Un pedofilo e un tipografo conducono vite parallele, entrambi vittime, sofferenti e abbandonate al loro destino, soggetti passivi e malati, schiacciati da una realtà che non riescono a dominare.

 

Il cinema coreano partecipa al Torino Filmfestival 2010, oltre che con l'atteso I Saw the Devil di Kim Ji-woon, fuori concorso, nella sezione Festa Mobile, con Animal Town di Kyuhwan Jeon, secondo capitolo di una trilogia che ha come referente la contemporanea città d Seul. Protagoniste due storie parallele di uomini abbandonati a se stessi, inetti, in una periferica metropoli anonima, alienata ed alienante, come i personaggi che la popolano.

Un realismo spiccio, schietto, agli antipodi della spettacolarità, lontano dalla semplice retorica, il quale si colloca fra documentarismo ed introspezione. Una visione, se si vuole, cinica, umoristica, che ha per oggetto la frustrazione, la crisi, economica e morale, collettiva ed individuale. 

Un pedofilo e un tipografo conducono vite parallele, entrambi vittime, sofferenti e abbandonate al loro destino, soggetti passivi e malati, schiacciati da una realtà che non riescono a dominare.

Tutto rientra in una routine indifferente in cui i personaggi non riescono a reagire, in cui la loro stessa percezione, come quella dello spettatore, è filtrata attraverso una  banalizzazione degli aspetti della vita quotidiana, del lavoro, dei rapporti umani, della famiglia, quindi, delle istituzioni, della fede. L'individuo non agisce se non per un'inerzia condizionata da elementari pulsioni, non instaura legami, è al massimo fonte di compassione, è ovviamente impotente e non può incontrare che antagonisti lungo il suo percorso.  La solitudine come malattia, ossessiva, depressiva, ma anche naturale e congenita. Non solo il pedofilo, lavoratore precario, e il tipografo, imprenditore lacerato dal lutto, ma anche la bimba homeless, potenziale vittima, è abbandonata, taciturna e indifesa, con il suo passeggino vuoto, come a rappresentare l'emblema di una comunità che in comune ha solamente l'atto del vagabondare, sia fisico, che psichico. Personaggio apparentemente marginale, la bambina, svolge inoltre un ruolo narrativo di connessione fra i diversi percorsi narrativi trovando, in direzione dell'epilogo, una specifica funzione, non solo simbolica, ma anche drammatica.

La malattia sociale, l'abbandono, è ben evidente nei gesti quotidiani, chiaramente visibile nelle espressioni del volto, nei primi piani, negli sguardi nel vuoto, nella inglobante solitudine fatta di silenzi. Questa molteplicità di motivi che formano il tessuto narrativo e visivo sono sintomi di una visione, che pur simulando un certo distacco e una sua neutralità, rivela con sensibilità il silenzioso e trattenuto dramma interiore che permea ogni personaggio. 

Tutto è negato, il desiderio è represso, i protagonisti rimangono in balia di situazioni che non li riguardano, nei confronti delle quali non possono che essere passivi. Anche il suicidio, atto estremo di risoluzione, non trova il suo compimento, ma anzi è fonte di ulteriore umiliazione.

La messa in scena infatti privilegia i protagonisti isolati, immersi nel loro ambiente grigio e di colori sbiaditi, in una periferia sventrata, con cantieri aperti e lavori bloccati, dentro singolari interni di officine o appartamenti di fatiscenti palazzi in attesa di demolizione. La macchina da presa sporca le immagini attraverso i vetri sudici e le sbarre, come ad imprigionare il protagonista pedofilo in un destino che gli è proprio. A tratti la macchina a mano, l'eccessiva esposizione, rimandano ad uno stile volutamente dimesso che si alterna ad espliciti punti ciechi visivi: intermittenze di schermi neri che occludono la visione, inframmezzano la linearità visiva, come a spingere in un fuoricampo scontato e sottinteso.

La colonna sonora  è caratterizzata da pochi dialoghi, niente musica, ma prevalenti rumori assordanti, cittadini, di macchine al lavoro che immergono in un'atmosfera metropolitana senza pace, ridondante e ossessiva. Il tono ironico dei notiziari fuoricampo, le informazioni relative ad animali selvatici che circolano per la città, si tramuta in elemento tragico, nell'epilogo improvviso. 

La soggettività è restituita, non tanto attraverso raccordi sintattici di inquadrature del personaggio e dell'oggetto del desiderio, quanto attraverso una dominante presenza sullo schermo dei protagonisti, la coesistenza di un mondo immaginario e parallelo nel caso del tipografo, l'ansia, la labilità mentale del pedofilo, le sue incontrollate reazioni, che imboccano una via maggiormente narrativa in vista della risoluzione. Infatti il montaggio tende a privilegiare l'elemento descrittivo piuttosto che l'articolazione dell'intreccio: azioni isolate e reazioni slegate, che si accumulano, scandiscono una routine monotona, trovano la loro giustificazione nell'esasperazione di un omicidio violento quanto incontrollato, il quale incombe improvvisamente nella piatta quotidianità.

Il ritmo disteso, il tempo dilatato, si fanno più contratti e dinamici quando gli elementi frammentati della narrazione, personaggi ed eventi, convergono avviando una concatenazione di effetti drammatici. 

È un ritratto desolante della città, come degli stili di vita che la popolano, di destini incrociati, in una rete di relazioni casuali in cui regna un diffuso senso di impotenza e annichilimento. Uno sguardo disincantato sulla povertà, sulla crisi economica, sulla solitudine, sullo smarrimento, sul dramma contemporaneo dell'uomo abbandonato a se stesso in un luogo anonimo, in cui ognuno vive la sua esistenza problematica.

Davide Morello