelli di film occidentali sono altrettanto frequenti, ça va sans dire. Questo filone sarà meglio tralasciarlo, almeno per adesso, ma non si può non citare almeno due intrepide sortite (a parte Koi... mil gaya) in questa direzione, entrambe del 2005: Black, diretto ancora da Sanjay Lila Bhansali e remake di Anna dei miracoli (The Miracle Worker, 1962, di Arthur Penn), con l’onnipresente Amitabh Bachchan nel ruolo che era stato di Anne Bancroft, e Sarkar (id., tallonato nel 2008 da un Sarkar 2, a conferma delle previsioni sui sequel), ovvero Il padrino rivisitato da Ram Gopal Varma, con i Bachchan padre e figlio nei panni rispettivamente di Marlon Brando e Al Pacino.


Devdas
2002 (Sanjay Lila Bhansali)
 
Ma veniamo ai corpi del reato. Devdas (Devdaas) a parte, ad aprire la nuova serie è stato Parinita (Una donna sposata, 2005, hindi), ennesimo adattamento di un romanzo di Sharatchandr, diretto da Pradip Sarkar al suo esordio nella regia di un film a soggetto. La vicenda di Lalita – giovane povera segretamente sposata con il ricco Shekhar e in seguito promessa in matrimonio a un benefattore della famiglia – ha avuto così la sua quarta edizione: due in bengalese, nel 1942 e nel 1969, dirette rispettivamente da Pashupati Chatterji e da Ajay Kar, e una hindi, nel 1953, per la regia di Bimal Roy, uno dei grandi cineasti della scena bengalese e hindi. E’proprio quest’ultima ad essere considerata l’‘originale’e a costituire il termine di riferimento per il cimento di Pradip Sarkar.

Risonanza ancora maggiore – ma non altrettanto meritata - ha destato Don (id., 2006), vicenda di un giovane di pochi mezzi e molta fantasia ingaggiato da un ispettore di polizia per infiltrarsi in una banda di pericolosi malviventi, dal momento che è il sosia perfetto del boss, ucciso in uno scontro a fuoco. Se il film di Bimal Roy appartiene, non diciamo alla preistoria, ma almeno all’evo antico del cinema ed è probabile che i più giovani tra gli spettatori indiani non l’abbiano visto e non ne abbiano neppure sentito parlare, per il vecchio Don il caso è diverso. Prima prova indipendente del regista, Chandr Barot, e uscito nel 1978, il film è stato uno dei grandi successi di Amitabh Bachchan e si è impresso nella memoria di Farhan Akhtar, il giovane ma ormai affermato autore del nuovo Don (che ha ora il volto della star Shah Rukh Khan, il Devdas di SL Bhansali). Il suo remake, infatti, voleva essere un tributo a un film che aveva molto amato, ma il successo riscosso dalla riproposizione, in India e overseas, lo ha convinto a progettare – guarda caso – un Don 2 e perfino un Don 3. In effetti, Farhan Akhtar, figlio del poeta e famoso sceneggiatore Javed Akhtar, può essere considerato l’antesignano della nuova ondata di rifacimenti. Il suo Lakshya (Lo scopo, 2004) ripete la storia di Vijeta (Il vincitore, 1982, di Govind Nihalani): un giovane demotivato, di famiglia agiata, con padre segnato dalla Partizione del 1947 e ossessionato dal bisogno di sicurezza economica, trova il suo scopo nella vita arruolandosi nelle forze armate e lottando contro i nemici della patria. Paternità non risconosciuta ufficialmente, comunque.

Ancora nel 2006, insieme con Don, è uscito Umrao Jan (id.), diretto e prodotto da JP Datta che, dopo una terna di film riguardandi conflitti e odii indo-pakistani e altri riguardanti conflitti e odii interni all’India, si è rivolto a un genere ben diverso, il kotha movie o “cinema del bordello”. Il kotha cinematografico, tuttavia, è spesso un luogo di piaceri raffinati più che di mercimonio sessuale ed è animato dalla presenza di fatali cortigiane come l’omonima protagonista del film. A JP Datta va riconosciuto, se non altro, un coraggio non da poco nel riproporre la magnifica opera di Muzaffar Ali, del 1981, premiata per la regia, la musica e l’attrice protagonista. Lo stesso coraggio va riconosciuto alla nuova Umrao Jan, Aishvarya Ray, ex-Miss Mondo o Universo o simile, attrice di talento e anche moglie di Abhishek Bachchan, per aver affrontato il difficile confronto con la mitica Rekha (che appare come cammeo nel nuovo Parinita). I confronti, legittimi o no, sono inevitabili e chi vi si espone volontariamente deve essere preparato ad accettarli.

