N. 8, 01/2008 - Donne in esilio. Esperienze, memorie, scritture 
DEP - Deportate, esuli, profughe

Questo numero della rivista affronta principalmente il tema dell’esilio attraverso la ricostruzione storica di esperienze collettive e individuali e l’analisi di significative rappresentazioni letterarie, nelle quali quelle esperienze si sono travasate, nonché di materiali più propriamente autobiografici. In particolare la rubrica Saggi raccoglie le relazioni svolte nell’ambito del convegno organizzato da DEP a Venezia il 12-13 ottobre 2006 dal titolo Donne in esilio. Esperienze, memorie, scritture.

I contributi che compaiono nelle altre rubriche della rivista, e in particolare nella rubrica Documenti allargano le tematiche affrontate al convegno agli esuli del 1848, all’espulsione degli “stranieri indesiderabili” nell’America del primo dopoguerra, al destino dei pacifisti tedeschi dopo l’avvento del nazismo.

Numero completo

file pdfN. 8 del 01/2008 - Donne in esilio. Esperienze, memorie, scritture
a cura di Bruna Bianchi e Adriana Lotto
6.74 M

Singoli contributi

Ricerche

file pdfLina Zecchi, Il doppio esilio di Irène Némirovsky
Le vicende di Irène Némirovsky ci pongono di fronte a un problema di identità, di appartenenza culturale, di cittadinanza e di esilio. Imprigionata in una sorta di eterno limbo, in strutture diasporiche che nel breve corso della sua vita si ripetono con allucinante regolarità, trascinata in una serie di erranze e identità provvisorie, la cifra segreta di Irène Némirovsky, rinvenibile nei suoi romanzi, è la scissione, la separazione, l’appartenenza per esclusione, l’eterna marginalità. Si spiega così la scelta, allo scoppio della guerra, di non voler più fuggire né di affrontare un ulteriore esilio. Morirà a Auschwitz.
237 K
file pdfAdriana Lotto, Il diario di Käthe Kollwitz
Di fronte al nazismo ci fu chi decise di abbandonare la Germania e chi, come Käthe Kollwitz, preferì restare in patria, in una sorta di “esilio interno”. Perseguitata prima, sorvegliata poi, costretta dentro una dimensione di vita angusta, prevalentemente famigliare e amicale, in altri termini privata, l’artista tedesca non perse tuttavia mai di vista quanto accadeva fuori, in Germania e nel mondo, riuscendo a trasformare lavoro, amicizie, occasioni in appigli esistenziali e in personali manifestazioni di opposizione al nazismo e al militarismo.
221 K
file pdfEulalia Vega, L’esilio francese di Antonia Fontanillas, militante anarchica
Dei 450.000 spagnoli, che nel gennaio-febbraio 1930 varcarono a piedi nella neve alta i Pirenei, 80.000 erano militanti e simpatizzanti anarchici. Tra essi vi erano molte donne e una in particolare: Antonia Fontanillas, tuttora vivente a Barcellona. Tutti vissero l’esilio come periodo transitorio, stretti tra il ricordo del passato e la speranza del futuro, così da preservare la propria identità e la memoria attraverso la pubblicistica. Antonia Fontanillas collaborò a molte riviste, facendo della militanza l’elemento fondante della sua identità.
247 K
file pdfEugenia Scarzanella, Il pipistrello e la colomba: Clara Campoamor e Isabel de Palencia in esilio
L’esilio, cui molte donne spagnole furono costrette dopo la fine della repubblica e della guerra civile, si presentò per lo più o come destierro (sradicamento) o come transtierro (trapianto). Sono questi i casi di Clara Campoamor, definita pipistrello, ovvero “animale strano, solitario e errante”, e di Isabel de Palencia, colomba guerriera. Ad accomunarle un’unica ossessione: la consapevolezza dell’impossibilità del ritorno.
434 K
file pdfCamilla Cattarulla, Donne ed esilio nell’immaginario argentino: appunti per un’ipotesi di genere
