Il mio approccio al cinema

Dal catalogo del Festival di Edimburgo, alcune delle prime dichiarazioni del regista, oggi ancora imprescindibili per rivelarcene l'arte.

 

IL MIO APPROCCIO AL CINEMA

 

 

Il testo che segue è stato scritto da Imamura più di tre decenni fa, quando aveva realizzato solo i suoi primi tre film, e, nonostante il suo approccio sarebbe in seguito divenuto ben più complesso di quanto suggerito in questo frangente, le sue dichiarazioni costituiscono un credo appropriato e rivelatore della sua arte.

Non mi piace parlare di teoria; non è un modo valido per descrivere l'oggetto dei miei film. Non credo che ci si possa emozionare davanti ad opere d'arte basate sulla teoria e nel mio caso, le tecniche che utilizzo non sono teorizzabili. Guardando la vita attraverso il mirino, scelgo il campo lungo quando voglio un campo lungo, e il primo piano quando voglio un primo piano.

Credo che il valore di un'opera dipenda in larga misura dall'idea su cui si basa. Ed è per questo motivo che quando realizzo un film, collaboro sempre alla stesura della sceneggiatura. Mi piace lavorare sul soggetto fin dall'inizio, a partire dalla prima idea dello sceneggiatore. La mia impressione è che la qualità di un film dipenda al settanta per cento dalla storia, e la qualità di quella storia dal soggetto. Una volta scelto il soggetto, la storia è scritta per i tre quarti.

Che cosa vuol dire dunque parlare di "idea" per un film? I teorici del cinema parlano spesso di "idee" nei film, riferendosi però con questo termine all'opposto di quello che intendo io. Per me l'idea in un film consiste nella relazione che essa instaura con gli esseri umani. Nel mio caso, questa relazione è un'attenzione ossessiva, quasi totale. Nel mio lavoro, sono le persone ad occupare il centro del palcoscenico; credo di essere molto più interessato al genere umano che agli altri cineasti. Non c'è inquadratura che sia priva di azione umana nei miei film. Non ci sono paesaggi vuoti o stacchi immotivati. Se Nakahira se ne serviva raramente, io ancora meno.

Lavoro in questo modo per evitare la trappola del limitarmi a spiegare un personaggio. Nel mio lavoro voglio andare ben oltre, voglio penetrare il cuore del personaggio. Voglio catturare la minima azione, la sfumatura più sottile, l'espressione psicologica più intima, poiché ritengo che un cineasta debba oltrepassare la 'superficie'. Ed è per questo che quando utilizzo il primo piano, mi avvicino con la cinepresa il più possibile.

Amo tutti i personaggi dei miei film, anche i più grossolani o frivoli. Voglio che ogni mia inquadratura sia espressione di questo amore.

Una volta completata la sceneggiatura, la fase successiva consiste in quello che chiamo stesura tecnica. A questo punto si svolge una lettura approfondita con gli attori ed un'attenta prova delle scene. Quando accade "qualcosa" che vale la pena riprendere, e a patto che possa essere ripetuta, inizio a riprendere, appropriandomi di questo "qualcosa".

Eccezion fatta per questi 'fortunati incidenti', non cerco di inventare qualcosa di nuovo ad ogni sequenza. Non appena gli attori che compongono il cast iniziano a recitare liberamente, di come l'operatore di macchina segue i loro movimenti, decido quale sia il punto migliore dal quale osservare l'azione, stabilisco la distanza e il momento migliore per avvicinarsi.

In breve, il mio metodo può essere definito 'un lavoro ben fatto'. Non ho tempo per nuove angolazioni solo per il gusto di proporre nuove angolazioni. La differenza tra il mio modo di girare e quello dei cineasti che mi hanno preceduto, è che io osservo liberamente gli esseri umani un po' come in un cinegiornale. Scelgo le angolazioni che illuminano più chiaramente il dilemma dei protagonisti.

Spesso mi chiedo se gli altri siano ossessionati dalla gente quanto lo sono io. Mi concentro in modo assoluto su questo aspetto, e persino l'opera di un grande cineasta, ben fatta e ricca di meravigliosi dettagli, mi emoziona solo a patto che contenga questa ossessione.

Quando lavoravo con Ozu come assistente alla regia, feci una delle mie prime, sconcertanti scoperte: la capacità di un regista di conferire continuità alle scene più disparate. Seguendo il consiglio di altri registi andavo a guardare i film stranieri e, penna rossa alla mano, annotavo sulla sceneggiatura tutti i dettagli tecnici che riuscivo a cogliere sullo schermo. Così facendo però, mi sono impadronito esclusivamente dello stile individuale dei registi di cui studiavo le opere. Per catturare meglio il livello più profondo di un film sarebbe meglio guardarlo a braccia conserte. Il metodo della penna rossa non mi insegnò niente di fondamentale.

Bisognerebbe evitare di seguire i modi più in voga di girare un film, le angolazioni stravaganti e bizzarre passano presto di moda. Inoltre, l'abilità tecnica riveste un'importanza secondaria per un regista, e si acquisisce naturalmente durante il corso della carriera in modo intuitivo e spontaneo.

Con questo, volevo solo esprimere un'opinione personale sul mio lavoro e distinguere gli elementi umani del 'fare cinema' da quelli tecnici.