Già si approssimano nuovi eventi. Rituparno Ghosh, uno dei registi più apprezzati e premiati del Bengala, stava approntando il rifacimento di un’opera cupa e affascinante, di cui è protagonista e produttore Gurudatt: Sahab bibiaur ghulam (Re, regina e fante, 1962), tratto dal romanzo omonimo di Bimal Mitr del 1952. La regia ufficiale era di Abrar Alvi, sceneggiatore di Gurudatt; quest’ultimo aveva deciso di non firmare più regie dopo il fallimento del precedente Kagaz ke phul (Fiori di carta, 1959, oggi un classico), ma la sua mano è impossibile da nascondere. Non sarà un’impresa facile porsi al suo fianco, nemmeno per Rituparno Ghosh, che pur si colloca tra gli auteur riconosciuti del panorama cinematografico indiano. Anche il film di Gurudatt, comunque, è un rifacimento: nel 1956 il regista bengalese Kartik Chattopadhyay aveva già trasposto il romanzo sullo schermo ma, come nel caso di Parinita di Bimal Roy, l’edizione ‘originale’ è considerata quella del 1962.


Dedica di Devdas 2002 alle‘fonti’
 
Rituparno Ghosh avrebbe in cuore anche Rahgir (La guida), remake di un film culto degli anni sessanta: Guide (1965), del regista Vijay Anand, fratello del protagonista, Dev Anand, leggenda vivente del cinema hindi. Il film – storia di Raju, guida turistica di bella presenza che intreccia una relazione con una donna sposata, Rosie, ne costruisce il successo come ballerina, le sottrae del denaro e, dopo un periodo di detenzione, diventa suo malgrado un santo – si ispira al romanzo omonimo di RK Narayan.

Tra gli altri rifacimenti in cantiere, citiamo l’Amar Akbar Anthony che David Dhavan, uno dei cineasti di maggior successo del cinema popolare, avrebbe intenzione di realizzare come tributo allo scomparso Manmohan Desai, re del masala (oggi Bollywood), e al suo grande successo omonimo del 1977, interpretato da uno spettacolare Amitabh Bachchan, validamente sostenuto dai compagni Vinod Khanna e Rishi Kapur e dalle rispettive eroine: Parvin Babi, anche lei scomparsa di recente, Shabana Azmi e Nitu Sinh).

Da ultimo (per ora), vorremmo citare – quale monito imperituro a chi‘vuol volar senz’ali’– la temeraria impresa compiuta nel 2007 da Ram Gopal Varma, che si è concentrato sul film forse più popolare della storia del cinema mainstream: Shole (Fiamme), diretto nel 1975 da Ramesh Sippi. Curry-western per eccellenza, il film era già una sorta di rifacimento dei Magnifici sette e ovviamente dei Sette samurai, con diverse altre citazioni, e vantava tra molti punti di forza le magnifiche interpretazioni del solito Amitabh Bachchan, di Dharmendr e di Amjad Khan (divenuto, nel ruolo del bandito Gabbar Sinh, il‘cattivo’più amato dello schermo), con un’indimenticabile danza di Helen, alla quale il team James Ivory-Ismail Merchant aveva dedicato il documentario Helen, queen of the nautch girls (1973). Il nuovo Shole – che si intitola Ag (Fuoco), anzi, Ram Gopal Varma ki ag (Il fuoco di Ram Gopal Varma) – è un disastro, un pietoso incidente che è bene dimenticare. La cosa più triste è che nel ruolo del‘demonio c’è ora Amitabh Bachchan, ridotto a caricatura di se stesso.

Per tornare agli interrogativi d’apertura, se cioè l’attuale febbre del rifacimento sia dettata dalla penuria di storie originali o se sia una moda innescata da un paio di riproposizioni di successo, è un po’ presto per dare una risposta esauriente. Certo sembra essere diventato una specie di passaggio obbligato, un‘esame di maturità’che i registi di oggi sono pronti ad affrontare con baldanza. Per ora non sarà male dare un’occhiata ravvicinata alle opere citate: a quelle già uscite, evidentemente, in attesa delle altre.

Note

(1) Il romanzo è stato tradotto in italiano nel 1925 da F. Belloni Filippi, con il titolo Srikanta, e pubblicato dalla casa editrice L’Estremo Oriente, Villafranca di Verona. 

Cecilia Cossio