Negli anni ‘70 del XX secolo migliaia di donne di Cile, Argentina, Uruguay furono costrette all’esilio. Alcune di esse scrissero della loro esperienza riconducendola all’identità nazionale in cui entrano in gioco il rapporto dell’io/noi con l’altro, l’accettazione o negazione delle origini (o anche la ricostruzione delle stesse), la dialettica Europa/America, la frontiera culturale e il rapporto centro/periferia, mentre la trama è programmaticamente tesa verso la ricostruzione di un “io”, di un’unità che le diverse esperienze di rottura hanno frantumato in maniera più o meno conflittuale.
175 K
file pdfClaudio Venza, Compagne devote. Le donne della famiglia Berneri nell’esilio francese (1926-1940)
Nel 1925 prese avvio il fenomeno del cosiddetto “fuoriuscitismo” degli antifascisti in Francia. Tra le difficoltà che essi incontrarono vi furono quelle legate alla sopravvivenza assai spesso affidata all’intraprendenza e al lavoro delle donne, come nel caso di Camillo Berneri. Dopo la sua morte, sarà proprio la moglie Giovanna a portare avanti l’attività politica dell’anarchico (“era un modo per non perderlo”), consolata anche dal fatto che grazie suo sacrificio di anni “le bambine hanno potuto avere un’istruzione che non avrebbero potuto avere altrimenti”.
212 K
file pdfBenedetta Contin, “La mia anima esiliata”. Vita e la produzione artistica di Zabel Yesayean
Dopo alcune considerazioni sulla figura della donna nella società e nella cultura armena tradizionale e sul suo ruolo nella trasmissione dei valori e delle virtù fondanti l’idea stessa di nazione, il saggio si sofferma, attraverso due testi letterari, sull’esperienza dell’esilio, seguito al genocidio del 1915, esperienza che appare materiale e spirituale al tempo stesso, ovvero di perdita della patria e di ricreazione della stessa nell’immaginario individuale e collettivo.
260 K
file pdfFederica Passi, Taibei, 1949: l’esilio dalla terraferma nei personaggi femminili di Bai Xianyong
Nel 1949, con la vittoria dei comunisti nella guerra civile cinese, circa due milioni di cinesi fuggirono a Taiwan al seguito dell'esercito nazionalista. Il dolore cocente e la nostalgia per la propria terra e (spesso) per la propria famiglia, la difficoltà ad adattarsi e riconoscersi in una realtà che doveva essere solo temporanea, i tentativi disperati di mantenere viva la propria identità, sono elementi che vengono sviluppati con risultati artistici notevoli in una raccolta di novelle dello scrittore Bai Xianyong.
192 K
file pdfMelita Richter Malabotta, L’esilio nelle opere delle scrittrici dell'ex Jugoslavia
Posto che l’esilio si configura come condizione esistenziale capace di produrre testi letterari bellissimi, l’autrice distingue un esilio interno, proprio delle donne della ex-Jugoslavia fuggite oltre i confini dei nuovi Stati e per questo ferventi oppositrici di qualsiasi nazionalismo, e un esilio che proprio perché legato al passato è capace di creare legami e di sostanziarli in un progetto politico, ovvero di non cancellare la vita e le esperienze precedenti e nemmeno di abbandonare la dimensione politica dell’esistenza.
210 K

Documenti

file pdfLettere dall’America di Hans Kudlich
a cura di A. Lotto. Hans Kudlich, giovane democratico austriaco, dopo il 1848 fu costretto a riparare in Svizzera e in seguito in America. Nelle sue lettere traspare netto il ricordo di un viaggio pieno di incognite, ma soprattutto la volontà di continuare la propria battaglia per la democrazia in America, per diventare cittadino a tutti gli effetti di quel paese, conscio che “indietro non si torna”.
353 K
file pdfScritti sull'esilio di Emma Goldman
a cura di B. Bianchi
765 K
file pdfFrammenti di vita, di Helene Stöcker
a cura di B. Bianchi
611 K