Vogliate dunque perdonare il carattere non sistematico di questo testo.

Dichiarazione tratta dal catalogo del Festival di Edimburgo.
Citato in Il cinema di Shohei Imamura, a cura di Guy Borlée e Rinaldo Censi, "I quaderni del Lumière 36", Bologna, Ente Mostra Internazionale del Cinema Libero – ONLUS, 2001, pp. 15-17

 

Tradizioni e Influenze
Alla fine della seconda guerra mondiale avevo diciotto anni. È stato allora che la cultura occidentale ha invaso il Giappone e gettato all'aria i nostri valori. Personalmente, mi sentivo molto attratto da queste culture e in particolar modo dal teatro americano, A Streetcar Named Desire di Tennessee Williams, Arthur Miller, etc. Queste opere erano presentate dalla CIE, il Ministero dell'Informazione durante l'amministrazione dell'occupazione militare americana.

Anche l'Esistenzialismo, che stava iniziando a diffondersi in Giappone, esercitò una certa influenza. All'epoca, non potevamo ignorare movimenti culturali, più o meno di tendenza, che attraversavano le nostre vite; nonostante ciò, per quanto riguarda i miei film, ho sempre voluto che fossero come me: molto giapponesi.

Nel 1951 ero assistente alla regia, e lo sono stato per sei anni. Sapevo già che avrei creato qualcosa, intendo dire come regista. Pensavo espressamente al mio futuro e sapevo che avrei dovuto soffrire molto per raggiungere i miei obiettivi. Ero consapevole del fatto che se volevo sviluppare e realizzare le mie idee, avrei prima dovuto comprendere me stesso e le influenze culturali che mi avevano formato. Mi resi conto che il mio cinema sarebbe stato veramente internazionale solo se fosse scaturito dal conflitto interno alla cultura e all'ideologia giapponese.

Spesso si crede che più si va a ritroso nella storia, più ci si avvicini alle proprie radici; non credo che sia vero. Sin dai tempi più remoti, il Giappone è stato influenzato, in diversa misura, dalle culture straniere. La cultura indiana, ad esempio, è filtrata in Giappone attraverso la Cina, e quella cinese attraverso la Corea. Visto che l'oceano Pacifico non poteva essere attraversato verso est fino alle Americhe, tutte queste diverse culture facevano tappa in Giappone contribuendo ad una sorta di fermento, che a sua volta ha dato origine alla bellezza decadente; la cultura Edo, in particolar modo quella Kabuki, ne sono un buon esempio.

Per lungo tempo ho interpretato la tradizione in modo molto personale. Sono convinto, per esempio, che nonostante l'avvicendarsi di influenze esterne, le qualità umane all'interno della società resteranno immutate. In Desiderio inappagato e Desiderio d'omicidio, ad esempio, il punto di vista che ho adottato è quello del folklore quotidiano, mentre La vendetta è mia è l'unico film che non segue questo principio.

Voglio mostrare gli aspetti del reale usando la tecnica della finzione ma mantenendo una certa veridicità, in questo il mio approccio si discosta da quello di Ozu. Ozu si concentrava sull'aspetto estetico dei suoi film, io sugli aspetti del reale. Ozu aspirava ad una sorta di nirvana cinematografico. Quando ero suo assistente, ero molto polemico nei suoi riguardi, mentre oggi, sebbene i suoi film ancora non mi piacciano, sono molto più tollerante. Per quanto mi riguarda, vorrei distruggere la premessa del cinema come finzione.

Alcuni cineasti come Ōshima ad esempio, osserveranno attentamente l'evoluzione del cinema cercando di decidere a che corrente appartenere. In seguito, a seconda della decisione, sceglieranno un soggetto. Quando io scelgo un soggetto, lo faccio perché lo sento, un po' come un animale. È nella mia natura. Evaprazione dell'uomo e La storia del Giappone del dopoguerra... sono essenzialmente dei documentari attraverso i quali ho cercato di rivelare qualche verità nascosta sulla vita reale, trasformandoli così in semi finzione.

Lavoro con gli attori in modo molto diverso da Ozu, che li istruisce su ogni dettaglio: "vai avanti di tre passi, prendi il telefono e chinati di 30 gradi a destra, parla solo dopo tre segnali luminosi" etc. Io cerco di comunicare più apertamente con loro, raccontandogli la storia del film e parlando del più e del meno. Devo comunque spiegare un minimo all'inizio della ripresa, ma cerco di lasciarli liberi, nel limite del possibile, di recitare come preferiscono.

Il metodo di Ozu richiede agli attori di comprendere il suo modo di sentire e il suo approccio. Se non lo fanno, crede che siano dei cattivi attori. Io non ho questa fede cieca negli attori, ho bisogno di parlare con loro di famiglia, educazione, etc. Parliamo della vita di tutti i giorni o di ciò che abbiamo fatto la sera prima. Spesso continuiamo a parlare anche sull'autobus che ci porta sul set, talmente a lungo che nessuno vuole più sedersi accanto a me!

Preferisco filmare aspetti del reale. Se i miei film sono imprecisi, è forse perché non mi piace un cinema troppo perfetto. Il pubblico non deve ammirare gli aspetti tecnici del mio cinema, come farebbero un computer o delle leggi fisiche.

Dichiarazioni tratte da un intervista di Michel Ciment, in Positif, n° 291.