Interviste e testimonianze

Strumenti di ricerca

Recensioni

"Auschwitz oggi" immagini e commento di Emilia Magnanini

Nei giorni 1 e 2 marzo 2007 ho visitato Auschwitz nell'ambito di un viaggio della memoria organizzato dall'Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea (Istoreco) di Reggio Emilia. Già la scelta del verbo di questa frase è stata difficicilissima. Avrei potuto dire "sono stata ad Auschwitz" oppure "mi sono recata ad Auschwitz", ma nessuna di queste soluzioni può adeguatamente esprimere ciò che si prova ad Auschwitz. Anche "visitare Auschwitz" è un'espressione impropria, poiché nella concezione corrente si "visita" una città o un luogo, per lo più interessanti per le bellezze artistiche o per il valore paesaggistico. Auschwitz è un luogo tremendo per le emozioni che suscita e per le riflessioni che induce, ma è anche un non luogo, soprattutto nel territorio del campo n. 2 di Birkenau: una landa desolata, spazzata dal vento e cosparsa di rovine, essendosi conservate integre poche costruzioni in muratura e un numero ancora inferiore di baracche di legno, ma recintata quasi in ogni suo centimetro. La recinzione non solo separa il campo dal mondo esterno, ma all'interno del campo delimita con precisione maniacale ogni settore e divide: le donne dagli uomini, le famiglie dai singoli, gli ebrei dagli zingari e, soprattutto, ciò che è a perdere, gli uomini, da ciò che è da conservare e riutilizzare, le loro cose. Il campo, luogo dello sterminio, all'epoca era circondato da non luoghi: chilometri e chilometri di terra che i nazisti spopolarono perché nessuno doveva vedere i delitti che venivano quotidianamente consumati al suo interno. Oggi i due siti che si sono conservati del complesso sistema concentrazionario che va sotto il nome di Auschwitz: - Auschwitz I, il campo organizzato nel 1940 nelle caserme dell'esercito polacco, disciolto dopo la spartizione della Polonia, nei pressi della cittadina di Oswiecim, e Auschwitz II-Birkenau, il campo costruito nel 1941 dal lavoro dei prigionieri di guerra sovietici, che vi morirono a migliaia, nei pressi del villaggio di Brzezinka - sono circondati da luoghi, i luoghi della nostra vita moderna, e sono essi a sembrarci dei non luoghi, i buchi della nostra coscienza storica. Perciò si può e si deve "visitare" Auschwitz nel senso di prendere conoscenza diretta di ciò che è stato e che non deve essere cancellato.

Le foto sono state scattate a Birkenau e ritraggono la recinzione esterna (foto 1) e le recinzioni interne dei settori maschili e delle famiglie ebree (foto 2 e 3) e del settore dei magazzini in cui venivano smistati gli averi depredati ai deportati, chiamato "Canada" dagli stessi prigionieri.

A Birkenau nella cosiddetta "sauna", l'edificio dove venivano avviati i deportati ritenuti abili al lavoro per le operazioni di registrazione, si attraversa lo stanzone gelido della doccia si passa accanto a una serie di autoclavi per la disinfestazione degli abiti e, poi, all'improvviso, ti viene incontro un  muro di volti: giovani e vecchi, sorridenti e seri. Sono una piccola parte delle 20.000 fotografie di uomini, donne e bambini non identificati, ritrovate tra gli effetti dei deportati. Il nostro accompagnatore, Henryk Swiebocki, ex direttore del museo di Auschwitz, ora a riposo, ci spiega che in tutto sono state ritrovate ad Auschwitz circa 80.000 foto appartenenti ai deportati scomparsi nelle camere a gas. Grazie al paziente lavoro dei  ricercatori, in circa 60.000 casi è stata ricostruita l'identità delle persone ritratte. Ma delle persone che ti guardano da questo muro della memoria non è rimasto nulla, se non una fuggevole immagine. I loro occhi ti incatenano, guardi questi frammenti di vita e ti prende un'angoscia profonda, un bisogno di restituire a questi esseri umani svaniti nel nulla almeno l'onore della memoria.

In un'altra sala, del museo di Auschwitz I, le cui pareti sono interamente tappezzate delle schede dell'archivio del campo, mi hanno colpito le foto di tre bambine polacche, registrate tra i prigionieri del campo il 13 dicembre 1943: Kriszta, di 13 anni, col numero 26868, Czeslawa, di 14 anni, col numero 26947, e Michalina, di 13 anni, col numero 27018. Kriszta è stata trasferita ad altro campo, di lei non sappiamo più nulla; Czeslawa è morta dopo tre mesi, il 13 marzo 1943, e Michalina ha resistito per oltre un anno e mezzo, essendo morta l'8 agosto 1944. Czeslawa ha lo sguardo spaventato, come la maggior parte dei detenuti ritratti nelle schede e, come loro, ha resistito poco alle dure condizioni del campo (la maggior parte dei prigionieri destinati al lavoro sopravvivevano dai tre ai sei mesi), ma Kriszta e, soprattutto, Michalina guardano con aria di sfida il nazista che scatta la foto segnaletica. Nei loro occhi di bambine si legge una voglia di opporre resistenza e di affermare il proprio diritto all'esistenza.

Migliaia e migliaia di scarpe ammucchiate, una montagna di occhiali, tonnellate di capelli, centinaia e centinaia di protesi, una caterva di valigie sulle quali stanno scritti col gesso il nome, la città, la data di nascita di chi vi aveva riposto le sue, spesso povere, cose: la vera percezione dello sterminio si ha qui, nelle sale del museo di Auschwitz I. Un paio d'occhiali è una persona; una valigia è un'intera vita; le scarpe sono un mare ormai polveroso e quasi indistinto, ma qua e là spuntano una scarpa da donna rossa o bianca, che avevano la pretesa di essere eleganti, indossate, immagino, da una giovane donna per andare a ballare o nei giorni della festa, oppure piccole scarpette nelle quali hanno corso dei piedi di bambino. Gli esseri umani che hanno posseduto quelle cose sono stati tramutati in cenere, cancellati, ma l'abiezione dei loro carnefici, che non si sono fatti scrupolo di voler trarre profitto fino in ultimo dalla loro aberrante volontà sterminatrice, ha impedito loro di cancellare anche quest'ultima traccia: le cose. Certo, è penoso rappresentarsi un uomo attraverso un oggetto da lui posseduto, ma la quantità spropositata di tutti quegli oggetti riuniti costituiscono oggi la più eloquente, e visivamente violenta, testimonianza dell'olocausto.

Lo sterminio era organizzato con raccapricciante efficienza. Oggi le testimonianze di questa "efficienza" si trovano suddivise nei due siti del Museo: Auschwitz I e Birkenau. All'inizio dell'attività del secondo campo i treni arrivavano allo scalo merci della stazione di Oswiecim e i deportati percorrevano a piedi un tratto di circa 1 km per arrivare a Birkenau. In seguito la ferrovia venne prolungata fino all'interno del lager e i deportati venivano fatti scendere in un'area situata tra i crematori II e III, dove avveniva immediatamente la selezione. Dei quattro crematori che erano in funzione nel campo di Birkenau sono rimaste solo le rovine: tre, i numeri II, III e V, vennero fatti saltare dai nazisti nel tentativo di cancellare le tracce, ma è rimasta, a testimonianza dello sterminio, una quantità impressionante di barattoli vuoti di cianuro; il crematorio IV venne distrutto durante la rivolta dei prigionieri del Sonderkommando del 7 ottobre 1944. Oggi è rimasto solo il crematorio I, che si trova nel campo madre di Auschwitz I. Nella "sauna" di Birkenau è esposta una carriola adibita al trasporto delle ceneri, che venivano poi gettate in uno stagno presente nel territorio del campo e in altri corsi d'acqua.

Il filo spinato è dovunque, in linee singole, doppie o triple delimita il campo, i settori, i camminamenti tra i settori, è il più evidente simbolo rivelatore dell'ossessione ideologica che sta dietro alla politica dello sterminio: separare, dividere ciò che si è separato, isolarlo e, infine, annientarlo.

La maggior parte delle baracche di Birkenau, quelle del settore maschile, delle famiglie ebree ungheresi, degli zingari e della  quarantena erano di legno. Si sono conservati solo i camini delle stufe, spettrali, fitti come una selva e tenuti insieme dal filo spinato e le baracche della quarantena. Nel settore femminile le baracche erano di muratura.

Una vita di stenti e tormenti toccava in sorte a chi era risparmiato dalla selezione. Fame, freddo, promiscuità e sporcizia s'intuiscono fin troppo bene davanti all'esiguità della razione, alle sottili divise indossate dai prigionieri, alle cupe condizioni degli interni delle baracche, dove su ogni riquadro dei castelli di tavolacci dovevano trovar posto dai 4 agli 8 prigionieri, alle latrine, cui del resto era possibile accedere solo in momenti prestabiliti. Nulla si può vedere oggi a testimonianza delle pesanti condizioni di lavoro cui erano sottoposti i prigionieri, ma ce lo raccontano in modo eloquente le loro schede di registrazione, meticolosamente compilate e conservate dai nazisti: pochi giorni, un mese, tre mesi, sei mesi. Sono rari gli internati sopravvissuti per più di un anno.

Finestre del campo madre di Auschwitz. Il complesso militare di Oswiecim doveva apparire come un  luogo molto tetro anche quando era utilizzato per i suoi scopi originari. A maggior ragione lo divenne alla sua trasformazione in campo di concentramento. La recinzione è tripla: un muro di cemento e due linee di filo spinato attraversato dalla corrente elettrica. Qui non ci sono baracche, ma blocchi: edifici a due piani di mattoni inscuriti dal tempo, disposti con regolarità geometrica, nei quali vivevano ammassati migliaia di prigionieri condannati al lavoro forzato. Ma qui c'erano anche, nel blocco n. 10, i laboratori dove venivano compiuti mostruosi esperimenti medici, in particolare sulla sterilizzazione delle donne, e il carcere interno al campo, dove venivano processati e condannati alla tortura o alla fucilazione i prigionieri che si ribellavano, che tentavano di evadere o che, semplicemente, commettevano qualche infrazione alla ferrea disciplina del campo. I blocchi oggi ospitano le sale del museo, cariche di tutti quei reperti che testimoniano lo sterminio. Sono rimaste le finestre a restituirci qualche impressione di come doveva essere stato il campo: la tetraggine di un blocco "normale", ma, soprattutto, la percezione tangibile della crudeltà elevata a sistema che si percepisce nel "cortile della morte". È il luogo, situato tra un blocco comune e il blocco che ospitava il carcere, dove avvenivano le fucilazioni (i prigionieri venivano fucilati nudi per risparmiare sulle divise, che non dovevano essere forate né, tanto meno, macchiate di sangue). Nel blocco comune, sul lato sinistro di questo cortile, le finestre sono oscurate da tavole di legno, perché i prigionieri non dovevano vedere, ma certo non potevano non sentire le grida delle vittime e dei loro carnefici. A destra le finestre del carcere presentano un catalogo delle atrocità: finestre quasi interamente murate, finestrini di celle sotterranee, dove non arrivavano quasi né luce né aria, e il finestrino blindato in ghisa con solo pochi fori per l'aria della cella di tortura, in cui venivano richiusi contemporaneamente decine di prigionieri, destinati a morire per asfissia.

Last update: 17/04/2024